Corsera.it - 02-05-2005 |
Il caso Lipari: la posizione dell'Italia Il dossier italiano: manomesse le prove. La relazione d’accusa con un video contro gli americani. Berlusconi: mai pagato il riscatto. Una delle pagine del rapporto americano, pieno di omissis (Ansa) ROMA — La decisione di pubblicare il rapporto finale sulla morte di Nicola Calipari senza attendere la relazione italiana è l’ultimo schiaffo degli Stati Uniti. La dimostrazione, semmai ce ne fosse ancora bisogno, che di congiunto in questa commissione non c’è proprio nulla, neanche la scelta dei tempi. L’Italia risponderà domani pomeriggio con un rapporto che sarà consegnato al governo e poi finirà sul tavolo dei magistrati. Mentre il premier Silvio Berlusconi torna a negare il pagamento di un riscatto e a ribadire «l’indiscutibile amicizia con gli Stati Uniti», i delegati italiani si apprestano a presentare una relazione che ribatte punto per punto le conclusioni americane e allega agli atti un lungo dossier composto anche di video e fotografie sul comportamento tenuto dai soldati americani impiegati nei check point. Compreso quello, già definito da qualcuno «un colpo basso», che mostra una pattuglia mentre ride e scherza con il corpo di un iracheno freddato all’interno del suo camioncino. LE ACCUSE AGLI USA — Nella conclusione della relazione firmata dall’ambasciatore Cesare Ragaglini e dal generale Pierluigi Campregher si contesta agli americani di non aver consentito la ricostruzione della dinamica dei fatti. E si parla esplicitamente di «manomissione della scena dell’incidente» e del reperto chiave per questa inchiesta: la Toyota Corolla sulla quale viaggiavano gli uomini del Sismi e Giuliana Sgrena. Al termine degli accertamenti gli italiani avevano proposto di chiudere il rapporto dichiarando che «si è ritenuto di non poter accertare le responsabilità». Un tentativo di mediazione che i vertici militari Usa hanno però respinto pretendendo la piena assoluzione dei componenti della pattuglia in modo da non lasciare alcuno spiraglio anche al lavoro della magistratura. IL BLOCKING POSITION — La definizione marca la differenza con i check point. Questo tipo di posto di blocco, sottolinea la relazione, non ha infatti alcuna regola perché viene solitamente utilizzato «sul campo di battaglia» e infatti non è attrezzato con «segnali o filo spinato». Gli italiani contestano soprattutto la decisione di averlo «posizionato all’uscita di una curva a gomito». Poi si concentrano sul sopralluogo effettuato insieme ai commissari Usa. «La scena dell’incidente— scrivono—è stata alterata e i soldati non sono stati neanche in grado di indicare quale fosse la loro posizione al momento della sparatoria». E questo, aggiungono, «non ha consentito di individuare le fonti di fuoco». Non solo. Secondo i due delegati «tra l’accensione del faro e gli spari di avvertimento dovevano passare ben più dei tre secondi concessi dalla pattuglia a chi guidava l’auto per consentirgli di fermarsi». I NOMI NASCOSTI — Nella relazione resa nota ieri dagli Stati Uniti i nomi dei dodici soldati in servizio quella sera sono stati «coperti» per rispettare il segreto militare. L’Italia osserverà la regola di riservatezza, ma nella relazione sarà scritto che non è stato possibile effettuare alcun controllo su chi era effettivamente in pattuglia perché «non è stato consegnato l’ordine di servizio del 4 marzo». Lo «sparatore », dicono gli Usa, è un soldato latino-americano. Ma il sospetto degli italiani è che a far fuoco possano essere stati almeno tre militari. «Le testimonianze — dicono i due delegati—sono state contraddittorie e in alcuni casi totalmente inaffidabili». LE COMUNICAZIONI — Nel rapporto che sarà consegnato domani si afferma che «il capocentro Cia era informato dell’operazione » sin dal primo pomeriggio e aveva anche l’indicazione sul tipo di auto noleggiata. Poi si ricorda che «il comando Usa fu avvisato 25 minuti prima della sparatoria dell’avvenuta liberazione dell’ostaggio ». In ogni caso, si sottolinea come «sia assolutamente