Università e pace in un periodo di concorrenza militare
Antonino Drago - 11-07-2005
1. Studiare la guerra per fare la pace? Le Accademie militari

Dobbiamo tenere presente che c'e' un'Universita' per la guerra: tutte le Accademie militari e le Scuole superiori militari (di guerra, della polizia, ecc.) pretendono di essere al livello universitario. E non hanno problemi a studiare la guerra, perche' sono convinte che solo cosi' i professionisti seri possono fare la pace.
Inoltre occorre tenere presente che c'e' anche un'Universita' civile che e' direttamente legata alla guerra. Non tanto in Italia, ma negli Stati Uniti e nelle grandi nazioni l'Universita' viene assorbita dalla ricerca militare, cioe' per la guerra. In Usa una gran quantita' di persone lavora alla corsa agli armamenti (su una popolazione di 187 milioni l'1% e' dipendente del Pentagono). Attualmente i fondi destinati allo scudo spaziale sono talmente tanti, che chi decide di non aderire, commette una sorta di suicidio accademico, restando in svantaggio sia nei fondi per il suo campo di ricerca, sia per la propria carriera.
sulla rivista dei fisici americani Physics today", e' comparso un interessante articolo: un editoriale di Charles Schwarz, che e' un noto fisico, impegnato per la pace (2). Le sue considerazioni erano molto sconsolanti: ci sono diversi modi di collaborare con i militari. Il primo e' lavorare a pieno tempo per i militari; negli Usa degli anni '80 la meta' degli scienziati lo faceva (3). C'e' poi un'altra maniera, quella di fare i consulenti per i militari. E ce n'e' un'altra ancora: fare i consulenti per i partiti sulle questioni militari. "Infine c'e' un altro modo (dice Schwarz), di cui mi sono reso conto con sgomento da poco, che e' quello di insegnare fisica all'Universita'. Io insegno a Berkeley, in California, dove la meta' dei fisici che si laurea viene poi assunta dai militari. Allora mi chiedo: come insegnante universitario di fisica, di chi sono al servizio, di una cultura civile o di una cultura militare? I militari, che hanno bisogno di molti fisici usano l'Universita' civile per risparmiare soldi; di fatto questa mia Universita', per meta', serve ai militari. Allora, la domenica io posso anche partecipare alle marce per la pace, ma se gli altri sei giorni lavoro in definitiva per i militari, che senso ha la mia attivita'? Io non ho risposta. Pero' quantomeno pongo il problema" (Ha poi pubblicato una serie di opuscoli per mettere in guardia gli studenti dall'impiego militare).
In effetti ci e' facile dimenticare questo studio per la guerra compiuto a livello universitario; perche' da secoli noi abbiamo scorporato la parte militare da quella civile della societa', dopodiche' non ci pensiamo piu' (salvo richiamarla in tempo di guerra). E invece essa e' presente, tanto piu' in questi tempi, come ha fatto rilevare Schwartz.
Eppure la scorporazione della parte militare dalla societa' civile non e' stata una soluzione molto felice. Ad esempio essa cozza con il concetto di Universitas studiorum. L'Universita' e' nata per l'universalita' degli studi; ma gli studi sulla guerra sono stati staccati e portati dentro le Accademie militari. Cosicche' la societa' civile non si e' piu' interessata alla riflessione sulla guerra e su cio' che la riguarda.
E invece se la societa' civile vuole la pace, oggi deve riappropriarsi di quella cultura bellica per sapere come superarla; quindi deve studiare la guerra, le guerre e le loro caratteristiche. Allora si deve studiare sulla guerra, il che gia' e' un'altra cosa che non per la guerra.
Di recente mi sono occupato di un pensiero strategico che e' interessantissimo... Clausewitz confronta la guerra assoluta, compiuta senza tenere conto della politica, e la guerra reale, che deve restare dentro i condizionamenti della vita concreta, tra i quali quelli della politica.
Egli arriva a vette intellettuali che sarebbe importante recuperare.
Nell'insegnamento di fisica delle scuole superiori si tratterebbe inoltre di insegnare ad esempio come sono fatte le armi nucleari, non come adesso, quando i libri di fisica o non trattano il tema, o dicono che la bomba nucleare fa un "grande scoppio". Come si vede ora siamo in un terreno su cui si puo' arrivare da due punti di vista opposti, militare e civile.
Un ulteriore gradino e' un'Universita' che studia sulla pace. Ad esempio, per vedere se la natura umana e' portata alla guerra, o puo' liberarsene. La famosa Dichiarazione di Siviglia dell'Unesco (4) nega che la pace sia un'utopia nonostante molti sostengano la tesi contraria secondo le varie teorie psicologiche, sociologiche, socio-biologiche. Sulla pace quindi ci sono tantissime cose da dire, considerando la pace come un oggetto di studio.

