I non possumus all’Uomo venuto dall’Est
Aldo Ettore Quagliozzi - 06-04-2005
Mentre il dolore, in certa qual misura sincero delle genti del pianeta Terra di tutte le religioni e confessioni per la scomparsa di cotanta umana figura non tende a lenirsi in attesa dell’evento finale, urge restituire all’Uomo venuto dall’Est la sua piena dimensione umana che sfugge sempre alle commemorazioni del momento.
E tutto ciò è reso necessario affinché dell’Uomo risplendano i meriti grandiosi e storici, al pari delle Sue umane “ debolezze “, intese nella accezione piena della pratica del potere secolare che permea anche la figura del pontefice massimo di Roma.
A tal proposito propongo la testimonianza di Maurizio Chierici apparsa sul quotidiano ‘ l’Unità ‘ col titolo “ Tutti i muri che non ha abbattuto. “

“ ( … ) … è stato detto e scritto quasi tutto, ma non tutto sulla storia di un pontefice che ha vinto una sola battaglia contribuendo alla frana del comunismo, purtroppo perdendo quasi tutte le altre.
Si era illuso di sfidare i poteri che governano il mondo invocando dignità e pace per ogni essere umano.
Lo hanno ascoltato quando la convenienza dell'economia voleva liberarsi di un avversario ormai in declino, eppure ancora fastidioso.
La spiritualità del Papa polacco serviva a coprire armi e scudi spaziali che Reagan stava spendendo per inginocchiare Mosca.
E la democrazia torna a Varsavia. Cadono i muri, si scioglie l'impero dei soviet e fra le rovine vengono alla luce gli orrori.
Per fermare Wojtyla provano ad ucciderlo, ma il Papa che cade e rinasce dà la spallata decisiva. L'Europa cambia faccia: gli deve tanto.
Smontata l'oppressione che lo aveva perseguitato, Giovanni Paolo II alza gli occhi verso il resto del mondo.
Primo, secondo, terzo, quarto mondo. Troppi. Non ne sopporta le ingiustizie e riparte per la seconda battaglia nella convinzione di sradicare altre tirannie, fame e disintegrazione sociale, soprattutto le guerre.
Cominciano le delusioni. Se il suo impegno morale aveva smontato le dottrine dei gulag, gli è proibito coniugare il regno di Dio col regno di Wall Street per evitare che il denaro diventi l'unico problema quotidiano di chi moltiplica il denaro allargando la disoccupazione, trascurando la fame per spingere sulle strade dell'emigrazione intere regioni.
Ma il Papa scopre un altro muro, più ambiguo, quindi più difficile di quello rosso. Dietro i sorrisi di comprensione gli si fa capire l'impossibilità di fermare globalizzazione e liberismo, soprattutto far sparire un'altra parola che il Pontefice non sopporta: desaparecidos, chi sparisce perché pretende dignità sociale.
Ecco le delusioni, il lungo elenco dei no. Attorno alle spoglie di Giovanni Paolo II sono queste le ore della commozione con i protagonisti del «no» che cercano di annebbiare l'ostilità con la quale hanno contrastato le invocazioni del Papa.
Il presidente Bush sta pregando per Giovanni Paolo II, ma Bush governatore del Texas non ha mai risposto all'appello del Vaticano quando chiedeva di non bruciare ragazzi malati di mente, o adolescenti pentiti.
Il Bush della Casa Bianca ha fatto finta di non sentire la voce del Papa che si illudeva di fermare la guerra preventiva e l'invasione dell'Iraq.
Mandava ambasciatori, spediva lettere segrete, invocava e si umiliava alla finestra. Silenzio. Adesso Bush prega.
