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Venticinque Aprile santo
l'Unità - 23-04-2005
MalaTempora di Moni Ovadia

Il Venticinque Aprile è il giorno della Liberazione.
Dovrebbe esserlo per tutti gli italiani ma così non è. Le ragioni della mancata identificazione di tutto il corpo nazionale con il senso scaturito dalla Resistenza e dall'Antifascismo sono molteplici e le principali sono note. Tuttavia sarebbe indegno rassegnarsi ad uno status quo che mantiene lacerazioni e ferite in stato di continua suppurazione. Nel sessantesimo anniversario, dopo un lungo periodo di inquinamento revisionista nelle forme dello sproloquio mediatico, è nostro dovere tentare di mettere in moto un processo culturale per ricollocare i principi in un quadro di riferimento concettuale più profondo dello scontro di fazioni di supposta pari dignità come vorrebbero gli eredi mai pentiti del fascismo nostrano.

Sono un ebreo laico, non sono religioso, ma questo anniversario per me è stato e rimarrà segnato dal pensiero di un grande cristiano. Giovedì scorso a Milano, in Duomo, abbiamo celebrato in forma eucaristica la Liberazione, lo abbiamo fatto grazie alla generosità dell'arcidiocesi cittadina e grazie alla sensibilità ed al coraggio del Cardinale Dionigi Tettamanzi. Milano ne aveva bisogno perché ha patito negli ultimi anni, lo sfregio del degrado culturale e spirituale soprattutto in quanto medaglia d'oro della Resistenza. Le parole per il rito ce le ha donate, quale altissimo testamento spirituale per un futuro di autentica libertà, Padre David Maria Turoldo nel suo straordinario scritto liturgico "Salmodia della Speranza". Il testo teatrale è seguito da un saggio dello stesso Turoldo che, a mio parere, rappresenta una delle riflessioni più necessarie e attuali che mi sia capitato di leggere nella pur vasta letteratura antifascista e resistenziale: "Parlo per amore verso i morti, perché non si possono tradire impunemente i morti, non si possono dimenticare. Non dico tutti i morti, che è cosa priva di senso, ma determinati morti, numerosi come i condannati a morte d'Europa e d'Italia, che sono la testimonianza più viva da cui ho attinto motivo di sperare, da cui ho avuto il materiale veramente incandescente della Salmodia della Speranza".

Dunque i morti non sono tutti uguali, essi hanno diritto alla pietà e al pianto dei loro congiunti ma il significato e il valore delle loro morti sono definitivamente diversi. È bene che ce lo ricordiamo perché, come ci suggerisce il grande poeta Giovanni Raboni, la comunità umana è una comunità di viventi e di morti al punto che, se il senso della morte è chiaro in noi, quello della vita si illumina. Prosegue Turoldo: "Celebrare la Resistenza è un nostro dovere, non come atto evocativo ma come atto di testimonianza perenne; perché si è attraversata la tragedia, si invoca la libertà: libertà di credo, libertà di agire, libertà di morire. La morte per amore davanti alla morte per odio". Ecco la differenza che indica il sacerdote David illustrandola con le parole del falegname viennese Franz Mager di 47 anni, uno dei tanti condannati a morte solo perché seppero scegliere: "Ho dovuto morire perché la solidarietà umana mi era filtrata nel sangue, perché stimavo superiore alla mia salvezza personale il rispetto verso il mio prossimo, verso i miei compagni di lavoro. Non ho commesso alcun delitto contro lo Stato. E non sono nemmeno un eroe, un martire, sono soltanto ciò che sono sempre stato, un uomo semplice, semplicissimo, che ha dovuto morire perché non era adatto per questi tempi".
Parole come queste non potevano uscire da un "bravo ragazzo di Salò", perché sono il frutto di una libertà interiore che non è data a chi serve la tirannide e l'odio e "santificare" questa memoria significa assumere su di sé la responsabilità etica e spirituale della libertà.

Non ci sarà in Italia una pacificazione profonda fin quando il 25 Aprile non sarà sentito come il Natale della Libertà e come il 14 Luglio dei francesi, un giorno che ha inaugurato l'unica patria degna di questo nome, non solo luogo geografico ma anche "luogo" politico e spirituale.

