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Della politica e del teatro
Repubblica Bari - 15-03-2005
"Prestatemi orecchio" dice il nobile Antonio appressandosi al cadavere di Cesare ai Rostri per cominciare ad arringare la folla ondivaga dei Quiriti nel tentativo (riuscito) di capovolgere le sorti della Repubblica e vanificare la congiura di Bruto e Cassio. La celeberrima orazione, cavallo di battaglia dei provini e delle audizioni degli attori debuttanti, resta un esempio di grande teatro e di oratoria politica. Shakespeare conosceva i dettami della scuola di eloquenza alessandrina? Si direbbe di si. Ma quel che importa è la magnificenza della prosa e la qualità della tecnica oratoria. Rinvio i politici contendenti in questa campagna elettorale ad una "full immersion" (così accontentiamo quelli che hanno viaggiato) nella perorazione di Marcantonio. Eh sì, perché i litigi parlamentari forniscono un campionario pittoresco di orribile maltrattamento dell´Italiano. E poi ci si lamenta se in ambito diplomatico europeo lo cancellano dalle procedure. Ho sentito praticare con disprezzo la locuzione "il teatrino della politica".

Il tentativo è di screditare la politica comparandola al teatro. Ora va ricordato a quei tangheri che il teatro, anche quello piccolo delle marionette o dei burattini, è una cosa bella e serissima e che, se mai, si potrebbe tra noi, gente orgogliosissima di teatro, offenderci a vicenda dandoci del politicante. Il caso somiglia all´uso del termine buffone per insultare. I buffoni sono gente buona e generosa, lavoratori benemeriti che si prodigano per ingentilire il corruccio degli adulti e far sorridere i bambini, non sono imbroglioni in mala fede e, se vestono la giubba, lo fanno per tirare a campare onestamente non per ingannare alcuno tra l´onorevole pubblico.

Ricordo che un tale, durante la trasmissione, utile e interessante, "Mi manda Rai Tre", stretto nell´angolo di sue responsabilità truffaldine in ordine a soperchierie di pittoresca varietà a danno d´ingenui cittadini, accusò il bravo collega Marrazzo di "fare un circo equestre" volendo intendere che Piero aveva messo su un grande imbroglio mediatico ai suoi danni. I circensi dovrebbero aggiungere la loro alle denuncie che già pendono sulla testa di quel tale. Per di più, mi parve di udire in uno delle sue reiterate accuse, "ciclo equestre". E qui il litigio con le parole divenne esilarante per il pasticcio che convocava innocenti fatiche femminili, cavallerizzi e ciclisti. Io arrivo a diffidare, addirittura, di che osteggia i congiuntivi e litiga con la sintassi. Temo l´azione di colui che si fa vanto di "essere di poche parole" e dimentica di aggiungere che molte non ne conosce. Dubito della condotta di chi parla a vanvera o di chi incatena parole a casaccio al ceppo della propria opinione. "Chi non perdona al linguaggio non perdona alla cosa" La sentenza è di Karl Kraus, corrosivo scrittore austriaco che lamentò in un memorabile dramma (Gli ultimi giorni dell´umanità", 1919) la decadenza del mondo austroungarico. Osservatore caustico e appassionato del suo tempo insieme sfavillante e corrucciato, Kraus individuò nella lingua l´evidenza del mutare dei caratteri, dei costumi e del faticoso convivere degli uomini, il complesso eloquente ed espressivo d´informazioni che segnalano benefici e contraddizioni del racconto che chiamiamo Storia sin dai primi, esitanti passi della civiltà. E alla lingua e alle parole dedicò un saggio (Die Sprache, 1937) ancora interessante. Fate caso alle date, prima di far caso alle parole: 1919 e 1937. Subito dopo e subito prima di due incendi che avrebbero cambiato per sempre l´occidente e il mondo. E, quindi, facciamo caso alle parole che possono fiammeggiare ed esplodere come bombe. Qualche volta si arrangiano a scoppiettare come allarmanti petardi. Si dice, con stanco luogo comune, di preferire i fatti alle parole credendo, così, di dimostrare concretezza (è sempre una virtù? Ne siamo sicuri?) e operosa volontà. Sin dal 1578 un filologo fiammingo, Meurier, scrisse una castroneria conviviale che denunciava un assortimento di pregiudizi epocale: "I fatti sono maschi, femmine sono le parole". A me piace molto che siano femmine. Seneca sosteneva che i fatti devono provare la bontà delle parole (Verba rebus proba). Perché, e i Latini si sono affannati, spesso inutilmente, a trasmettercelo, le parole sono importanti. Ce n´accorgiamo quando vengono malintese e maltrattate. Ecco perché Kraus era intransigente con i persecutori della lingua. Disse: "Una città dove gli uomini, parlando di una vergine che non lo è più, usano l´espressione "averla data via", merita di essere rasa al suolo."