Visitando l'Avana, Giovanni Paolo II aveva sperato che il dialogo con Castro aprisse alla chiesa la libertà di un'informazione indispensabile a far crescere l'impegno morale distogliendo i cubani dall'apatia del consumismo respirato fra le abitudini dei nostri vacanzieri.
Risultati modesti; sette anni dopo non è cambiato gran che. Per capire: l'anno scorso muore il giovane vescovo della capitale, ma giornali e Tv non ne hanno dato notizia. La chiesa resta tabù. Eppure Perez Roque, cancelliere di Castro, ha ieri proclamato tre giorni di lutto nazionale, dolore di stato per la scomparsa del Papa. Che senso ha?
E che spiegazione dare alle facce addolorate dei politici di Roma raccolti con le lacrime sul ciglio davanti alle spoglie del Pontefice.
Solo l'emozione di Ciampi appare sincera. Berlusconi recita uno strazio immaginario, Calderoli fa sapere d'aver pianto, Fini ricorda Giovanni Paolo II come compagno di viaggio nella ricerca della pace.
Ma sono gli uomini di governo che hanno sostenuto la guerra con l'ipocrisia di chi un po' si vergogna e gioca sugli aiuti umanitari; politici che hanno accolto il Papa a Montecitorio dove le due camere erano riunite per ascoltarne le parole.
Wojtyla aveva chiesto una sola cosa: l'amnistia per i reclusi per reati minori. Le carceri scoppiano. I processi non arrivano mai. Perché incattivire il disagio? Offrire la possibilità di redenzione voleva dire ridare fiducia a uomini e donne che è possibile recuperare.
Applausi. Ancora sorrisi. Il presidente Berlusconi lo accompagna esibendo familiarità da fratello di fede. Allarga le mani come un sovrano: invocazione accolta.
Il vice presidente Fini parla di avvenimento storico. Ma i conti della politica vivono equilibri meno nobili dell'ottimismo del Papa.
La Lega non molla sul pugno di ferro. Per una volta tanto perfino Gasparri è d'accordo. E l'indulto diventa indultino, rimpicciolito, ma qualcosa si farà: non se ne fa niente.
I no a Wojtyla piovono anche da Israele: Gerusalemme città aperta alle tre religioni? Non se ne parla. Chiesa della natività assediata, buldozer che sbriciolano case palestinesi e quel muro - un altro muro - che Wojtyla non vuol vedere. La pioggia dei no continua.
Un pontificato così lungo non sfugge agli errori. Se ne parlerà e tanto quando avremo un nuovo Papa.
Il primo, fondamentale, è l'aver dimenticato il continente latino dove è raccolto il maggior numero di cattolici del mondo.
Erano gli anni dedicati a liberare la sua Polonia. Guarda solo lì lasciando alle diplomazie vaticane il compito di correggere la «logorrea» dei figli del Concilio Vaticano II: quell'orribile teologia della liberazione che aveva moltiplicato i catechisti nelle favelas e nelle campagne, e rigenerato la speranza nei giovani preti di paesi dove strategie lontane organizzavano dittature e squadre della morte.
Alcuni vescovi stavano tentando di trasformare la rabbia degli oppressi in una testimonianza pacifica da organizzare attorno ad una fede impegnata a contenere lo scandalo delle ingiustizie. Quel Vaticano anni 80 li ha oscurati considerandoli protagonisti pericolosamente in bilico sulla frontiera che divide il mondo libero e cristiano, dall'ateismo del comunismo ribellista.