2. L'Universita' come terreno di scontro con i militari: i corsi di laurea civili per i militari

Ma dobbiamo renderci conto che su questo tema (lo studio sulla pace) i militari italiani hanno proposto e realizzato una loro soluzione: cavalcare ambedue le culture. Dal 1995 gli ufficiali devono tutti laurearsi in materie civili. Le Accademie militari, le Scuole di polizia ecc. hanno istituito corsi di laurea civili (Giurisprudenza, Scienze politiche...) alla fine dei quali si ottengono lauree, con l'esame fatto presso l'Universita' piu' vicina, in modo da poter far valere una laurea proprio civile.
La convenzione sottoscritta dall'Accademia militare aereonautica di Pozzuoli con l'Universita' "Federico II" di Napoli dice con chiarezza oscena che i cadetti si devono laureare perche' poi nella vita civile debbono assumere posti di comando; quindi debbono avere una doppia faccia, per presentarsi nella vita civile in posizioni di forza culturale, su guerra e pace. E' il rilancio in forze dell'apparato militare come luogo di cultura superiore, ai massimi livelli.
Questa attivita' dei militari, dare lauree civili, travasa professori universitari ai militari; molti vengono chiamati ad insegnare nei corsi civili delle Accademie: le Accademie offrono grossi vantaggi, di carriera ed economici, ai professori universitari; basti pensare che in Italia nemmeno sappiamo bene a quanto ammonta il bilancio per la Difesa (comunque attorno ai venti miliardi di euro). Cosi' si crea un legame forte tra i militari e una parte della docenza civile (e con una parte della societa' civile in generale).
In definitiva, oggi c'e' un conflitto sulla formazione accademica sul tema pace: i militari stanno tirando la coperta dalla parte loro, con il motivo che la vera pace e' quella che fanno loro, al di la' dei "dilettantismi dell'ultim'ora".
Anche nella applicazione professionale immediata degli studi per la pace, il peacekeeping, c'e' una invasione di campo da parte dei militari.
Dal 1990 in Austria, a Stadtschlaining, c'e' un corso di peacekeeping che e' stato organizzato da un ex ambasciatore convertito alla pace; questo corso e' d'esempio per il mondo, sia per l'insegnamento ben direzionato, sia per i docenti del piu' alto livello internazionale.
In Italia dal 1995 i militari hanno iniziato ad invadere la formazione al peacekeeping. E' stato il Centro Militare Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) a promuovere, assieme con la Scuola S. Anna di Pisa (che non ha nulla di religioso, e' il vecchio nome di un convento-collegio), un corso post-laurea su questo argomento (al costo di svariate migliaia di euro per il frequentante); dove il generale Loi ha chiuso il primo corso dicendo che in Italia il peacekeeping o e' militare o non e. Il corso, data l'influenza politica del S. Anna e dei militari, ha preso molta importanza. Inoltre i militari hanno aperto altri corsi di peacekeeping: ad es. la Scuola di Guerra di Civitavecchia all'Universita' di Roma 3, proprio l'Universita' dove e' professore A. Riccardi, l'autore degli accordi della Comunita' di S.
Egidio in Mozambico, famoso in tutto il mondo; se lui avesse cominciato un corso di peacekeeping, questo sarebbe diventato molto importante a livello internazionale; allora i militari hanno giocato d'anticipo: hanno preferito l'Universita' ultima arrivata, Roma 3, all'autorevolissima Roma La Sapienza.
Fino all'anno scorso, in Italia le scuole superiori post laurea di peacekeeping erano solo militari (5).

