A.Q. - 06-04-2005 |
Wojtyla, l’inverno della Chiesa Da non credente che non si è mai definito ateo, da non credente stordito dall’evento mediatico andato ogni oltre limite e misura, da non credente che ha sempre avuto per sé una “ religione della vita “ che ne guidasse i passi incerti, da non credente che ha visto i credenti sostituire ai segni discreti ed intimi della fede le manifestazioni più mondane – un tempo ci si segnava ad un funerale o quantomeno si osservava la compostezza che la circostanza richiedeva - , da non credente che va alla ricerca di un momento composto di intima riflessione che conduca la coscienza e la umana intelligenza alla leggerezza propria di questi momenti, liberi dai condizionamenti dei mezzi di comunicazione di massa, la lettura della testimonianza di Leonardo Boff, che da’ il titolo alla rilettura, resa a Maurizio Chierici e pubblicata sul quotidiano ” l’Unità “, sembra placare l’ansia propria di un non credente, affinché sia restituita la dimensione umana più autentica all’ Uomo venuto dall’Est. E la dimensione umana più autentica non può non accogliere i “ chiari “ e gli “ oscuri “ di una vita, anche nel momento più tragico e liberatorio del trapasso. “ Da lontano Leonardo Boff vive il dolore di Roma. Comincio il colloquio col teologo francescano disarmato dagli inquisitori vaticani - ultimo censore il cardinale Ratzinger- partendo dal suo libro appena uscito in Brasile. Verrà pubblicato in Italia dalla Cittadella di Assisi: «San Giuseppe e la personificazione del padre». Per vent'anni Boff ha studiato la figura di San Giuseppe affascinato dal suo silenzio e dalle poche righe che le scritture gli hanno dedicato. Solo nel 1960 Giovanni XXIII ne ha inserito il nome nei canoni della messa. Per secoli la sua spiritualità è stata resa invisibile da papi, vescovi e da quei sacerdoti che dominano la scena. Perché Giuseppe non era nessuno. Ha vissuto nell'ombra come vive la maggioranza dei cristiani che oggi prendono sul serio il vangelo. Più che patrono della chiesa universale, è il patrono della chiesa domestica, della gente umile, della gente buona e senza nome sepolta nei giorni grigi di chi si guadagna la vita faticando per onorare la famiglia nel segno dell'onestà. Giuseppe è il loro esempio naturale, loro guida spirituale. Non ha lasciato in eredità una sola parola, non si sa quando è nato e quando è morto, eppure ha indicato la regola fondamentale raccolta da milioni di fedeli dimenticati. Non discutono dio ma si affidano alla sua luce. Sempre in silenzio. Si ha l'impressione di una sottolineatura della diversità dal Papa che si sta piangendo a Roma. Nella sua speranza il nuovo pontefice quale novità dovrebbe interpretare? «Spero che il nuovo Papa decentralizzi la chiesa. Giovanni Paolo II aveva raccolto attorno alla sua figura ogni attenzione. Tutto convergeva a Roma o a Cracovia anche se il mondo é più complesso. La folla dei cattolici e dei cristiani contempla enormi diversità. E questo modello non è ormai in grado di interpretarle con l'urgenza necessaria. Perché le realtà non si somigliano, dall'Africa all'America Latina, e per dare un volto umano alla globalizzazione concepita come concorrenza e non cooperazione, la chiesa dovrebbe trasformarsi in una rete di comunità. Il centro non riesce ad interpretare problemi e drammi che si sviluppano lontani dai rituali dalle cattedre che sappiamo». Leonardo Boff ha 58 anni. Abita poco lontano da Petropolis, specie di Versaille che l'ultimo imperatore Pedro II aveva costruito nelle montagne alle spalle di Rio. Professore di teologia, filosofia ed ecologia ha lavorato più di vent'anni tra il mondo accademico e il mondo dei poveri anche dopo l'abbandono del saio. Assieme a Frei Betto è stata la voce importante della teologia della liberazione, rimproverata come eretismo protestante. L'inquisitore lo accusava di dar retta alla costruzione creata dai sociologi e ideologi delle cellule marxiste, preoccupandosi di una fame e povertà che in Brasile non esistono. La visione di questa rete quale nuovo Papa può affascinare? «Bisogna utilizzare una certa furbizia politica. Le candidature che escono dalle capitali dell'impero, Nord America ed Europa, dove prevalgono le egemonie mondiali, rischiano di provocare diffidenze