E li ha condannati all'abbandono. Abbandonato il vescovo Romero ucciso in Salvador: Giovanni Paolo II lo ha incontrato un solo minuto per la foto ricordo.
Sapeva degli appelli disperati che Romero aveva spedito? Una foto non è bastata a salvarlo. Abbandonato il successore, Rivera Damas: per due anni gli si è fatto sospirare il titolo di primate della chiesa salvadoregna mantenendolo nel non potere dell'amministratore apostolico.
Quindi bersaglio delle destre furibonde. Amministratore apostolico è il compromesso dei paesi dove il silenzio è obbligato e la clandestinità requisito della sopravvivenza.
In Cina, per esempio. Ma nel Salvador sacerdoti e suore predicavano in pubblico per non abbandonare i senza niente minacciati dalle grandi famiglie infastidite da un vescovo «non dignitoso».
Sono morti dodici religiosi, quattro gesuiti e Romero, vittime inutili perché nelle abitudini delle preghiere italiane la chiesa del silenzio restava solo polacca.
Senza parlare della necrologia-ricordo dove Romero viene ridotto a «zelante pastore»: si dice di un parroco che si spegne nel suo letto tranquillo nella campagna d'Abruzzo.
Il conservatorismo della burocrazia vaticana non sopportava chi ne ricordava il sacrificio. Pedro Casaldaliga, vescovo catalano di Sao Felix do Xingu, Mato Grosso, è stato processato per tre giorni dal cardinale Ratzinger per aver esposto all'ingresso della sua piccola cattedrale, un ritratto di Romero con la scritta «santo del popolo americano».
E mentre monsignor Samuel Ruiz, vescovo di San Cristobal, Chiapas messicano, era asserragliato nella chiesa assediata da latifondisti scatenati contro il pastore che rifiutava l'ospitalità delle loro dimore per andare a dormire nelle baracche degli indios diseredati, a Città del Messico il nunzio apostolico monsignor Prigione, condannava con parole di fuoco l'«avventurismo» del vescovo.
E aggiungeva sibillino: fra un po' compie 75 anni e se Dio vuole non starà al suo posto un minuto di più. Parole profetiche.
Via Ruiz, l'ausiliare monsignor Vera che aveva condiviso l'esperienza di don Samuel, ne assume la carica, ma dura pochi mesi: subito trasferito nel deserto al confine con gli Stati Uniti.
Pare che Giovanni Paolo II fosse male informato sulle decisioni di un establishement le cui pieghe era impossibile controllare.
Riceveva informazioni vaghe e indolori anche perché nascondevano decisioni contrarie all'impegno profetico che lui distribuiva, con la sofferenza dell'infermo, nei paesi più lontani del mondo.
Ma il risultato del disastro non cambia: il solco tra chiesa cattolica e popolazioni si é allargato aprendo un baratro dentro il quale si moltiplicano le sette protestanti della destra religiosa nordamericana, finanziate dalla dottrina Rockfeller e protette nell'ombra dai poteri forti dei paesi deboli.
Bush ne è il nuovo profeta. Fra i cattolici latini domina l'Opus Dei, ma non riguarda le folle della fame.
Crescono i Legionari di Cristo, la cui intransigenza fa impallidire i borghesi Opus. La gente qualsiasi resta sempre più sola.
Nei giorni del dolore mentre ognuno si ritaglia un Papa di comodo, il rimpianto più commovente è la malinconia dell'Abbé Pierre: «Nessuno come Giovanni Paolo II si è prodigato per contestare le ipocrisie e con passione predicare la giustizia sociale, soprattutto la pace. Sono contento di aver pregato assieme a un Papa così». “