3. L'Universita' per la pace

Tutt'altro discorso e' un'Universita' per la pace. Qui si apre finalmente una prospettiva di studio tipicamente da civili, che vogliono evitare la guerra e quindi studiano la pace. Ma entra in campo l'annosa polemica se la scienza e la cultura debbano essere rigorosamente avalutative o al contrario possano legarsi a valori fondamentali. In questo caso pero' quelli che lavorano per la pace sostengono il loro atteggiamento propositivo con un argomento che, a mio parere, e' inconfutabile e decisivo: sui massimi temi non ci si puo' permettere l'avalutativita', come se fossimo tutti fuori dalla storia: oggi il tipo di difesa mette in gioco la sopravvivenza dell'umanita', a causa di un pericolo mortale, l'uso degli arsenali bellici, che, paradossalmente, l'umanita' stessa ha costruito. Conseguentemente occorre studiare per fare uscire l'umanita' da questa situazione. Anzi, questo atteggiamento intellettuale propositivo e' il migliore atteggiamento possibile per comprendere razionalmente al piu' presto quali scelte collettive possono assicurarci il futuro.
Nel Nord del mondo (Usa, Gran Bretagna, Svezia, Norvegia, ecc.) c'e' una tradizione, lunga un cinquantennio, di Istituti di ricerche per la pace e di studi per la pace all'Universita', con cattedre di Ricerche per la pace e con corsi di laurea specifici (tra i quali ricordo come uno dei piu' importanti quello di Bradford, in Gran Bretagna). Oggi nel mondo intero (Filippine, Hawaii, ecc.) sono molti i corsi di insegnamento su Pace, Diritto internazionale e diritti umani, Problemi globali, Nonviolenza, ecc.
L'Onu ha istituito una Universita' per la pace in Costa Rica (Paese che per quarant'anni ha avuto il coraggio civile di abolire l'esercito). Ogni anno esce una guida a questi corsi nel mondo (6).
Poi il movimento per la pace e le lotte di liberazione del 1989 hanno conquistato un avanzamento di grande importanza. Nel 1992 il segretario generale dell'Onu B. B. Ghali, ha formulato un progetto, l'Agenda per la pace (7), che impegna l'Onu concretamente nel mantenimento della pace nel mondo e prevede le figure di peacemaker, peacekeeper e peacebuilder, dove le ultime due sono anche civili. Si tratta allora di costruire la figura del peacekeeper e peacebuilder civile nel mondo (8).
Ma di fronte alla invadenza militare italiana, che possiamo mettere in gioco noi, che, cercando di interpretare il movimento per la pace, vogliamo costruire una Universita' veramente per la pace e la nonviolenza?
In Italia possiamo far conto su alcuni professori universitari, che lo sono diventati per svariati meriti scientifici e che poi si sono convertiti alla pace o l'hanno studiata il sabato sera. Sono molto pochi, per lo piu' ormai in pensione.
Poi ci sono tre Centri interdipartimentali per la pace: a Bologna, Bari e Pisa. Essi, collegando informalmente i professori della stessa Universita', servono ad organizzare solo qualche convegno o qualche iniziativa tra persone molto indaffarate; inoltre essi subiscono le influenze politiche del momento (adesso frenanti).
A Padova il prof. Papisca dal 1989 ha istituito una Scuola di perfezionamento in diritti umani e dei popoli; per il tema e' parziale, la scuola e' lunga tre anni ed e' costosa. Dal 1998 ha iniziato (assieme a dodici Universita' europee) un corso sul monitoraggio Onu; pero' tutto focalizzato sui diritti piu' che sulla pace (9).
Quattro anni fa, quasi miracolosamente, si e' riusciti a utilizzare la riforma universitaria per trovare uno spiraglio ai temi della pace. La convergenza dell'on. L. Guerzoni (delega all'Universita'), del prof.
Modica (presidente della Conferenza dei rettori italiani) e del prof. Labruna (Presidente del Comitato universitario nazionale) ha fatto inserire la parola "pace" nel titolo della classe di laurea n. 35: Cooperazione allo sviluppo e alla pace. Pero' quest'ultima parola non compare mai nella specificazione delle materie di studio; ma c'e' l'autonomia universitaria e quindi ogni Universita' puo' interpretare quel corso di laurea come vuole.
Sono stati istituiti 21 corsi in quella classe di laurea; tra essi, sulla base di questa piccola apertura, due corsi sono specifici per la pace: A.
L'Abate a Firenze ha costruito un corso di laurea su Operatori di pace; a Pisa altri (tra cui G. Gallo e R. Altieri) un corso di laurea in Scienze per la pace. Sono molti (giovani e non) coloro che si sono iscritti con entusiasmo (sono piu' numerosi che a Scienze politiche). In gran parte le materie sono quelle solite che sa insegnare l'Universita' (Economia, Sociologia, Diritto, Storia, ecc.); in piu' ci sono alcune materie qualificanti; ad es. a Firenze: "Sociologia dei conflitti e ricerca per la pace", "Psicologia della pace", "Teoria dei conflitti", "Storia e tecniche della nonviolenza"; a Pisa: "Metodi e tecniche della nonviolenza" e "Strategie della Difesa popolare nonviolenta", ecc.. Nei concorsi questo titolo di studio e' equiparato a quello di Scienze politiche. Gia' ci sono stati i primi laureati; e quest'anno a Pisa e' incominciato il corso "+2", svolto anche per Firenze.
Lo studio per la pace e' molto interessante. Me ne sono accorto quando ho incominciato a ripensare le mie materie, fisica e matematica, sotto la luce dei conflitti; quindi teorie matematiche e fisiche dei conflitti, conflitti nelle teorie matematiche e fisiche. Sorprendentemente ne e' nata un'altra comprensione della materia (10). Ogni materia di studio dovrebbe subire lo stesso ripensamento, riferendo i conflitti alle sue diverse fondazioni; ne nascerebbe un'altra visione della materia, che sarebbe quella da insegnare per prima; invece di insegnarla scegliendo una sola fondazione, come semplice preferenza, e somministrarla agli studenti come la verita'.
Quindi lo studio per la pace apre ad una nuova cultura, quella che accetta i conflitti non solo nella realta', ma anche quelli intellettuali. Con cio' si esce dalla mitica ragione unica ed universale dell'Occidente, per ricondurla ad una attivita' umana, con i suoi limiti e soprattutto con le sue scelte basilari, che la qualificano in piu' atteggiamenti razionali possibili, a partire da quelli maschile e femminile (11).

