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Un anno fa: per non dimenticare Enzo
Pino Scaccia - 28-08-2005
Baghdad, 27 agosto 2004 - Quando parlavamo di gabbiani e liberta'. Ho gia' speso molte parole. Non ne avevo voglia, ma l'ho dovuto fare perche' questo e' il mio mestiere. Quello spiritaccio restera' dentro di me, non sparira'. Non so ancora come, ma la sua voglia di vivere sara' raccolta come un patrimonio. E' come se ancora lo aspettassi per quell'appuntamento che mi aveva dato la sera dopo. Lo prendo semplicemente come un ritardo: lo aspetto ancora per avere quelle foto che mi ha scattato quel giorno a Najaf che non ho mai visto e non vedro' mai. Lo aspetto da un momento all'altro che arrivi dinoccolato a prendersi quella cassetta che Silvio gli ha preparato. Rideva: "A reti unificate..." Il destino ha voluto che succedesse ancora. Quando Mahdi, il mio Ghareeb, mi ha visto stamattina, mi ha abbracciato: "I'm sorry, Pino, a nome di tutti gli irakeni". Gli ho spiegato che Enzo non ce l'aveva con l'Iraq, anzi l'amava. E sicuramente non ce l'ha con l'Iraq neppure adesso.

Enzo aveva un'idea cosi' forte della vita da parlare spesso della morte. Parlarne senza paura, quasi deridendola. Cosi' fra i ricordi che mi legano a questo reporter entusiasta e sfortunato, mi ritrovo quello che appena una settimana fa, non mi ero accorto fosse un vero e proprio testamento. Addirittura aveva scherzato sui suoi funerali, li aveva raccontati come di un evento lontanissimo e in qualche modo festoso, non un momento di lutto: "Voglio che si rida, avete notato? Ai funerali si finisce sempre per ridere: è naturale, la vita prende il sopravvento sulla morte. E si fumi tranquillamente tutto ciò che si vuole. Non mi dispiacerebbe se nascessero nuovi amori. Una sveltina su un soppalco defilato non la considerei un'offesa alla morte, bensì un'offerta alla vita.Verso le otto o le nove, senta tante cerimonie, la mia bara venga portata via in punta di piedi e avviata al crematorio, mentre la musica e la festa continueranno fino a notte inoltrata. Le mie ceneri in mare, direi. Ma fate voi, cazzo mi frega".
Esercizi letterari, forse. Pero', la notte prima dell'ultimo viaggio, il discorso si fa piu' serio, meno ironico. "Mettiamola così: nelle prossime 24 ore ho la possibilità abbastanza concreta di crepare. Ovviamente non succederà ma, se dovesse succedere, sappiate che sono morto felice facendo quello che più mi piace al mondo: viaggiare in Paesi che non hanno mai visto un turista prima di me." Forse affiora davvero, per la prima volta, la paura. E' successo a ognuno di noi. Ma non tutti hanno la fortuna di raccontarlo.

Qualcosa in comune sicuramente c'era. Altrimenti non ci saremmo ritrovati insieme davanti al buco di quella granata, nel giardino del "Palestine", quella notte. Ma non ci siamo piaciuti subito. Intanto perche' quella che ci aveva tanto spaventato io la chiamavo bomba e lui rosa scarlatta. Enzo Baldoni non era normale. Cercai di capire chi era, perche' stava li'. "Sono un viaggiatore pigro e un ficcanaso, oppure un fesso che scrive, fai te". Pigro? Faceva foto, sempre, dappertutto. Aveva una certa genialita' nel rivoltare la frittata: "E' la quinta volta che vieni in Iraq, ma chi te lo fa fare?". Inutile spiegargli che e' il mio mestiere. Scoprimmo almeno di avere una cosa in comune, anzi due: la voglia di capire e i blog. Io cominciai a leggere il suo e scoprii che aveva grandi intuiti da cronista. Lui scopri', leggendo il mio, che "anche i giornalisti hanno un'anima". Il giorno che lascio' l'albergo per trasferirsi nella casa di Ghareeb (non l'avesse mai fatto) mi lancio' un messaggio di amicizia. Ci parlammo molto in quei giorni senza vederci. Per telefono (malissimo) e per e-mail. Discussioni feroci. Mi accusava di aver rinunciato al primo viaggio a Najaf per paura. Io a spiegargli, ma forse allora non lo convinsi. Perche' le nostre differenze vennero fuori tutte: non quelle personali, ma quelle piu' concrete legate a cio' che facevamo. Discutemmo di liberta' e di gabbiani. Discussioni feroci. Facemmo pace quando al ritorno lo andai ad intervistare in ospedale. Inguaribile. Litigammo ancora, piu' seriamente per il secondo viaggio. Alle due di notte, per un'ora, e dovevamo svegliarci alle cinque. Quelli che a lui piacevano, non piacevano a me. Lui si fidava ciecamente di tutti, invece io lo invitavo alla prudenza. Discutere serve. Quando la mattina c'incontrammo ci fu un abbraccio. In silenzio. Cioe' senza parole: le avevamo spese tutte in una notte di Baghdad, forse non casualmente, cosi' piena di botti. Quando, qualche chilometro dopo, il botto lo sentimmo sotto di noi non ebbe piu' il coraggio di chiamarla rosa scarlatta. Io ebbi, lo ammetto, qualche dubbio nel proseguire. Quel viaggio non mi piaceva. Ma andammo avanti. Insieme. Quando poi arrivammo tra cecchini e carri armati in quella stradina di Najaf , mentre faticavo a parlare al microfono per i botti che rimbombavano, Enzo mi scatto' un sacco di foto e sorrise: "Ma lo sai che fai proprio un mestiere di merda?". Era la consacrazione di un'amicizia. Del resto, so per esperienza che i rapporti fra noi "zingari" si saldano alla prima avventura in comune. Purtroppo e' stata anche l'ultima.

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