Michele Mirabella

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 dal Corsera    - 15-03-2005
Le critiche alla riforma costituzionale

LA DITTATURA DEL PREMIER


Finora Prodi si è dovuto preoccupare, più che di altro, delle beghe interne della sua Unione. L’altro giorno ha fatto il suo primo affondo da leader dell’opposizione su un problema di sostanza, e anche di grande importanza, attaccando frontalmente il progetto di «nuovo Stato». Ha detto che quel progetto «sta creando le premesse per una moderna e pericolosissima dittatura di maggioranza, e anzi del primo ministro stesso», e quindi che prefigura una «dittatura del premier». Si può controbattere che non è così, o comunque che Prodi esagera. Ma non è decoroso controbattere che si tratta di una «freddura» (Berlusconi), o che Prodi «non ha il senso del ridicolo» (Fini). E nemmeno ha molto senso, ritengo, agitare in ogni occasione, inclusa questa, la oramai ultralogora bandiera dello «spirito bipartisan» che viene violato e del terribile conseguente pericolo che il Paese si spacchi.

Ogni tanto le democrazie si dividono profondamente. Non ne consegue che siano a rischio di guerra civile. Ogni tanto succede, ma poi non succede niente di terribile. Anzi.

Al qual proposito devo ricordare che le oscillazioni del «bipartisanismo» sono davvero curiose. Oggi viene largamente esaltato e invocato. Ma ai tempi della Bicamerale, quando D’Alema cercò un consenso di riforma costituzionale trasversale tra maggioranza e opposizione, quel suo tentativo fu largamente bollato di «inciucio». Invece ora l’incontro a mezza strada tra contendenti, e quindi anche il «compromesso istituzionale», sono sempre cose belle e doverose. Il che mi sembra un passaggio da stupidata a stupidata.

In certi casi la sintesi, la composizione tra due tesi diverse e financo opposte, è possibile. Quando una cavalla si accoppia con un asino, ne esce un mulo. Ma in altri casi non ha senso, non è possibile. Se cerchiamo di accoppiare un cane con un gatto, è impossibile che ne esca un «can-gatto». Sul premierato è la stessa cosa: o il premier è insediato da una elezione popolare diretta, oppure no. Non può essere eletto direttamente a metà, oppure una volta sì e una volta no. Un premierato «can-gatto» non esiste.

Torniamo alla domanda: Prodi ha esagerato? Se lo ha fatto si deve tener presente che la partita dovrà essere decisa da un referendum, e che nei referendum, non si può sottilizzare più di tanto. D’altra parte la dizione di «tirannide della maggioranza» è una dizione acquisita nella teoria della politica.
È vero che Tocqueville e John Stuart Mill l’hanno usata in un significato che non è quello inteso da Prodi, e cioè nel significato di una tirannide della maggioranza che soffoca il pensiero (e dunque in un senso che si applica a pennello alla scandalosa legge Gasparri sulla berlusconizzazione dell’etere: una legge che davvero merita un ulteriore siluro). Ma i costituenti americani di Filadelfia già parlavano di «dispotismo elettivo», e quindi di una tirannide della maggioranza in un significato costituzionale affine a quello di Prodi.

Resta da stabilire se la diagnosi di Prodi sia vera o sbagliata. E qui il punto è che le spalle di Prodi sono largamente coperte da una larghissima maggioranza «critica» di una sessantina dei nostri maggiori costituzionalisti (vedi il volume curato da Franco Bassanini: Costituzione, Una riforma sbagliata» ) mentre alle spalle della Berlusconi-Bossi c’è soltanto il vuoto, soltanto l’applauso di pochi costituzionalisti finti o di seconda fila. Berlusconi è capace di assemblare una sessantina di esperti di prestigio che lo applaudono? Se no, allora deve essere vero che il suo nuovo Stato è il frutto di un «dispotismo elettivo» pilotato da una dittatura del premier.

Attenzione: del premier. Il che è diverso dal dire: dittatura di un dittatore.

GIOVANNI SARTORI