4. Formazione superiore diffusa

In piu', il movimento per la pace ha ottenuto la notevole conquista dei peacekeepers e peacebuilders civili dall'Agenda per la pace dell'Onu.
Questi sono impieghi veri e propri, per i quali ci vuole formazione (cosi' come si vedeva in precedenza). Ad essa puo' provvedere l'Universita', con i corsi di laurea per la pace, ma anche gli Enti locali, La Provincia di Bolzano ha iniziato ad organizzare corsi professionali di peacekeeping, perche' il peacekeeping puo' essere considerato una professione come le altre. Il corso e' di ben 800 ore e per di piu' i frequentanti non devono pagare. Altre Regioni l'hanno seguita: Piemonte, Marche, Toscana, Umbria, Campania; stanno inserendosi Sardegna e Puglie (12). La prospettiva e' la formazione di oltre 150 peacekeeper l'anno, ben preparati; un salto di qualita' notevole.
Inoltre c'e' un'altra possibile formazione diffusa. Nel passato gli obiettori di coscienza hanno fatto nascere il servizio civile nazionale.
Soprattutto la Caritas, i Salesiani, il Mir e in parte l'Arci hanno organizzato corsi di formazione, anche sulla difesa alternativa, per i serviziocivilisti. Ora la leva e' sospesa, ma il servizio civile continua e prevede esplicitamente la formazione; per gli attuali circa 40.000 serviziocivilisti occorrerebbero alcune centinaia di formatori. Sin dal 1990 si era fatto un lavoro preparatorio su questo tema: tre corsi metodologici presso la Fondazione Zancan 1990-'91-'92 (con la pubblicazione degli atti degli ultimi due); corsi per formatori: Capua 1990, Firenze 1990 (con Galtung, Muller, Ebert e Sharp; gli atti presso Fuorithema, Bologna 1994), poi dal 1995 corso annuale all'Universita' della pace di Rovereto; Quaderni Dpn, nn. 15, 24 e 26 (La Meridiana, Molfetta).
Ma nel 2003 l'Ufficio nazionale per il servizio civile (Unsc) ha infaustamente deciso di affidare la formazione ai singoli Enti. La sua giustificazione e' che in questo modo gli Enti che avevano accumulato esperienza formativa sugli obiettori, la riversano sul nuovo servizio civile. Ma questo sembra utopico, anche se molti Enti, non essendo stati abilitati alla formazione, devono chiedere ad un altro Ente di formare i suoi serviziocivilisti; ma, si noti, a pagamento. Inoltre e' ben difficile all'Unsc controllare se migliaia di Enti fanno la formazione, e qual e'; anche se un Ente prepara i serviziocivilisti ai compiti affidati loro, difficilmente forma ai temi di importanza nazionale. Per di piu' cosi' l'Unsc ha mandato a vuoto tutto il lavoro nazionale precedente ed ha evitato che i tre milioni di euro l'anno di finanziamento facessero nascere la figura professionale del formatore di serviziocivilisti; alla quale potrebbe provvedere l'Universita'. Cosicche' i serviziocivilisti sono stati rinchiusi in un ghetto formativo, mentre invece oggi ogni militare si fregia di una laurea pesante.
Un anno fa la Corte Costituzionale (sentenza n. 228/2004) ha respinto il ricorso delle Regioni che volevano per loro la competenza sul servizio civile: questa competenza e' nazionale, quindi appartiene all'Unsc, perche' il servizio civile riguarda la difesa nazionale non armata. A tale scopo nel maggio 2004 e' stato istituito un Comitato ministeriale specifico sulla Difesa civile non armata e nonviolenta (Dcnanv, ex lege 230/1998), che deve proporre iniziative su questo tema, da realizzare con quattrocentomila euro l'anno; in particolare, sulla base degli artt. 11 e 52 della Costituzione, corsi di formazione impegnativa sulla Dcnanv. Ma alcuni Enti di servizio civile hanno diffuso una interpretazione "casalinga" della difesa della Patria (e quindi della Dcnanv): essa per il serviziocivilista si ridurrebbe a sola solidarieta' civica (art. 2 della Costituzione) verso il progetto dell'Ente che lo riceve. In questa interpretazione l'attivita' del Comitato Dcnanv si riduce ad organo burocratico che prende qualche iniziativa laterale.
Ma tutto e' ancora possibile (13). Vorra' l'Unsc cambiare l'attuale formazione dei serviziocivilisti, dando importanza ai temi nazionali (e quindi anche alla Dcnanv), da svolgere assieme alle Universita'? L'Unsc vorra' affidare la formazione dei formatori alle Universita' per la pace, o la vorra' fare in proprio con ricette casalinghe? Se anche la formazione restera' privata, i formatori dei serviziocivilisti vorranno costituirsi come associazione per porsi collettivamente davanti al volume di formazione da impartire, o lasceranno navigare liberamente gli avventurieri? E' chiaro che molto dipendera' dalla pressione che le Universita' per la pace riusciranno ad esercitare (14).

