Socialmente invisibili
Vincenzo Andraous - 21-03-2002
Tra un art.18 a perdere e un girotondo intorno al mondo, ecco che esplode un nuovo scandalo nazionale: quello sui pentiti, o meglio, sui collaboratori di giustizia, che non hanno scontato un solo giorno di galera per i delitti commessi.
Ma nel bailamme comunicazionale, nelle furbizie politiche e nelle disinformazioni di comodo, viene sottaciuto, che non si tratta di esplosione, bensì di implosione, che non ha nulla a che vedere con uno scoop né con una legge fallimentare da archiviare.
Da anni è risaputo che chi si pente o collabora, non tocca branda cementata a terra, né scarponi chiodati sulla nuca.
Questa legge premiale per chi collabora fu vergata in embrione da Uomini retti, ora divenuti assenze eterne, che ancora sanno guidare alle conquiste di coscienza.
Allora perché scandalizzarsi? Perché proprio adesso, e perché con questa enfasi?
Su questo versante delicato e controverso, poco conta essere contrari o favorevoli, se non per quantificare il prezzo da pagare per vincere una guerra, e alimentare la tutela delle funzioni da parte di chi è preposto a combattere quel conflitto.
Ma non è solo questa fetta di giustizia a rimarcare la differenza tra il sistema giuridico e quello del pensiero sociale.
Da tempo il carcere italiano non produce più cadaveri e violenze scomposte, al suo interno è cresciuta la maturità della stragrande maggioranza dei detenuti, nonostante i problemi endemici dell’organizzazione penitenziaria (sovraffollamento, carenza di personale e di fondi ), nonostante la violenza insita nel sistema, quella violenza incontrollata di un tempo non troppo remoto, che ora è diventata composta, silenziosa, riservata, nei tanti suicidi che si verificano nell’indifferenza generale.
La legge Gozzini, o meglio quel che ne è rimasto, alla luce delle tante decapitazioni, incredibilmente ancora crea un nuovo orientamento esistenziale, e uomini nuovi nel vivere civile, non più carnefici di se stessi né degli altri.
Ebbene, nonostante le statistiche e le percentuali indichino che i fallimenti non superano la soglia di attenzione, è di questi giorni l’affermazione di rivedere in senso restrittivo la premialità per i collaboratori di giustizia e per tutti i detenuti.
Mi chiedo ancora: perché restringere premialità e benefici per chi ha i requisiti necessari per accedervi? Perché azzerare i passi fatti in avanti in positivo, e non discutere invece della complessità e negatività di un istituto, quello carcerario che, non potendo essere cancellato, neppure ci si attiva con forza e strumenti idonei per migliorarlo, al fine di aumentare il recupero umano e sociale, e quindi non solo disponendosi alla sola risposta penale, per ogni inciampo all’intorno.
Con questa affermazione si intende inasprire un regime penitenziario quasi al collasso, una riforma penitenziaria di per sè già ridotta all’osso, invece di incrementare una speranza attiva-costruttiva che nulla ha da spartire con il buonismo che fa male, bensì con un preciso interesse collettivo.
E’ un messaggio, questo, che non incoraggia gli operatori penitenziari né i detenuti, ma incancrenisce a dismisura la preoccupazione dell’opinione pubblica, fin troppo spintonata dal succedersi di accadimenti tragici, irrobustiti da imboccamenti non sempre corrispondenti alla realtà, quella che sovente non deve essere compresa nè vista.
L’allarme sociale, quando c’è, ha sempre una causa-effetto e possiede nel suo Dna paura e rabbia, ma quasi mai l’equilibrio che porta a conoscere la differenza che esiste tra una situazione complessa e un’altra complicata.
Ciò che riguarda l’essere umano, non è mai argomento complicato, che può essere affrontato ( in questo caso all’interno di una galera ) con una operazione semplicistica e fin troppo ovvia: il detenuto, l’uomo, la persona, è qualcosa di veramente complesso che risponde a leggi non meccaniche, e non sempre prevedibili, come invece accade alle cose complicate.
Per questi motivi occorre pensare all’ambiguità del fraintendimento per cui si reagisce con sdegno a un detenuto che, usufruendo di un beneficio o di una misura alternativa, torna a delinquere. Mentre quando in percentuale assai più significativa, ex detenuti che hanno già scontato la loro pena, ricadono nella delinquenza, si prova tutt’al più un’accettazione passiva.
Ma quella recidiva così alta è assai più pericolosa di quel meno di uno per cento che decide irresponsabilmente di rompere il patto di lealtà stipulato con la società tutta.
Forse non c’è urlo né scandalo per questa ipocrisia, perché davvero il carcere deve rimanere un lazzaretto disidratato senza alcuna possibilità di essere migliorato né di produrre cambiamento, perché se così non fosse, qualcuno dovrebbe spiegare perché non ci si è adoperati prima in tal senso, magari e solamente per consentire alle leggi di essere applicate, con maggiori e più appropriati mezzi e strumenti.
Infine c’è da chiedersi, se certezza della pena e restrizione dei benefici (che tanti benefici hanno comportato a uomini detenuti e non) significhi rispedire nell’oblio tante persone che hanno ritrovato un senso, la propria dignità, la propria famiglia, un lavoro e un pezzo di futuro, all’insegna di una riparazione verso se stessi e verso gli altri.

Vincenzo Andraous
Carcere di Pavia e
tutor Comunità Casa del Giovane di Pavia
Marzo 2002





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