Democrazia ambigua
Aldo Ettore Quagliozzi - 12-04-2005
Ora che abbiamo ammirato il pio Bush il giovane genuflesso davanti alla salma del pontefice di Roma, potendone non più temere l'incerta voce e le infuocate parole pronunciate contro la sua guerra preventiva, alle quali parole oppose a suo tempo senza mezzi termini i suoi " non possumus " di petroliere; ora che ritorna la politica ad occupare le prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo ed a riempire di immagini crudeli i video del pianeta Terra progredito e cristianizzato; ora che il luttuoso evento chiude immancabilmente una pagina della storia del ventunesimo secolo senza ancora poterne intravedere gli sviluppi, ci soccorre l'analisi di Noam Chomsky, americano di nascita, linguista di fama mondiale, esponente della sinistra radicale nordamericana e dal 1955 professore di linguistica all'Mit di Boston.

" La cosiddetta "promozione della democrazia" è diventata il tema dominante della politica statunitense in Medio Oriente.
Il progetto presenta una "forte linea di continuità" con tutto il periodo successivo alla guerra fredda. Lo sostiene Thomas Carothers, direttore del programma diritti e democrazia del Carnegie Endowment, nel suo ultimo libro Critical mission: essays on democracy promotion.
La sua conclusione è questa: "Là dove la democrazia sembra coincidere con la sicurezza e gli interessi economici degli Stati Uniti, Washington la promuove.
Là dove invece è in contrasto con altri interessi di rilievo, viene sottovalutata o ignorata".
Sotto la presidenza Reagan, dunque negli anni ottanta, Carothers ha lavorato per il dipartimento di stato a progetti di "incentivazione della democrazia" in America Latina, e ne ha raccontato la storia arrivando alle stesse conclusioni.
La "forte linea di continuità" – e gli interessi su cui poggia – investe anche i recenti avvenimenti mediorientali, mostrando quale sia la sostanza di questa posizione a favore della "promozione della democrazia".
Questa continuità è ben illustrata dalla nomina di John Negroponte a primo direttore dell'intelligence nazionale.
La carriera di Negroponte va dall'Honduras – dov'è stato ambasciatore di Reagan e ha diretto la guerra condotta contro il Nicaragua dalle forze terroristiche dei contras – all'Iraq, dove per breve tempo, come ambasciatore di George W. Bush, ha condotto un altro esercizio di "promozione della democrazia" – esperienza che potrà aiutarlo nel suo nuovo compito di lotta al terrorismo.
Neanche Orwell saprebbe se ridere o piangere.
Le elezioni irachene di gennaio sono state un successo e meritano ogni elogio. Ma poco si parla del successo più grande, e cioè che gli Stati Uniti sono stati costretti a permettere il voto.
Questo è il vero trionfo: non di coloro che seminano bombe, ma della resistenza non violenta dei cittadini iracheni, sia laici sia islamisti per i quali il grande ayatollah al Sistani è un simbolo.
Ebbene, contro le resistenze di americani e britannici al Sistani ha preteso che si votasse rapidamente, dando così voce alla determinazione degli iracheni di conquistare la libertà e l'indipendenza e un embrione di diritti democratici.
La resistenza non violenta è proseguita finché gli Stati Uniti non hanno potuto far altro che permettere le elezioni.
A quel punto la macchina propagandistica si è scatenata per presentare quella consultazione come un'iniziativa degli Usa.
È facile prevedere che Washington non sarà disposta a tollerare esiti politici a lei sgraditi, soprattutto in una regione del mondo così cruciale come il Medio Oriente.
Gli iracheni sono andati a votare nella speranza di porre fine all'occupazione. Ma Blair, Condoleezza Rice e altri hanno rifiutato di parlare di scadenze per il ritiro delle truppe finché gli eserciti occupanti non avranno completato la loro "missione", cioè portare la democrazia in Iraq costringendo il governo eletto a piegarsi alle pretese americane.
Il ritiro delle forze anglo-americane dipende non solo dagli iracheni, ma anche dalla capacità dell'elettorato americano e britannico di costringere i rispettivi governi ad accettare la sovranità irachena. Intanto gli Stati Uniti continuano ad avere un atteggiamento aggressivo verso l'Iran.
In questi ultimi anni gli Usa hanno consegnato a Israele oltre cento sofisticati bombardieri a reazione, dichiarando ai quattro venti che quegli apparecchi sarebbero in grado di bombardare l'Iran.
Tanto ostentato tintinnar di sciabole potrebbe servire a due scopi: indurre il governo iraniano a un giro di vite repressivo, incoraggiando così la resistenza popolare, e dissuadere con metodi intimidatori i rivali europei e asiatici degli Stati Uniti dal compiere passi diplomatici verso l'Iran.
Un altro evento che viene salutato come un trionfo della promozione della democrazia è il cessate il fuoco tra Sharon e Abu Mazen.
È un accordo positivo: meglio nessun morto che tanti morti. Ma vediamo meglio le condizioni poste per la tregua: l'unico elemento sostanziale è che la resistenza palestinese, anche contro l'occupazione, deve cessare.
Nulla potrebbe piacere di più ai falchi americani e israeliani della quiete, che consentirebbe loro di continuare a impossessarsi di terre e risorse della Cisgiordania, e di proseguire i colossali progetti di costruzione per spezzettare quel che resta dei Territori palestinesi in tanti "cantoni" separati.
Ma l'intransigenza americana con i palestinesi può continuare solo finché lo permettono i cittadini americani.
Insomma, per Washington l'elemento di continuità è questo: la democrazia e lo stato di diritto sono accettabili solo se servono ai suoi obiettivi strategici.
Ma secondo i sondaggi la posizione dei cittadini americani sull'Iraq e sul conflitto israelo-palestinese contrasta con la politica del governo.
Sorge quindi un interrogativo: la vera promozione della democrazia non dovrebbe cominciare proprio dagli Stati Uniti? "


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