5. Quale figura professionale per il laureato per la pace?

Ho lavorato all'Universita' di Napoli, che fu fondata da Federico II allo scopo di avere un funzionariato non clericale; anche l'odierna Universita' ha come prima finalita' la formazione di un funzionariato. Allora chiediamoci: quale funzionariato per la pace preparera' l'Universita' per la pace? La figura professionale come ad es. oggi c'e' in alcuni tribunali, i mediatori dei conflitti? Oppure quella dei promotori della cooperazione (ong) o delle interposizioni nonviolente all'estero (come quelle compiute da Assopace, dalla Comunita' Papa Giovanni, dai Beati i costruttori di pace in Jugoslavia o in Palestina)? Cioe' in funzione del territorio circostante o in funzione di professioni essenzialmente internazionali? (15).
Ora la situazione e' selvaggia, sia perche' persone di tutti i tipi danno corsi (a pagamento) sulla gestione, mediazione e soluzione dei conflitti; sia perche' i militari tendono ad invadere, se non altro per avere il controllo della situazione globale, che altrimenti potrebbe creare loro molto fastidio; mentre chi ha lavorato per preparare la novita' sociale a vantaggio di tutti, resta emarginato in collocazioni minoritarie, con poche risorse a disposizione.
Soprattutto manca una normativa. Il problema ad es. e' quello di arrivare a definire giuridicamente la figura di peacekeeper civile, che puo' oscillare tra quella proposta dai militari e quella qualificata veramente per la pace e che puo' essere sostenuta anche dagli Enti locali.
In mancanza di colpi di scena, lo sbocco da questa situazione verra' soprattutto dalla spinta che dara' il movimento per la pace: ad es.
abbandonando i corsi equivoci dei militari (lasciamoli alle spie che cercano un comodo patentino di peacekeeper) e trasformando gli studi per la pace una chiara crescita collettiva, intellettuale, professionale e di potere istituzionale; perche' tale puo' essere, in quanto i temi della pace visti da un punto di vista veramente pacifico sono nuovi ed affascinanti rispetto alla cultura tradizionale, ed aprono ad una nuova societa', che sa affrontare i conflitti senza distruggere l'altro.
Quindi gli sbocchi professionali sono pochi e tanti, a seconda di come si riuscira' a premere sul mercato del lavoro; di certo c'e' molto lavoro da fare. Auguri a tutti noi.

