tam tam |  riletture  |
Diritti universali nel regno del profitto
Confesso di avere creato un ibrido nel titolo di questa rilettura, avendo messo assieme il titolo di un'analisi di Noam Chomsky, linguista di fama mondiale, esponente della sinistra radicale nordamericana e professore di linguistica all'Mit di Boston, analisi apparsa su " Internazionale.it " titolata per l'appunto " Diritti universali ", ed il titolo di un intervento di Umberto Galimberti titolato " Nel regno del profitto " pubblicato di recente su di un supplemento del quotidiano " la Repubblica ".
La voluta forzatura da me compiuta potrà non piacere ai più, e di questo me ne dolgo anticipatamente, ma la stretta colleganza tra i due scritti che si armonizzano e si completano mi ha convinto e spinto a procedere nella insolita operazione.
E' come lanciare lo sguardo su di un orizzonte più vasto, che consenta alla gente comune di avere piena consapevolezza dei mutamenti oramai globalizzati sorti e consolidati nel mondo della economia planetaria, e della sempre più marginalizzata libertà di manovra degli stati nazionali e dei loro governi, pedine di un gioco molto più grande e di difficile controllo democratico.
Nel suo scritto Umberto Galimberti si lancia addirittura in una tragica previsione " di un'ingloriosa soluzione finale dell'esperimento umano, sia per quanti non hanno di che vivere, sia per i ben pasciuti a cui non si riconosce altra dignità se non quella di funzionari a diversi livelli del capitale."
E così sia.


1 - Da " Nel regno del profitto "

" La mondializzazione del mercato dei capitali ha apportato il colpo decisivo al già tramontante potere degli Stati e alla loro possibilità di influenzare con gli strumenti della politica il corso degli avvenimenti.
Ciò significa la fine dell'indipendenza degli Stati nazionali, la cui politica economica diventa pura esecuzione di ricatti finanziari, mascherati da consigli-condizioni per ottenere crediti, a loro volta necessari per restituire debiti al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, nel loro ruolo di agenzie del capitale transnazionale.
Questa situazione non riguarda solo i Paesi poveri, riguarda anche noi, se appena prestiamo un po' di attenzione a quelle agenzie specializzate (Moody's, Standard & Poor) che danno i voti al debito pubblico dei vari Stati, mettendo in riga governi e amministrazioni che si vedono tagliati ulteriori fonti di credito, se a loro volta non tagliano le spese per programmi sociali, se non aumentano le tasse ai cittadini, se non trasformano i debiti delle banche private e delle imprese in debito a garanzia pubblica, incentivando i capitali ad affluire.
È evidente che in una condizione del genere la democrazia non può andare oltre le scelte degli esecutori tecnicamente più capaci nell'applicare i comandi del capitale finanziario che si muove a livello transnazionale, per cui quando Marx diceva che i governi erano i comitati d'affari della grande borghesia, aveva torto, ma solo per difetto.
Quello che allora era un cattivo costume, oggi è un sistema, anzi è il sistema. Per cui se nel mondo antico i debitori insolventi finivano schiavi, nel mondo del capitalismo globale interi Stati vengono costretti a lavorare per conto delle grandi finanziarie e delle grandi imprese.
Dopo aver vinto la guerra di settant'anni contro il comunismo, il capitalismo comincia così a mostrare il suo vero volto, che non è proprio quello del progresso che aveva scritto sulle sue bandiere.
Infatti, se questi dati e queste considerazioni hanno un loro senso e una loro plausibilità, non sembra remoto lo spettro di un'ingloriosa soluzione finale dell'esperimento umano, sia per quanti non hanno di che vivere, sia per i ben pasciuti a cui non si riconosce altra dignità se non quella di funzionari a diversi livelli del capitale.
I cataclismi umani che il Novecento ha metabolizzato nelle guerre mondiali tra le potenze, e nelle guerre coloniali contro le potenze, all'inizio del nostro secolo ancora ribollono nelle falde sommerse di una terra regolata dai soli criteri dell'accumulazione infinita e della competizione sfrenata, il cui limite è solo artificio e tregua di guerra, nella più totale assenza di rispetto per uomini e natura.
Infatti l'unica civiltà che si va diffondendo, a scapito di tutte le altre possibili espressioni tradizionali e non, è la civiltà del profitto, che oggi appare come l'unico generatore simbolico dell'ordine che deve regnare sulla terra e della partizione dei ruoli che gli uomini, sia quelli affamati sia quelli sazi, devono rigorosamente assumere per avere diritto di cittadinanza. "

2 - Da " Diritti universali "