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 A.Q.    - 06-04-2005
Wojtyla, l’inverno della Chiesa

Da non credente che non si è mai definito ateo, da non credente stordito dall’evento mediatico andato ogni oltre limite e misura, da non credente che ha sempre avuto per sé una “ religione della vita “ che ne guidasse i passi incerti, da non credente che ha visto i credenti sostituire ai segni discreti ed intimi della fede le manifestazioni più mondane – un tempo ci si segnava ad un funerale o quantomeno si osservava la compostezza che la circostanza richiedeva - , da non credente che va alla ricerca di un momento composto di intima riflessione che conduca la coscienza e la umana intelligenza alla leggerezza propria di questi momenti, liberi dai condizionamenti dei mezzi di comunicazione di massa, la lettura della testimonianza di Leonardo Boff, che da’ il titolo alla rilettura, resa a Maurizio Chierici e pubblicata sul quotidiano ” l’Unità “, sembra placare l’ansia propria di un non credente, affinché sia restituita la dimensione umana più autentica all’ Uomo venuto dall’Est.
E la dimensione umana più autentica non può non accogliere i “ chiari “ e gli “ oscuri “ di una vita, anche nel momento più tragico e liberatorio del trapasso.

“ Da lontano Leonardo Boff vive il dolore di Roma. Comincio il colloquio col teologo francescano disarmato dagli inquisitori vaticani - ultimo censore il cardinale Ratzinger- partendo dal suo libro appena uscito in Brasile.
Verrà pubblicato in Italia dalla Cittadella di Assisi: «San Giuseppe e la personificazione del padre».
Per vent'anni Boff ha studiato la figura di San Giuseppe affascinato dal suo silenzio e dalle poche righe che le scritture gli hanno dedicato.
Solo nel 1960 Giovanni XXIII ne ha inserito il nome nei canoni della messa. Per secoli la sua spiritualità è stata resa invisibile da papi, vescovi e da quei sacerdoti che dominano la scena. Perché Giuseppe non era nessuno. Ha vissuto nell'ombra come vive la maggioranza dei cristiani che oggi prendono sul serio il vangelo.
Più che patrono della chiesa universale, è il patrono della chiesa domestica, della gente umile, della gente buona e senza nome sepolta nei giorni grigi di chi si guadagna la vita faticando per onorare la famiglia nel segno dell'onestà.
Giuseppe è il loro esempio naturale, loro guida spirituale. Non ha lasciato in eredità una sola parola, non si sa quando è nato e quando è morto, eppure ha indicato la regola fondamentale raccolta da milioni di fedeli dimenticati. Non discutono dio ma si affidano alla sua luce. Sempre in silenzio.
Si ha l'impressione di una sottolineatura della diversità dal Papa che si sta piangendo a Roma.

Nella sua speranza il nuovo pontefice quale novità dovrebbe interpretare?

«Spero che il nuovo Papa decentralizzi la chiesa. Giovanni Paolo II aveva raccolto attorno alla sua figura ogni attenzione.
Tutto convergeva a Roma o a Cracovia anche se il mondo é più complesso. La folla dei cattolici e dei cristiani contempla enormi diversità.
E questo modello non è ormai in grado di interpretarle con l'urgenza necessaria. Perché le realtà non si somigliano, dall'Africa all'America Latina, e per dare un volto umano alla globalizzazione concepita come concorrenza e non cooperazione, la chiesa dovrebbe trasformarsi in una rete di comunità.
Il centro non riesce ad interpretare problemi e drammi che si sviluppano lontani dai rituali dalle cattedre che sappiamo».

Leonardo Boff ha 58 anni. Abita poco lontano da Petropolis, specie di Versaille che l'ultimo imperatore Pedro II aveva costruito nelle montagne alle spalle di Rio.
Professore di teologia, filosofia ed ecologia ha lavorato più di vent'anni tra il mondo accademico e il mondo dei poveri anche dopo l'abbandono del saio.
Assieme a Frei Betto è stata la voce importante della teologia della liberazione, rimproverata come eretismo protestante.
L'inquisitore lo accusava di dar retta alla costruzione creata dai sociologi e ideologi delle cellule marxiste, preoccupandosi di una fame e povertà che in Brasile non esistono.

La visione di questa rete quale nuovo Papa può affascinare?

«Bisogna utilizzare una certa furbizia politica. Le candidature che escono dalle capitali dell'impero, Nord America ed Europa, dove prevalgono le egemonie mondiali, rischiano di provocare diffidenze diverse: chi vive a Parigi o Berlino è influenzato dalla cultura nella quale è immerso assieme ai propri i fedeli.
E i popoli dei continenti infelici potrebbero ascoltarne gli insegnamenti, diffidando. Non deve essere un vescovo di curia: troppo burocratico.
La curia ha perseguitato 140 teologi i cui suggerimenti nascevano dalla condivisione dei problemi della gente.
Spero che la scelta cada su cardinali pastori, e non dottori. Vivono fra i fedeli, ne conoscono speranza e sofferenza».

Sembra un suggerimento per piegare la scelta tra candidati africani e latini d'America...