diverse: chi vive a Parigi o Berlino è influenzato dalla cultura nella quale è immerso assieme ai propri i fedeli. E i popoli dei continenti infelici potrebbero ascoltarne gli insegnamenti, diffidando. Non deve essere un vescovo di curia: troppo burocratico. La curia ha perseguitato 140 teologi i cui suggerimenti nascevano dalla condivisione dei problemi della gente. Spero che la scelta cada su cardinali pastori, e non dottori. Vivono fra i fedeli, ne conoscono speranza e sofferenza». Sembra un suggerimento per piegare la scelta tra candidati africani e latini d'America... «È un desiderio. L'America Latina ha due cardinali che rispondono a questo desiderio. Claudio Hummes, di San Paolo. Il suo profilo ecclesiale ricorda Giovanni Paolo II nella sicurezza della dottrina. Ma l'apertura è diversa. È disposto a confrontarsi su tutto, morale e manipolazione genetica comprese. È stato il vescovo del Lula sindacalista a San Bernardo do Campo, città operaia attorno a San Paolo. Si conoscono, si frequentano da sempre. Ha studiato a Lovanio e la sua freddezza ne offusca il carisma anche se l'esperienza pastorale lo ha mescolato e continua a legarlo alla realtà della gente qualsiasi. Più sciolto e con la stessa abitudine ad ascoltare i fedeli nei quali ama immergersi, l'altro cardinale, Oscar André Rodriguez Madriaga, ha difeso la teologia della liberazione con cautela pur ribadendo senza esitazioni che l'assenza della giustizia sociale è all'origine di inquietudini da non condannare a scatola chiusa. Quando era presidente della Conferenza Episcopale Latino America è riuscito a rimarginare le divisioni che avvelenavano i cattolici di latitudini diverse. Un diplomatico convincente. Parla cinque lingue. Suona, canta, guida l'aereo ed ha una conoscenza non banale dell'economia mondiale. La interpreta come un pastore dei poveri deve interpretare. Le comunità di base non hanno avuto vita facile nel pontificato appena concluso: come lo spiega? «È incomprensibile. In America Latina e in Brasile mancano i sacerdoti. Dovrebbero essere 120 mila. Ne abbiamo 17 mila. Ogni parroco copre cinque o sei parrocchie lontane. Un vuoto nelle istituzioni. Le comunità servivano a colmare questo deficit. Roma non le amava. Sono laici e corrono troppo avanti, è il timore della chiesa centralizzata ». Un vuoto occupato dalle sette pentecostali... «Non è una tragedia. Contribuiscono a tener vivo lo spiritualismo della gente. Ormai bisogna dialogare con tutte le chiese. I problemi sono drammatici: un Brasile con 40 milioni di poveri deve riunire ogni forza morale alla ricerca della giustizia possibile. Le chiese possono affrontare assieme la sfida. Proprio in questi giorni, cattolici, protestanti, sincretici stanno discutendo assieme alle sette quale strategia comune adottare per risolvere i problemi dell'acqua e della fame». Di quale Papa ha nostalgia? «Di Papa Giovanni, come tutti. Ma è Paolo VI che affascinava. Un intellettuale sottile. Lasciava ai teologi la libertà di cercare e sperimentare. Ma è venuto l'inverno di Giovanni Paolo II: ha normalizzato la teologia ed imposto il pensiero unico alzando un bastione per difendere la chiesa ormai trasformata in una realtà occidentale. Solo occidentale mentre il cristianesimo è generoso e si apre ad ogni dialogo». Eppure è stato un Papa di incredibile successo... «Perché l'umanità è orfana di leader. Bush arrogante e violento. Europei tecnocratici senza fascino. Nel panorama grigio, Giovanni Paolo II ha offerto ai giovani il suo carisma dilatato nei media per riscattare la religione con una comunicazione che diventa valore. Il valore che ha contribuito a distruggere il comunismo. Solo il comunismo, perché è difficile intaccare il liberismo costruito su basi economiche e militari». “ |
Gianni Mereghetti - 07-04-2005 |
L’8 aprile mentre tutto il mondo accorre a Roma a dare l’estremo saluto a Giovanni Paolo II, il mondo della scuola, bontà sua!, si ferma alle ore 12.00 con un minuto di silenzio. E’ triste che non si sia avuto il coraggio di riconoscere al Papa un giorno di lutto nazionale, chiudendo le scuole e permettendo ad insegnanti e studenti di fissare lo sguardo totalmente su questo grande uomo. Meno male che da questa grave insensibilità del ministro hanno preso le distanze tutti quegli insegnanti e studenti, che hanno avuto la libertà di sconvolgere i ritmi soliti della scuola, paragonandosi con la positività che questo Papa ha portato dentro la loro vita. |