" In questi anni nella filosofia morale e nelle scienze cognitive si è ragionato su quelle che sembrano essere intuizioni morali molto radicate, se non i fondamenti stessi del giudizio morale. Questa indagine prende spunto da alcuni esempi inventati che evidenziano certe sorprendenti uniformità di giudizio, comuni alle culture più diverse e presenti sia negli adulti sia nei bambini. In questo caso, prenderò invece un esempio reale che ci conduce al tema dell'universalità dei diritti umani.
Nel 1991 Lawrence Summers, già segretario del tesoro sotto il presidente Clinton e oggi preside dell'università di Harvard, era il chief economist della Banca mondiale.
In un memorandum interno, Summers sostenne che la Banca doveva incoraggiare le industrie inquinanti a spostarsi nei paesi più poveri. Il motivo?
- Bisognerebbe produrre una parte di inquinamento nocivo per la salute nei paesi che comportano i costi più bassi, che sono anche quelli dove i salari sono più bassi. A mio avviso -, scriveva Summers, - nello scaricare rifiuti tossici nel paese con i salari più bassi c'è una logica economica impeccabile, e dobbiamo tenerne conto -.
Quando il memorandum trapelò all'esterno, provocò reazioni furiose, sintetizzate dalla risposta a Summers dell'allora ministro dell'ambiente brasiliano José Lutzenburger: - Il suo ragionamento è perfettamente logico ma completamente folle -.
Ora, il metro di misura applicato nell'era moderna su problemi del genere è la Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948. L'articolo 25 recita: "Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; e ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà".
Queste stesse disposizioni sono state ribadite negli accordi internazionali in materia di "diritto allo sviluppo".
Risulta chiaro, mi sembra, che questa formulazione dei diritti umani universali respinge la "logica impeccabile" del chief economist della Banca mondiale come profondamente immorale, se non folle.
La cultura occidentale accusa di "relativismo" quei paesi che interpretano la Dichiarazione in modo selettivo.
Si dà il caso, però, che uno dei principali paesi relativisti sia la prima potenza mondiale, capofila delle nazioni che si autodefiniscono "illuminate".
Un mese fa, il dipartimento di stato americano ha pubblicato il suo rapporto annuale sui diritti umani.
"La promozione dei diritti umani non è solo un elemento della nostra politica estera: è la base della nostra politica e la nostra prima preoccupazione", ha dichiarato il sottosegretario di stato per gli affari globali Paula Dobriansky.
La Dobriansky è stata vicesegretario di stato per i diritti umani e le questioni umanitarie sotto le amministrazioni Reagan e Bush senior.
In quella veste, ha tentato di confutare il "mito" secondo cui "i cosiddetti diritti economici e sociali sarebbero diritti umani".
Su questa posizione poggiano il veto posto da Washington al "diritto allo sviluppo" e il suo insistente rifiuto di accettare le convenzioni sui diritti umani.
Ora il governo degli Stati Uniti potrà anche rifiutare quanto stabilito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, ma la popolazione statunitense non è d'accordo. Lo dimostra la reazione dell'opinione pubblica americana alla recente proposta di legge finanziaria, cioè il bilancio federale. Questa reazione è stata studiata dal Program on international policy attitudes dell'università del Maryland.
L'opinione pubblica di questo paese ha chiesto tagli incisivi delle spese militari, accompagnati da un aumento delle spese per l'istruzione, la ricerca medica, la formazione, la conservazione ambientale e le energie rinnovabili, nonché delle spese per le Nazioni Unite e per gli aiuti umanitari.
Infine, ha chiesto che gli sgravi fiscali introdotti da Bush a favore dei ricchi siano revocati. I ricchi e i potenti hanno tutte le ragioni per voler tenere l'opinione pubblica il più lontana possibile dalle scelte politiche.
Il fatto che sia passato da poco il venticinquesimo anniversario dell'assassinio di Oscar Romero, l'arcivescovo di El Salvador noto come "la voce di chi non ha voce", e che la Colombia - il paese colpevole del più alto numero di violazioni dei diritti umani di tutto l'emisfero - è oggi il principale beneficiario degli aiuti militari provenienti dagli Stati Uniti, ci ricorda che non siamo solo impegnati in seminari su princìpi astratti o nello studio di culture remote.
Stiamo parlando di noi stessi, e dei valori morali e intellettuali delle comunità privilegiate in cui viviamo. Se ci guardiamo allo specchio con sincerità e quel che vediamo non ci piace, abbiamo tutte le possibilità di rimediare. "

  discussione chiusa  condividi pdf