normale una dose di riservatezza, anche tra servizi alleati, in missioni di questo tipo». Importanti vengono giudicate le dichiarazioni del capocentro Sismi a Bagdad che era al telefono con i colleghi quando è avvenuta la sparatoria. «Fu lui—si sottolinea—a chiedere di contattare il check point e gli fu risposto che non c’era alcun check point. Dopo poco, su sua sollecitazione, un ufficiale americano si mise in contatto con la pattuglia e questo dimostra che sarebbe stato possibile avvisare preventivamente i soldati che l’auto con l’ostaggio a bordo stava percorrendo la strada verso l’aeroporto». Fiorenza Sarzanini |
Pino Scaccia - 02-05-2005 |
Per gli italiani invece a sparare forse sono stati in tre Nella conclusione della relazione firmata dall’ambasciatore Cesare Ragaglini e dal generale Pierluigi Campregher si contesta agli americani di non aver consentito la ricostruzione della dinamica dei fatti. E si parla esplicitamente di «manomissione della scena dell’incidente» e del reperto chiave per questa inchiesta: la Toyota Corolla sulla quale viaggiavano gli uomini del Sismi e Giuliana Sgrena. Al termine degli accertamenti gli italiani avevano proposto di chiudere il rapporto dichiarando che «si è ritenuto di non poter accertare le responsabilità». Un tentativo di mediazione che i vertici militari Usa hanno però respinto pretendendo la piena assoluzione dei componenti della pattuglia in modo da non lasciare alcuno spiraglio anche al lavoro della magistratura. La definizione marca la differenza con i check point. Questo tipo di posto di blocco, sottolinea la relazione, non ha infatti alcuna regola perché viene solitamente utilizzato «sul campo di battaglia» e infatti non è attrezzato con «segnali o filo spinato». Gli italiani contestano soprattutto la decisione di averlo «posizionato all’uscita di una curva a gomito». Poi si concentrano sul sopralluogo effettuato insieme ai commissari Usa. «La scena dell’incidente— scrivono—è stata alterata e i soldati non sono stati neanche in grado di indicare quale fosse la loro posizione al momento della sparatoria». E questo, aggiungono, «non ha consentito di individuare le fonti di fuoco». Non solo. Secondo i due delegati «tra l’accensione del faro e gli spari di avvertimento dovevano passare ben più dei tre secondi concessi dalla pattuglia a chi guidava l’auto per consentirgli di fermarsi». Nella relazione resa nota ieri dagli Stati Uniti i nomi dei dodici soldati in servizio quella sera sono stati «coperti» per rispettare il segreto militare. L’Italia osserverà la regola di riservatezza, ma nella relazione sarà scritto che non è stato possibile effettuare alcun controllo su chi era effettivamente in pattuglia perché «non è stato consegnato l’ordine di servizio del 4 marzo». Lo «sparatore », dicono gli Usa, è un soldato latino-americano. Ma il sospetto degli italiani è che a far fuoco possano essere stati almeno tre militari. «Le testimonianze — dicono i due delegati—sono state contraddittorie e in alcuni casi totalmente inaffidabili». Nel rapporto che sarà consegnato domani si afferma che «il capocentro Cia era informato dell’operazione » sin dal primo pomeriggio e aveva anche l’indicazione sul tipo di auto noleggiata. Poi si ricorda che «il comando Usa fu avvisato 25 minuti prima della sparatoria dell’avvenuta liberazione dell’ostaggio ». In ogni caso, si sottolinea come «sia assolutamente normale una dose di riservatezza, anche tra servizi alleati, in missioni di questo tipo». Importanti vengono giudicate le dichiarazioni del capocentro Sismi a Bagdad che era al telefono con i colleghi quando è avvenuta la sparatoria. «Fu lui—si sottolinea—a chiedere di contattare il check point e gli fu risposto che non c’era alcun check point. Dopo poco, su sua sollecitazione, un ufficiale americano si mise in contatto con la pattuglia e questo dimostra che sarebbe stato possibile avvisare preventivamente i soldati che l’auto con l’ostaggio a bordo stava percorrendo la strada verso l’aeroporto». Dal Blog di Pino Scaccia |