Pierangelo - 09-04-2005 |
da il Manifesto del 8.4.2005 Il papa che verrà Non è gentile, non è opportuno criticare un defunto, a salma ancora calda. Di solito le critiche si fanno più avanti, quando la salma si è raffreddata. Prima è il momento degli elogi che - per verità, per cortesia o per ipocrisia - si fanno a tutti i morti. Volevo anch'io fare così, rimandando ad un secondo tempo le valutazioni degli aspetti negativi, presenti in papa Wojtyla, come in ogni essere umano, per potente e sacro e santo che sia. Però quanto sta succedendo: l'enfasi celebratoria che rasenta il fanatismo idolatrico (qualcuno ha parlato di papolatria) mi induce ad anticipare alcune critiche, anche se questo è il momento meno adatto. E' risaputo che, durante il Concilio, Wojtyla fu sempre dalla parte conservatrice e si oppose duramente a quei documenti conciliari che aprirono alla chiesa ed al mondo nuove strade. In seguito, eletto papa, la sua linea non cambiò e la sua teologia (posto che teologia si possa dire ciò che fu una semplice norma pastorale) fu sotto lo stesso segno regressivo: vedi l'opposizione al sacerdozio femminile il ribadito assenso al celibato ecclesiastico, alle discusse norme contraccettive, alla morale sessuale e via dicendo. E in tutto questo non si riferì (non poteva, in alcun modo, riferirsi) alla fede e alla Scrittura. Si tratta solo di teologia (e di cattiva teologia come cattiva è sempre stata la teologia che vige in Vaticano). Questo per quanto attiene alla dottrina. Se poi vogliamo scendere a considerazioni più strettamente personali dobbiamo registrare l'appoggio che Wojtyla ha sempre dato all'Opus Dei: appoggio che è culminato con la canonizzazione dell'Escrivà de Balaguer che, com'è noto, dell'Opus fu il discusso fondatore. La canonizzazione dell'Escrivà: un personaggio quanto mai ambiguo («Va via, puttana porca» esclamò contro una donna che aveva osato contraddirlo) fu un fatto scandaloso; e so di telegrammi di indignato dissenso di cui il papa non tenne alcun conto. Né quella dell'Escrivà fu la sola canonizzazione discutibile. Altre ne seguirono. Oltre alla qualità va rilevata l'incredibile quantità dei beati e dei santi creati da questo papa: più di quanti ne abbiamo fatti tutti i suoi predecessori messi insieme: un fatto assolutamente anomalo, nella storia della chiesa. Penso che possa bastare; e mi scuso per tutti gli ammiratori (e verrebbe quasi da dire «adoratori») di questo papa che ha pur tanti meriti: ad esempio lo slancio ecumenico (mentre però seguitava ad elargire indulgenze che certo ecumeniche non sono). Dopo questo papa, di cui tutto il mondo ha parlato con toni che, come già abbiamo detto, rasentano la papolatria, qual'è il successore più idoneo a ricondurre la chiesa a toni più poveri ed evangelicamente più dimessi? Personalmente mi auguro una figura di basso profilo, proprio per ridimensionare la figura papale e contrastare l'enfasi papalista che è un «peccato» tipicamente cattolico. Un papa senza spettacolo, dimesso: meno «papa» possibile, nel senso trionfale che questa figura ha sovente incarnato. Un papa che abbandoni la piazza trionfale di san Pietro e si trasferisca a san Giovanni in Laterano: la cattedrale di Roma. Semplificando (con tutta l'approssimazione delle semplificazioni) si potrebbe dire che san Pietro è il potere, san Giovanni la fede. Il papa è gestore universale in quanto vescovo di Roma. Però la cura della diocesi è sempre stata trascurata e demandata ad un vicario, il che significa accentuare oltre misura il potere universale a detrimento della cura pastorale di quella diocesi che pure è quanto rende papa il papa. In sintesi possiamo dire che il papa di domani vorremmo che fosse sempre più uomo come noi: senza extraterritorialità, senza svizzeri ed alabarde, senza stato né capi di stato (e quanti ne verranno a Roma, in questi giorni!) ma con una tavola accogliente alla cui mensa invitare non solo i potenti della terra ma anche i suoi cuochi e giardinieri. Un giardino glielo vogliamo concedere, con tante rose, qualche lucertola e qualche gatto. Adriana Zarri |