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Caccia alla Sgrena
l'Unità - 09-03-2005
di Lidia Ravera

Nel nostro paese, dove il sentimentalismo copre sempre più spesso una preoccupante assenza di sentimento, gli unici a essere rispettati sono i morti. Se Simona Pari e Simona Torretta fossero state stuprate e fatte a pezzi, se Giuliana Sgrena fosse stata decapitata, se fosse caduta, anche lei, sotto «il fuoco amico» nonostante il generoso sacrificio di Nicola Calipari avrebbero goduto, certamente, tutte e tre, d’una migliore stampa. Il fatto che siano ritornate, che abbiano parlato e scritto.
Il fatto che non abbiano cambiato opinione su fatti fondamentali come il ritenere quella degli americani in Iraq un’invasione, che non abbiano rinunciato a capire le ragioni degli iracheni soltanto perché sono state toccate personalmente dalla loro rabbia, che non si siano rimangiate il pacifismo come una signora cambia abito secondo le occasioni, le ha sistemate, immediatamente, fra gli indegni. Ma come, è stato sussurrato gridato scritto o sottinteso, abbiamo cacciato tutti 'sti soldi e nemmeno avete abiurato? Ma non lo sapete che le opinioni si comprano come tutto il resto? Avete beneficiato di tot milioni di euro, che cosa aspettate a unirvi al coro filogovernativo, non li ha mica tirati fuori il Manifesto, che è una cooperativa di giornalisti mal retribuiti, tutti quei denari, non ha certo messo mano al portafoglio qualche Ong, non l'ha mica pagato «Un ponte per» il riscatto delle sue Simone! Le due Simone, dopo aver dichiarato quello che ritenevano giusto e onesto dichiarare, hanno taciuto, forse profondamente ferite per il trattamento subìto, ma - com'è ovvio - dei loro sentimenti non frega niente a nessuno.
Giuliana Sgrena, che è scrittrice e giornalista, al contrario, ha subito scritto, nonostante l'angoscia e la debilitazione fisica, e ancora scriverà. È donna forte e competente, ha molta esperienza di quella guerra e di altre guerre e di questo terribile dopo-guerra e io, insieme a molti cittadini non avvelenati dai pregiudizi, spero che presto possa ancora scrivere e raccontare, aiutando tutti noi a capire meglio la barbarie di questi anni difficili. Spero anche che nessuno osi più accusarla, come fa Renato Farina su Libero, di aver sofferto della sindrome di Stoccolma, di aver preso in giro gli italiani, di essersi impossessata «della memoria e degli ideali» dell'uomo che l'ha salvata, unitamente ad altri furbi e biechi pacifisti, per continuare a criticare gli americani invece di portar rispetto al «fuoco amico» che sarà pure fuoco, però è anche amico… Spero che l'asse Libero/il Riformista (compagni diessini, vi prego, non fate finta di non vederla!) non sforni altre velenose trovate, come la classifica della vittima più antipatica. Cito dalla notarella intitolata «Chiedo scusa alle due Simone»: «Senza arrivare alla tesi del complotto, risibile se non nascesse dalle viscere del pregiudizio antiamericano, tutte le parole sull'agguato premeditato dei soldati Usa e sull'animo nobile dei sequestratori ci inducono a fare autocritica per aver avuto da ridire, in passato, sulle parole e i gesti di Simona Pari e Simona Torretta appena liberate, delle quali solo ora cogliamo l'intelligente senso della misura e il severo contegno. Vogliano accettare le nostre più sentite scuse».
Mi chiedo chi sarà la prossima donna di sinistra a cadere prima nelle mani dei rapitori e poi sotto il fuoco incrociato degli editorialisti filogovernativi (si nascondano o no sotto parole nobili come “riformista”), togliendo a Giuliana Sgrena lo scettro della più odiata. È un Paese davvero strano, il nostro. Da un lato, secondo me giustamente, è disposto a spendersi e a spendere per salvare una vita umana, anche se si incarna in una persona di idee diverse da quelle di chi tiene i cordoni della borsa, dall'altro non riconosce alcun valore a detta persona, quando, dopo aver ringraziato, commette il crimine di restare sé stessa.
Anche in questo, Nicola Calipari, era davvero un uomo eccezionale.