Note

1.
Ho gia' discusso il tema Universita' e ricerca per la pace in "La ricerca per la pace in una societa' in transizione. Una prospettiva storica", in A. Licata (ed.), Universita' per la pace. Il ruolo dell'Universita' nell'analisi e nell'impegno a favore della Pace, Isig Gorizia e Universita' di Trieste, 2001, pp. 77-95. In questo intervento sottolineo di piu' gli aspetti di attualita'.
2. C. L. Schwarz, Physics and Military, "Physics Today", 37, 6 ottobre 1984.
3. E. L. Woollett, Physics and modern warfare: The awkward silence, "American J. Physics", 48, febbraio 1980, pp. 105-117.
4. D. Adams (ed.), Seville statement on violence: Preparing the ground for the constructing Peace, Unesco, 1991.
5. Alcuni nonviolenti sperano di far nascere una Accademia per la pace, senza pensare quanti personaggi militari (oltre che quelli accademici) sarebbero felici di fregiarsi del titolo di suo direttore.
6. M. T. Klare, Peace and World Security Studies Curriculum Guide, Univ.
Hampshire.
7. B. B. Ghali: An Agenda for Peace, UN, New York, 1992 (trad. it.: Acli, Roma, 1992).
8. A. Drago (ed.): Pecaekeeping e peacebuilding. La difesa e la costruzione della pace con mezzi civili, Qualevita, Sulmona 1997.
9. L'Universita' della pace di Rovereto annualmente svolgeva (con il prof.
Pontara) corsi su materie riguardanti la pace; ma e' di natura privata e quindi non da' titoli accademici validi; in piu' recentemente un nuovo consiglio di amministrazione ha fatto cambiare rotta. Spiccano per assenza le Universita' pontificie e gli istituti superiori religiosi. Tra i francescani la loro Commissione internazionale Justitia et Pax ha chiesto di attivare un corso sulla pace nella loro Universita' a Roma (Antonianum); ma e' stato concesso solo che un docente dia un insegnamento libero sul tema.
10. Insegnanti nonviolenti, Matematica della guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987; "Modelli logici, matematici e fisici dei conflitti e delle loro soluzioni", in M. Zucchetti (ed.), Contro le nuove guerre. Scienziati e scienziate contro la guerra, Odradek, Roma 2000, pp. 73-81.
11. A. Drago, Le due opzioni, La Meridiana, Molfetta 1991.
12. Perche' le Regioni Veneto e Friuli non l'hanno fatto?
13. Ma purtroppo anche in peggio: ad es., affidamento della formazione ad una agenzia esterna, magari privata.
14. Una ulteriore funzione formativa dell'Universita' potrebbe venire dal progetto perseguito da dieci anni da una parte dei nonviolenti e dei pacifisti: l'istituzione dei corpi europei di pace. Ma oggi l'obiettivo e' distante tanto e forse piu' di prima, perche' l'Europa non ha nessuna legislazione favorevole alla pace (non ha un equivalente dell'art. 11 della Costituzione, ne' ha stabilito l'equivalenza della difesa della patria compiuta con il servizio civile e con il servizio militare). Quindi, se anche l'Europa istituisse questo corpo, lo potrebbe fare dipendere dai militari, come in Italia oggi e' per la Cri.
15. All'estero esistono da decenni molti istituti di ricerca. Ma dal tempo della guerra nel Kosovo molti di loro hanno scelto la politica del compromesso con i rispettivi governi finanziatori; per cui ora non si sa piu' da che parte stiano questi istituti esteri, se con i militari o con gli obiettivi del movimento per la pace. Vedasi la mia prefazione a Jean-Marie Muller, Vincere la guerra. Principi e metodi dell'intervento civile, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999, pp. 5-24.

Antonino Drago, docente universitario di storia della fisica ed uno dei piu' prestigiosi peace-researcher italiani, ha svolto questa relazione durante un convegno tenuto a Udine il 16 aprile 2005.
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