«È un desiderio. L'America Latina ha due cardinali che rispondono a questo desiderio. Claudio Hummes, di San Paolo.
Il suo profilo ecclesiale ricorda Giovanni Paolo II nella sicurezza della dottrina. Ma l'apertura è diversa.
È disposto a confrontarsi su tutto, morale e manipolazione genetica comprese. È stato il vescovo del Lula sindacalista a San Bernardo do Campo, città operaia attorno a San Paolo.
Si conoscono, si frequentano da sempre. Ha studiato a Lovanio e la sua freddezza ne offusca il carisma anche se l'esperienza pastorale lo ha mescolato e continua a legarlo alla realtà della gente qualsiasi.
Più sciolto e con la stessa abitudine ad ascoltare i fedeli nei quali ama immergersi, l'altro cardinale, Oscar André Rodriguez Madriaga, ha difeso la teologia della liberazione con cautela pur ribadendo senza esitazioni che l'assenza della giustizia sociale è all'origine di inquietudini da non condannare a scatola chiusa.
Quando era presidente della Conferenza Episcopale Latino America è riuscito a rimarginare le divisioni che avvelenavano i cattolici di latitudini diverse.
Un diplomatico convincente. Parla cinque lingue. Suona, canta, guida l'aereo ed ha una conoscenza non banale dell'economia mondiale. La interpreta come un pastore dei poveri deve interpretare.

Le comunità di base non hanno avuto vita facile nel pontificato appena concluso: come lo spiega?

«È incomprensibile. In America Latina e in Brasile mancano i sacerdoti. Dovrebbero essere 120 mila. Ne abbiamo 17 mila. Ogni parroco copre cinque o sei parrocchie lontane.
Un vuoto nelle istituzioni. Le comunità servivano a colmare questo deficit. Roma non le amava. Sono laici e corrono troppo avanti, è il timore della chiesa centralizzata ».

Un vuoto occupato dalle sette pentecostali...
«Non è una tragedia. Contribuiscono a tener vivo lo spiritualismo della gente. Ormai bisogna dialogare con tutte le chiese.
I problemi sono drammatici: un Brasile con 40 milioni di poveri deve riunire ogni forza morale alla ricerca della giustizia possibile.
Le chiese possono affrontare assieme la sfida. Proprio in questi giorni, cattolici, protestanti, sincretici stanno discutendo assieme alle sette quale strategia comune adottare per risolvere i problemi dell'acqua e della fame».

Di quale Papa ha nostalgia?

«Di Papa Giovanni, come tutti. Ma è Paolo VI che affascinava. Un intellettuale sottile. Lasciava ai teologi la libertà di cercare e sperimentare.
Ma è venuto l'inverno di Giovanni Paolo II: ha normalizzato la teologia ed imposto il pensiero unico alzando un bastione per difendere la chiesa ormai trasformata in una realtà occidentale. Solo occidentale mentre il cristianesimo è generoso e si apre ad ogni dialogo».

Eppure è stato un Papa di incredibile successo...

«Perché l'umanità è orfana di leader. Bush arrogante e violento. Europei tecnocratici senza fascino.
Nel panorama grigio, Giovanni Paolo II ha offerto ai giovani il suo carisma dilatato nei media per riscattare la religione con una comunicazione che diventa valore.
Il valore che ha contribuito a distruggere il comunismo. Solo il comunismo, perché è difficile intaccare il liberismo costruito su basi economiche e militari». “


 Gianni Mereghetti    - 07-04-2005
L’8 aprile mentre tutto il mondo accorre a Roma a dare l’estremo saluto a Giovanni Paolo II, il mondo della scuola, bontà sua!, si ferma alle ore 12.00 con un minuto di silenzio. E’ triste che non si sia avuto il coraggio di riconoscere al Papa un giorno di lutto nazionale, chiudendo le scuole e permettendo ad insegnanti e studenti di fissare lo sguardo totalmente su questo grande uomo. Meno male che da questa grave insensibilità del ministro hanno preso le distanze tutti quegli insegnanti e studenti, che hanno avuto la libertà di sconvolgere i ritmi soliti della scuola, paragonandosi con la positività che questo Papa ha portato dentro la loro vita.