Mi scuso con chi detiene il copyright sulle sue spoglie e mi permetto di dire il mio dolore e la mia ammirazione. Anche se sono pacifista e di sinistra, come Giuliana Sgrena, come Simona e Simona, come tante altre donne e uomini che lunedì mattina hanno sostato in silenzio accanto a me, fuori della chiesa di Santa Maria degli Angeli dove si svolgevano i funerali di stato.
Io non voglio, con il mio dolore e con la mia ammirazione, «saltare sulla sua bara» e impadronirmi della sua anima o delle sue idee, voglio soltanto onorare la sua vita di uomo schivo in questo pollaio di esibizionisti (e quelli da funerale non sono meglio degli altri), di uomo capace di parlare con tutti (senza l'ossessione di mettere i buoni di qua e i cattivi di là, e parlare con questi e sputare sugli altri), di uomo dedito a salvare il salvabile dalla follia della guerra, ci credesse o no, la ritenesse o meno giusta e lecita, era questo quello che lui faceva, spendersi per riportare a casa una persona, senza chiedersi se si sarebbe rivelata utile o dannosa, poi, qualora fosse sopravvissuta. Mi rendo conto che gli estimatori dell'odio, ben arroccati nella loro rozzezza, sono sconcertati dal fatto che, come nota Peppino Caldarola, «una parte significativa della sinistra radicale» abbia ritenuto giusto «rivedere alcuni pregiudizi attorno alla figura del cosiddetto servitore dello stato», ma dovranno farsene una ragione. Tra l'altro, gli stessi «sinistri radicali», sono più volte scesi in piazza in difesa della Costituzione di questa Repubblica, hanno manifestato sotto slogan quali «la legge è uguale per tutti» e hanno improvvisato presidi per montare la guardia alla democrazia. Un impegno che un servitore dello Stato, certamente, approverebbe. Dov'è lo scandalo se, questi stessi cittadini, riconoscono in Nicola Calipari un esempio da ammirare? La pace fra le parti, nel nostro Paese, ha davvero la vita breve. Dura lo spazio di un brindisi, ma quando una «tragica fatalità» (Gianfranco Fini) viene a scompigliare le carte, subito si riproducono gli schieramenti. E allora è difficile dire chi ha cominciato. Chi ha paura di chi e di che cosa, chi odia di più, chi non sa separarsi dal disprezzo neppure per un momento, nemmeno di fronte all'esempio bipartisan di un uomo buono.
Io sono andata, lunedì mattina, al funerale di Nicola Calipari, non per lavoro (non ne avrei neanche scritto se Renato Farina non mi avesse tirata per i capelli) né per mettermi in mostra (sono rimasta dietro le transenne con migliaia di altri cittadini), ci sono andata come sarei andata al funerale di una persona cara, con lo stesso spirito con cui, per esempio, ho seguito, mesi fa, le esequie di Tom Benettollo, presidente dell'Arci, morto a 52 anni d'un aneurisma, mentre parlava in una assemblea del Manifesto. Ci sono andata seguendo quell'impulso che ci porta a prolungare nella cerimonia dell'addio almeno di qualche ora la vita di chi è morto, quasi illudendosi che possa sentire la nostra vicinanza (chi lo sa, in fondo, che cosa succede dopo il trapasso?). Me ne stavo lì, in silenzio, alle undici del mattino. Vicino a me c'era un signore con il Manifesto in tasca che aveva accompagnato la figlia diciottenne, poco più in là c'era un ragazzo con la bandiera della pace annodata allo zaino. Davanti, un uomo di una certa età, ex guardia privata, reduce da una stagione nel Kossovo, purtroppo parlava. Con foga, ad alta voce. Si rammaricava che un uomo della statura di Calipari fosse morto «per salvare la pelle a un mignottone». Richiesto di spiegazioni così chiariva il concetto, con l'espressione di uno che la sa lunga: «Son ben contente di essere rapite… quelli lì… le trattano da femmine non so se mi spiego… finalmente si divertono». In preda a un leggero attacco di disgusto ho provato a spostarmi. In un altro segmento di piazza, una signora si diceva indignata perché «in Chiesa hanno lasciato entrare quelli del Manifesto che sono degli atei praticanti». Mi sono mossa ancora e ho sentito dire che «vanno in Iraq perché diventano famose, poi tornano e vanno a guadagnare un sacco di soldi al parlamento europeo come la Gruber». Nauseata, sono tornata vicino al silenzio del signore con il Manifesto in tasca.