L'antifascismo ha costruito questa patria dove le donne fossero cittadine come gli uomini e non fattrici o puttane, dove i lavoratori fossero esseri umani titolari di diritti sacrali, non servi a disposizione dei signori. La patria della libertà, dell'uguaglianza, della solidarietà.
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 Pierangelo    - 25-04-2005
da l'Unità online - 25.4.2005

Se avessero vinto loro

Se avessero vinto loro? Loro sono anche le brave persone che pensavano di combattere per l’onore dell’Italia. Loro sono anche i ragazzi che per l’avventuroso entusiasmo dell’età o per la disinformazione profonda o per l’indottrinamento subito si sono arruolati adolescenti o bambini nelle formazioni fasciste. Loro sono coloro a cui hanno messo in mano un’arma per uccidere i partigiani, detti “banditi” e condannati sempre alla pena di morte. Loro erano gli addetti ad arrestare gli ebrei - definiti per legge nemici - da consegnare da fedeli alleati ai tedeschi. Queste consegne sono sempre avvenute. Sono innumerevoli le testimonianze in proposito. Basti per tutti “Il libro della Memoria” di Liliana Picciotto Fargion, e “L’Olocausto italiano” di Susan Zuccotti, con i nomi, i luoghi, le circostanze di una fervida attività di rastrellamento e consegna degli ebrei italiani da parte di fascisti italiani.

A Milano, se entrate al pian terreno dell’immensa Stazione centrale, sul lato destro che si affaccia su Piazza Luigi di Savoia, vi fanno vedere il binario, tuttora intatto, tuttora collegato con Auschwitz, dal quale partivano i treni stipati di ebrei italiani. Tutto il servizio di arresto, raccolta, imprigionamento a San Vittore, attesa, trasporto in quel lato della Stazione, le lunghe file di adulti e bambini nella notte e nel gelo, la spinta dentro i vagoni, l’accurato lavoro di sigillare le porte dei vagoni-bestiame, era tutto italiano. Italiano di Salò. Italiano della Repubblica Sociale Italiana. Italiano a cura di coloro che avevano deciso di restare fedeli alleati dei nazisti e della loro macchina mortale.

Certo, molti non sapevano dove finiva quel binario. Molti potevano essere avvolti in una disorientante cecità selettiva che non permetteva loro di vedere e capire a quale mondo stavano dando una mano, e verso quale futuro essi stessi stavano andando.

Per questo diciamo: tutti sono cittadini a pieno titolo nel mondo della libertà. Ma quel mondo non ci sarebbe mai stato se avessero vinto loro. Loro e Hitler, loro e le camere a gas, loro e i forni di Auschwitz, loro e i morti impiccati ai lampioni di via Cernaia a Torino, loro e le stragi di Marzabotto e di Sant’Anna di Stazzema, loro e i torturatori di via Tasso, loro che consegnavano gli arrestati al comando germanico all’Hotel Regina di Milano.

Il rispetto per ogni libero essere umano, compresi coloro che si erano avviati sulla strada di un mondo fondato sui campi di sterminio, è un dovere di tutti, e un diritto di cui ciascuno è titolare, nel mondo della libertà.

Chi quel mondo di sterminio lo ha difeso fino all’ultimo, può dire che non sapeva e può persino essere creduto. Ma non deve dire di non sapere, oggi, di avere lavorato per Auschwitz, di avere dato forze e giovinezza a un universo di discriminazione, di sterminio, di morte. Adesso lo sappiamo, lo sanno anche coloro che hanno agito dentro la nebbia dell’indottrinamento di quella terribile fede di morte.

Adesso coloro che erano fascisti sanno che anch’essi sono stati liberati il 25 aprile. Sanno che il 25 aprile è già una festa di riconciliazione perché ha salvato tanti giovani fascisti dal destino tremendo di continuare a fornire di corpi umani ai campi di sterminio, di servire da guarnigione per le prigioni e i centri di tortura, e per occupare col terrore i Paesi d’Europa. È vero, i giovani fascisti di allora devono essere grati agli Americani, agli Inglesi, alla loro invasione di libertà. E dovrebbero non dimenticare 23 milioni di morti russi che hanno fatto da barriera, con i loro corpi alla vittoria nazista.

Però dedichino in questa giornata un pensiero anche ai partigiani che alcuni di essi hanno, in nome di un confuso onore dell’Italia, ucciso o tentato di uccidere. La loro lotta per tre inverni indicibili sulle montagne, per le strade dei nostri paesi e delle nostre città ha ridato a tutti gli italiani il vero onore che segna la nostra storia: quello di non essere dalla parte dei forni crematori, quello di non essere dalla parte di Auschwitz.

Se loro sanno, se lo capiscono (e non possono dire di non saperlo) allora potremo dire che siamo insieme in questo giorno di festa perché questa è la festa degli italiani liberi. E gli italiani, tutti, compresi i ferventi nostalgici, coloro che vorrebbero farci ricordare altre cose pur di non parlare della nostra liberazione italiana, dovrebbero riconoscere il 25 aprile come il giorno dello scampato pericolo. È il no definitivo della storia alla vita sotto il fascismo.

Furio Colombo