 Pierangelo    - 09-04-2005
da il Manifesto del 8.4.2005

Il papa che verrà

Non è gentile, non è opportuno criticare un defunto, a salma ancora calda. Di solito le critiche si fanno più avanti, quando la salma si è raffreddata. Prima è il momento degli elogi che - per verità, per cortesia o per ipocrisia - si fanno a tutti i morti. Volevo anch'io fare così, rimandando ad un secondo tempo le valutazioni degli aspetti negativi, presenti in papa Wojtyla, come in ogni essere umano, per potente e sacro e santo che sia. Però quanto sta succedendo: l'enfasi celebratoria che rasenta il fanatismo idolatrico (qualcuno ha parlato di papolatria) mi induce ad anticipare alcune critiche, anche se questo è il momento meno adatto. E' risaputo che, durante il Concilio, Wojtyla fu sempre dalla parte conservatrice e si oppose duramente a quei documenti conciliari che aprirono alla chiesa ed al mondo nuove strade. In seguito, eletto papa, la sua linea non cambiò e la sua teologia (posto che teologia si possa dire ciò che fu una semplice norma pastorale) fu sotto lo stesso segno regressivo: vedi l'opposizione al sacerdozio femminile il ribadito assenso al celibato ecclesiastico, alle discusse norme contraccettive, alla morale sessuale e via dicendo. E in tutto questo non si riferì (non poteva, in alcun modo, riferirsi) alla fede e alla Scrittura. Si tratta solo di teologia (e di cattiva teologia come cattiva è sempre stata la teologia che vige in Vaticano).

Questo per quanto attiene alla dottrina. Se poi vogliamo scendere a considerazioni più strettamente personali dobbiamo registrare l'appoggio che Wojtyla ha sempre dato all'Opus Dei: appoggio che è culminato con la canonizzazione dell'Escrivà de Balaguer che, com'è noto, dell'Opus fu il discusso fondatore. La canonizzazione dell'Escrivà: un personaggio quanto mai ambiguo («Va via, puttana porca» esclamò contro una donna che aveva osato contraddirlo) fu un fatto scandaloso; e so di telegrammi di indignato dissenso di cui il papa non tenne alcun conto. Né quella dell'Escrivà fu la sola canonizzazione discutibile. Altre ne seguirono.

Oltre alla qualità va rilevata l'incredibile quantità dei beati e dei santi creati da questo papa: più di quanti ne abbiamo fatti tutti i suoi predecessori messi insieme: un fatto assolutamente anomalo, nella storia della chiesa.

Penso che possa bastare; e mi scuso per tutti gli ammiratori (e verrebbe quasi da dire «adoratori») di questo papa che ha pur tanti meriti: ad esempio lo slancio ecumenico (mentre però seguitava ad elargire indulgenze che certo ecumeniche non sono).

Dopo questo papa, di cui tutto il mondo ha parlato con toni che, come già abbiamo detto, rasentano la papolatria, qual'è il successore più idoneo a ricondurre la chiesa a toni più poveri ed evangelicamente più dimessi?

Personalmente mi auguro una figura di basso profilo, proprio per ridimensionare la figura papale e contrastare l'enfasi papalista che è un «peccato» tipicamente cattolico. Un papa senza spettacolo, dimesso: meno «papa» possibile, nel senso trionfale che questa figura ha sovente incarnato. Un papa che abbandoni la piazza trionfale di san Pietro e si trasferisca a san Giovanni in Laterano: la cattedrale di Roma. Semplificando (con tutta l'approssimazione delle semplificazioni) si potrebbe dire che san Pietro è il potere, san Giovanni la fede.

Il papa è gestore universale in quanto vescovo di Roma. Però la cura della diocesi è sempre stata trascurata e demandata ad un vicario, il che significa accentuare oltre misura il potere universale a detrimento della cura pastorale di quella diocesi che pure è quanto rende papa il papa. In sintesi possiamo dire che il papa di domani vorremmo che fosse sempre più uomo come noi: senza extraterritorialità, senza svizzeri ed alabarde, senza stato né capi di stato (e quanti ne verranno a Roma, in questi giorni!) ma con una tavola accogliente alla cui mensa invitare non solo i potenti della terra ma anche i suoi cuochi e giardinieri. Un giardino glielo vogliamo concedere, con tante rose, qualche lucertola e qualche gatto.

Adriana Zarri