Ho cercato di concentrarmi ancora sulla mia tristezza, sulla malinconia, sul lutto. Ho cercato di pensare a Nicola Calipari, che è morto perché non morisse un'altra persona. Ho cercato di immaginarlo mentre toglieva il cotone dagli occhi di Giuliana Sgrena, e le parlava allegramente, perché potesse rilassarsi.
Sensibile, capace di intervenire anche contro quel male invisibile che è la paura, capace di dolcezza e di umanità. Due qualità poco diffuse. Forse anche a sinistra. Ma a destra sicuramente.

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 da carta.org    - 14-03-2005
Il check point dei media e della politica italiani ha regole d'ingaggio se possibile più drastiche di quelle dei militari nordamericani a Baghdad. Il paragone è certamente eccessivo, se si pensa alla pallottola che ha ucciso Nicola Calipari. Ma provate voi a mettervi nei panni di persone come Giuliana Sgrena e il suo compagno Pier Scolari, o l'intera redazione del Manifesto, che hanno vissuto - in modi diversi, certo - un mese di tensione e paura, di fatica e di speranza.
Uno di quei momenti della vita che sì, ti cambiano per sempre, come dice Gabriele Polo, ma allo stesso tempo lasciano cicatrici nell'anima e, nel caso di Giuliana, nel corpo, visto che dovrà essere ri-operata per riparare i danni di quelle pallottole. Ecco, mettetevi nei loro panni e immaginate che, subito dopo l'enorme gioia per la salvezza della nostra compagna, e subito dopo il grande trauma della morte di un agente dei servizi che si era conosciuto come una persona seria, competente ed umana, subito dopo questa tempesta di emozioni, vi capiti di essere diffamati, derisi, volutamente malintesi dalla generalità dei grandi giornali e dei grandi telegiornali, e da molta parte della politica.
Ci vogliono nervi molto saldi, e una enorme serenità, per resistere. I nervi e la serenità che aveva Gabriele, martedì sera, nella trasmissione chiamata "Ballarò", quando invece di balzare alla gola di un idiota [sì, ho scritto idiota] come il ministro leghista della giustizia [ossimoro], si limitava a guardarlo, mentre quello diceva che Napoli è molto più pericolosa di Nassiriya, che in Iraq non c'è la guerra e che Giuliana è più amica dei suoi sequestratori che dei suoi liberatori.
Perfino il Comitato di redazione del Tg4 ha protestato contro il direttore, Emilio Fede, per gli insulti che andava scagliando su Giuliana. Anche il Cdr del Tg1 si è ribellato, dopo i trucchi per rinviare la notizia sulla morte di Calipari [e il direttore, Mimun, ha fatto martedì sera leggere un proclama come fosse una notizia, su quanto il direttore del Tg1 è inappuntabile]. Perfino il Wall Street Journal, invece che occuparsi delle azioni delle industrie militari, o forse proprio per questo, ha abbandonato il suo stile "britannico" [che non è mai esistito], per insultare la giornalista del manifesto. Ed Eugenio Scalfari, con il suo tono alla Camillo Cavour, insiste nel mettere sullo stesso piano l'"errore" di Giuliana, l'essersi fermata troppo a lungo nella moschea, con quello di Calipari, il non aver preso le misure le sicurezza di cui, tutti lo sanno, il fondatore della Repubblica è un grande esperto, avendo frequentato i peggiori quartieri di Baghdad in tempo di guerra. Mentre l'ex umorista Michele Serra - sospinto dal guerrologo Adriano Sofri - fa della triste ironia sull'antiamericanismo e altre fesserie. Dobbiamo continuare? Feltri e il Giornale, il Corriere della Sera e il suo re-inviato Lorenzo Cremonesi, che sui servizi segreti nordamericani ne sa più di Negroponte, ministri assortiti in ogni radio e tv, Bruno Vespa e Lucia Annunziata…Eppure, due piccole verità restano lì. La prima è che un sondaggio di Ap-Biscom, non del centro sociale Leoncavallo, dice che il 70 per cento degli interpellati vuole il ritiro delle truppe, e pensa che gli Usa non ci faranno mai conoscere la verità, sulla morte di Calipari. La seconda è che Giuliana Sgrena si costituirà parte lesa nel processo, se mai si farà, ai colpevoli della sparatoria di cui è stata vittima insieme ai due agenti del Sismi.
