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Io, un marine killer di civili
Redazione - 07-03-2005
«Anch'io ho ucciso civili innocenti, anch'io sono diventato un killer». Parla Jimmy Massey, rientrato negli Usa dal «fronte» iracheno dopo che i primi quattro mesi di guerra lo avevano reso inabile e portato alle soglie della follia. Ora racconta (in un diario che uscirà quest'estate) gli orrori di cui è stato testimone e protagonista in prima persona. «La nostra missione in Iraq non era di uccidere dei terroristi, ma di massacrare civili innocenti».


«Ho visto l'orrore di quanto stiamo facendo ogni giorno in Iraq, vi ho preso parte. Siamo solo killer. Uccidiamo, continuamente, innocenti civili iracheni: niente di più. Penso che tutti i contingenti militari stranieri in Iraq debbano essere immediatamente ritirati. E lo dico agli altri soldati, che per evitare punizioni e rappresaglie dell'esercito non vogliono parlare e ammettere che la nostra missione non è di uccidere terroristi ma civili innocenti». E' così, nell'intervista a il manifesto, che Jimmy Massey di Waynesville, piccola comunità del North Carolina, ha deciso di strappare il velo di silenzio che avvolge la «nobile missione» in Iraq. Dimesso dal corpo dei marines per ragioni mediche, ha scritto un diario, «Cowboys from Hell», che verrà pubblicato a fine estate.

Qual era la sua posizione in Iraq?

Ero sergente nel 3° battaglione dei marines durante l'invasione, nella primavera 2003.

Quanto tempo ci è rimasto?

Dal 22 marzo al 15 maggio. Quattro mesi d'inferno. Mi hanno dovuto rispedire negli Usa per stressed disorder. E' il termine usato nel gergo militare per dire che a causa dell'orrore vissuto in guerra sono uscito di senno.

E' stato nei marines per molti anni?

Per dodici anni.

Era mai stato in guerra, prima?

Mai.

Lei ora è membro del gruppo «Veterani dell'Iraq contro la guerra».

Sì. Mi sono recato in Iraq, inizialmente, con la convinzione di dover eliminare le armi di sterminio di massa. Presto però la mia esperienza di marine mi ha fatto capire che la realtà era tutt'altra. Eravamo dei «killer cowboy». Uccidevamo civili innocenti.

Lei ammette di aver ucciso civili innocenti?

Sì. E parecchi.

Come è avvenuto?

Vicino alla nostra base a sud di Baghdad abbiamo dato l'assalto, con tutto il mio plotone, a un gruppo di civili che stava svolgendo una manifestazione pacifica. Perché? Perché avevamo udito dei colpi d'arma da fuoco. E' stato un bagno di sangue. Non c'era neppure l'alibi che quei civili potessero essere ingaggiati in «attività terroristiche», come la nostra intelligence voleva farci credere. Abbiamo ucciso più di trenta persone. Quella è stata la prima volta che ho dovuto affrontare l'orrore di avere le mani sporche del sangue di civili. Bombardata anche con cluster bombs, la gente fuggiva e quando arrivava ai posti di blocco dove stavamo con i convogli armati, le indicazioni che ci dava l'intelligence era di colpire quelli che potevano presumibilmente appartenere a «gruppi terroristici».

E voi cosa facevate?

Finivamo per massacrare civili innocenti - uomini, donne e bambini. Quando col nostro plotone abbiamo preso il controllo di una stazione radio non facevamo che inviare messaggi propagandistici diretti alla popolazione, invitandola a continuare la sua routine quotidiana, a tenere aperte le scuole. Noi sapevamo invece che gli ordini da eseguire erano di search and destroy, irruzioni armate nelle scuole, negli ospedali, dove potevano nascondersi i «terroristi». Erano in realtà trappole tese dalla nostra intelligence, ma noi non dovevamo tener conto delle vite dei civili che avremmo ucciso durante queste missioni.

Lei ammette che durante la sua missione ha compiuto esecuzioni di civili innocenti?

Sì. Anche il mio plotone ha aperto il fuoco contro civili, anch'io ho ucciso innocenti. Sono anch'io un killer.

Come ha reagito, dopo queste operazioni, pensando agli innocenti che aveva ucciso?

Per un po' sono andato avanti negando a me stesso la realtà - cioè che ero un killer e non un soldato che sa distinguere il giusto dallo sbagliato - poi un giorno, svegliandomi al mattino mi è venuto in mente un giovane, miracolosamente scampato al massacro dei passeggeri della sua auto, che urlando mi chiedeva: «Ma perché hai ucciso mio fratello?». Divenne un'ossessione. Persi il controllo del mio equilibrio psichico. Ero incapace di muovermi e parlare, restavo con lo sguardo atterrito, fisso al muro.

Che provvedimenti hanno preso i suoi superiori?

Per tre settimane, in Iraq, sono stato imbottito di antidepressivi, farmaci psicotropi. E' il loro pronto intervento per questi casi di «stress traumatico», quando i soldati cadono in preda a questo rifiuto di uccidere.

Il vostro addestramento, negli Usa, non vi rende l'unità più violenta ed aggressiva utilizzata dal Pentagono?

Sì. Nel programma denominato boot camp ognuno di noi viene sottoposto a tecniche di «disumanizzazione» e di «desensibilizzazione alla violenza». Ma a me non hanno mai detto che questo voleva dire uccidere civili innocenti.

Tre settimane immobilizzato da antidepressivi in Iraq. E poi?

Non sapendo più cosa fare mi hanno fatto rientrare. Ora sono disabile, dimesso dall'esercito con honorable discharge.

Altri sono nelle sue condizioni?

Molti. E sono ancora al fronte. Li imbottiscono di antidepressivi e poi li rispediscono a combattere. E' un problema che ha assunto dimensioni preoccupanti, ma non se ne deve parlare negli ambienti militari. Nel 2004, 31 marines si sono tolti la vita, 85 hanno tentato il suicidio. La maggioranza di coloro che hanno preferito togliersi la vita piuttosto che continuare ad uccidere è sotto i 25 anni, il 16 per cento non ha più di 20 anni.

il Manifesto

Consulta l'archivio di Fuoriregistro, PeaceReporter e quello del Corriere canadese digitando la voce Jeremy Hinzman.






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