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Iraq, marines tagliatori di teste?
il Manifesto - 21-04-2005
Denuncia del «Tribunale di Bruxelles» (ex Russel) per i crimini di guerra in Iraq. Un misterioso «gruppo 27» dei marines avrebbe sgozzato due contadini e dato fuoco ai palmeti del villaggio di Tarmiya. Le testimonianze dei sopravvissuti raccolte su video da un coraggioso giornalista iracheno


Una misteriosa squadra speciale dei marines, chiamata dai locali «gruppo 27», un vero e proprio squadrone della morte i cui membri porterebbero sul petto un particolare tatuaggio, avrebbe operato alcune settimane fa nella zona di Tarmiya, sessanta chilometri a nord di Baghdad, sgozzando due contadini sospettati di aiutare la resistenza locale, e dando fuoco alla fattoria dove lavoravano e ai palmeti circostanti. L'hanno sostenuto davanti alla talecamera di un giornalista iracheno gli abitanti del villaggio tra i quali un bracciante sopravvissuto al massacro, perché creduto morto, e la famiglia di un'altra vittima. Da mesi, da quando la scorsa estate si insediò a Baghdad il nuovo ambasciatore Usa, John Negroponte, in Iraq si parla di un'«opzione Salvador» per schiacciare la resistenza irachena, dell'uso di veri e propri squadroni della morte e di una totale immunità per i soldati Usa quando uccidono, rubano, torturano, stuprano. Non vi sono quasi mai testimoni e le vittime attanagliate dal terrore non osano neppure denunciare le violenze subite. Chi lo fa dopo essere uscito di prigione, come la busniesswoman Huda Hafez al Azawi, imprigionata ad Abu Ghraib dal dicembre 2003 al luglio 2004, viene arrestato di nuovo e di lui non si sà più nulla. Per questa ragione la testimonianza sullo squadrone della morte di Tarmiya è un raggio di luce gettato sugli orrori di una guerra di occupazione senza testimoni. Sia le generalità del giornalista iracheno autore del servizio, sia quelle del sopravvissuto e degli altri testimoni, per evidenti ragioni di sicurezza, sono state tenute segrete ma depositate presso il «Tribunale di Bruxelles» erede del famoso «tribunale Russel» per la guerra in Vietnam. I fatti oggetto della clamorosa denuncia hanno avuto come sfortunati protagonisti tre braccianti impiegati in un allevamento di polli. Uno di loro è proprio il testimone sopravvissuto. Circa 25 anni, con due figli, il bracciante, che chiameremo Omar, quel giorno stava lavorando nella sua fattoria quando vide arrivare una decina di soldati, tutti con occhiali neri, «molto più armati dei militari che di solito si vedono in giro». Uno dei marines lo colpisce subito in faccia con il calcio di una mitragliatrice portatile e ancora sul petto e sullo stomaco gridandogli di confessare se vi fossero armi nella fattoria. Omar gli grida: «togliete i polli e guardate. Qui non ci sono mai state armi».

Il marines gli risponde sorridendo «Sei forte, sono sicuro che sei tu a mettere le bombe sulla strada». Poi i soldati tirano fuori le baionette e cominciano a passarsele sulle mani. Il comandante ordina loro di portare Omar e un suo compagno, che chiameremo Saad, in un fitto palmeto vicino alla serra. Qui, al riparo da sguardi indiscreti il capo del plotone «massiccio, non molto alto con gli occhi verdi e un tatuaggio sul petto» si inginocchia accanto a Omar, seduto a terra, e un altro marine, ancor più corpulento, vicino al suo amico. «A questo punto - sostiene Omar - ho capito che stavano per ucciderci. Con una mano il capo dei soldati mi ha preso per i capelli tirandomi indietro la testa. Ho visto la baionetta andare verso il collo e tagliarmi la gola dall'orecchio sinistro fino a quello destro. Ho sentito un gran dolore, mi sono rivoltato e ho cercato di fermare il sangue con le mani». Quindi Omar vede morire il suo amico: «Quello grasso ha messo la baionetta davanti alla gola di (Saad) e gliel'ha tagliata. Poi gli ha messo lo scarpone dietro la nuca e tirandogli indietro con forza la testa gli ha spezzato il collo. Il poveretto è morto subito». Omar è a terra, semisvenuto, sanguinante quando il comandante gli preme uno scarpone sul collo tagliato quasi soffocandolo e l'altro soldato, gli da un altro colpo di baionetta sul fianco destro. I marines a questo punto, convinti che entrambi siano morti, gettano i due corpi nelle acque basse del fiume e appiccano il fuoco al palmeto e ai vicini campi. Omar però ripresosi a contatto con l'acqua riesce a risalire sulla riva e li viene trovato e salvato dal proprietario della fattoria accorso con alcuni poliziotti locali a spegnere l'incendio. Portato a Baghdad il bracciante è riuscito a salvarsi, anche se è ancora semiparalizzato. Omar non riesce a darsi una spiegazione per quel che gli è accaduto e per la ferocia dei suoi aguzzini: «Non so perché ci hanno fatto questo. Non so se vi era stato un qualche attacco contro di loro ma di sicuro non dalle nostre parti. E poi non capisco perché, poco dopo, sono tornati di nuovo per mutilare i nostri corpi. Ovviamente il mio non l'hanno trovato e si sono accaniti su quello del mio collega. Hanno preso il suo cadavere e gli hanno tirato fuori gli occhi, massacrato la faccia e il mento. Noi siamo solamente dei lavoratori che gli abbiamo fatto?» Poi, cercando di trovare una qualche spiegazione, Omar sostiene poi: «Forse volevano accusare qualcun altro di averci sgozzato, forse volevano terrorizzarci mandando un messaggio a tutto il paese, forse volevano mostrare la loro forza. Forse si è trattato di una punizione collettiva. Sono rimasti nei palmeti per sei giorni e nessuno si è potuto avvicinare». Prima di finire la sua intervista il contadino iracheno parla poi di un altro episodio, terribile nella sua brutalità, che avrebbe visto come protagonisti i marines del « gruppo 27»: «Noi siamo stati i primi ma forse non gli ultimi a subire questo trattamento. Ho sentito qui in paese di due giovani guidatori uccisi e mutilati sulla strada principale. Uno di loro è stato squartato e gli hanno messo gli intestini attorno al collo. All'altro hanno tirato fuori il cuore e l'hanno messo sulla schiena». Tutto naturalmente «nel rispetto delle «regole di ingaggio».


STEFANO CHIARINI
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 Mauro    - 01-06-2005
Credo che questa sia stata in un certo senso una risposta alle decapitazioni eseguite dai terroristi Iracheni nei confronti dei prigionieri, forse un modo per dire "anche noi siamo in grado di farlo su di voi". Personalmente non giustifico questo atto, non corretto e poco professionale, però credo sia anche troppo semplice pensare alla correttezza ed alla professionalità non trovandosi laggiù a vivere determinate situazioni. Lo stress e la paura fanno brutti scherzi, e spesso ci trasformano in qualcosa che nemmeno immaginavamo di poter essere. Spero tutto questo Finisca presto, e che a pagare siano solo i veri colpevoli, sia da una parte che dall'altra.