In effetti, di cosa stiamo parlando? Di una donna sequestrata, delle mobilitazioni pubbliche e del lavoro riservato [di Callipari, non di quell'esibizionista di Scelli, che a Falluja ha visto solo bambini con la maglietta dell'Inter e del Milan, dato che c'è andato quando esistevano ancora bambini, nella città irachena] per salvarla. E del fatto che, quando l'ostaggio era ormai a qualche centinaio di metri dall'aereo che l'avrebbe riportata tra noi, raffiche di proiettili l'hanno ferita, mentre uccidevano il suo salvatore. E questi proiettili sono statunitensi.
Sarebbe semplice. E semplici sono le domande. Perché hanno sparato? Perché contro quella macchina? Dove si è inceppata la famosa "catena di comando"? E per quale ragione? Fino a che non si avranno risposte certe, tutte le ipotesi sono possibili. Tutte. E continuare a parlare di "incidente", come tutti fanno, compreso il buon vecchio centrosinistra [quasi al completo] è altrettanto fazioso, che se qualcuno parlasse di "omicidio premeditato" [cosa che nessuno fa].
La verità che è di quel che effettivamente è accaduto non frega niente, ai grandi [tele]giornali e a quel genere di politica, altrimenti salterebbero sulla sedia, dopo che il ministro degli esteri ha parlato in parlamento, non nel suo salotto, di un'auto che viaggiava a 40 all'ora, mentre le solite "fonti militari" dicono ad Abc News che l'auto procedeva a 160 [dev'essere la mania italiana per la Ferrari e la Formula Uno]. Quel che gli interessa è arginare il vulcano di indignazione, e di dolore, e di verità, che erutta nella società italiana, ossia riparare alla meglio lo strappo nel solo legame davvero indiscutibile della politica italiana, quello con gli Stati uniti d'America. Da quello strappo consegue il crollo di legittimità della guerra.
Una guerra finalmente svelata come tale, perché di colpo di vede che Baghdad o Falluja non assomigliano per niente a Scampia o a Secondigliano, e chi lo dice, come il ministro Castelli, appare per quel che è: un idiota [sì, l'ho scritto per la seconda volta]. E anzi sono un posto dopo chiunque può uccidere chiunque, dove ai posti di blocco i soldati statunitensi sparano a prescindere, nella migliore delle ipotesi sulla morte di Calipari e sul ferimentod i Giuliana.
Per ottenere questo scopo, la prima cosa da fare è screditare le voci contrarie, specialmente se sono molto popolari come Giuliana Sgrena. Che per colmo di sfortuna è anche testimone oculare, oltre che vittima e bersaglio delle stesse pallottole che hanno ucciso Nicola Calipari.
Quel che sta avvenendo è impressionante. Non si è mai visto un tale accanimento contro una persona inerme, come Giuliana, e contro un giornale piccolo, come il Manifesto. Qui abbiamo cinque milioni e mezzo di copie e quindici milioni di telespettatori contro qualche decina di migliaia di copie. A rigore, dovrebbero aver già vinto. Ma c'è quel 70 per cento che vuole il ritiro delle truppe: Anche questo è impressionante: quanto l'Italia ufficiale sia lontana e diversa da quella reale. Mentre la società dice "la guerra è finita" i media e la politica dicono "la guerra continua".
E' una situazione che si è data più volte, nella storia italiana. Per esempio l'8 settembre del 1943. Non si deve mai esagerare, ma una tale frattura, tra rappresentanti e rappresentati non è tranquillizzante. Ma, intanto, un gesto ciascuno può facilmente farlo: scrivere un messaggio al manifesto [lettere@ilmanifesto.it ] per dire, semplicemente, coraggio, vi vogliamo bene, non vi abbattete, siamo con voi.

Pierluigi Sullo