Intervista sulla riforma del secondo ciclo
Mario Ambel - 18-02-2005
Caro Ambel*, prima di tutto una curiosità: sul suo sito memorbalia.it , a diverse settimane dall'uscita della bozza di decreto sul II ciclo, l'unico commento che compare è questa osservazione: "Lo schema di decreto applicativo della legge 53 per le superiori pone un serio problema di "genere": è comico o horror? " Con essa forse vuole dire che non vale nemmeno la pena di commentarlo, il decreto?

La battuta, in attesa di approfondimenti, intendeva segnalare in effetti un duplice fastidio.
Anzitutto la consapevolezza che, in questi anni, si sono accumulati invano documenti, riflessioni, analisi, commenti, approfondimenti, proposte sui provvedimenti del governo e che, dopo un po’, parlare col muro non è divertente. Il secondo fastidio è dovuto al mio scarsissimo entusiasmo per quella che la news di Tuttoscuola chiama la “danza delle ore”, ovvero il dibattito sulle tabelline orarie che discendono dalle quote curricolari, dall’”opzionale obbligatorio”, dall’”opzionale facoltativo”, ecc.. Non perché non siano cose serie, ma perché lo sono infinitamente di meno della complessiva riduzione del tempo scuola per l’intero arco formativo e del vero problema di fondo: la divaricazione fra i due sistemi, quello dei licei e quello dell’istruzione e formazione professionale. Ma parliamone pure
.

E allora, entrando nel merito specifico della bozza di decreto, può dirci, in particolare, quali parti appartengono al genere horror e quali a quello comico?

Continuando il gioco, dal mio punto di vista, appartiene sicuramente al genere horror il fatto che si tratta di un provvedimento legislativo in materia educativa a cittadinanza variabile: per alcuni cittadini quattordicenni (quanti non è ancora dato sapere: metà? due terzi? un quinto?) vige il capo II, articoli 1-14, che tratteggiano orizzonte culturale, finalità, orari (e ora sono arrivate discipline, tabelline orarie, OSA, profilo, ecc.) degli otto licei; per gli altri, vige il capo III, articoli 15-24, che, nel demandare alle Regioni la competenza legislativa in materia di istruzione e formazione professionale, ne definiscono i livelli essenziali di prestazione e di esercizio. Intendiamoci, nulla di diverso da ciò che era previsto dalla legge 53, ma sancito, codificato da un dispositivo normativo che traccia un solco tra cittadini dello Stato e cittadini delle Regioni. Certe cose fa sempre impressione vederle sancite per legge: un vulnus, a meno che non si tratti, appunto, di un incubo. E non perché non si abbia fiducia delle Regioni: non è questo il punto. E fin qui c’è poco da ridere. Comico è invece l’effetto dell’uso intensivo della scrittura a taglia-incolla, per cui gli articoli che delineano l’impianto dei licei da un lato e quelli delle deleghe alle Regioni dall’altro hanno rispettivamente lo stesso ossessivo impianto logico-sintattico, con qualche variazione qui e là. Inevitabile, forse, ma un po’ ridicolo.

Presentando la bozza di decreto, sia l'on. Aprea che il ministro, ne hanno illustrato la filosofia: "consolidare ed innalzare i livelli culturali sia nei licei sia nell'istruzione e formazione professionale; superare le disuguaglianze sociali perpetuate dall'attuale sistema educativo, garantendo pari opportunità di scelta a tutti gli studenti, anche a coloro che provengono da famiglie economicamente e socialmente più deboli; garantire, grazie a una maggiore libertà di scelta, un maggiore successo formativo per tutti; contrastare il fenomeno della dispersione scolastica elevando l'obbligo scolastico fino al 18° anno di età" Può aiutarci a confrontare queste condivisibili intenzioni, con la scuola secondaria disegnata dalla bozza di decreto?

L’idea che sia compito della scuola contribuire a superare le disuguaglianze sociali è senz’altro condivisibile, soprattutto, da chi (e siamo molti) ritiene di essere insegnante della scuola pubblica, proprio in nome e per mandato dell’art. 3 della Costituzione. Resto però convinto che il modo migliore per perseguire quell’idea non sia quello che la stessa sottosegretaria descrive così lucidamente in un’ intervista a Gilda:

”L’elemento di maggior distinzione tra i due sistemi consiste nelle caratteristiche del titolo di studio che si consegue: il diploma di maturità liceale, infatti, non ha alcun valore professionalizzante, nel senso che non consente l’accesso diretto al mondo del lavoro, bensì richiede di proseguire gli studi, nell’università o nell’istruzione e formazione superiore. Le qualifiche ed i titoli dei percorsi dell’istruzione e formazione professionale, invece, sono direttamente spendibili per l’accesso nel mercato del lavoro, oltre che compatibili con la prosecuzione degli studi. Proprio per questo motivo, la riforma prevede percorsi di diversa durata, per corrispondere anche alle esigenze del mondo del lavoro; si parte da un minimo di tre anni, che possono diventare 4, 5 ed anche 6, fino a integrarsi con l’istruzione e la formazione superiore, per profili lavorativi particolarmente elevati.”

Le si può chiamare come si vuole, attribuir loro tutta la pari dignità possibile, ma che si tratti di due scelte di vita divergenti compiute all’inizio del tredicesimo anno di età, quando a mala pena i ragazzi riescono scegliere quale libro prendere in prestito nella biblioteca di classe, mi sembra innegabile. Se questa è la “maggiore libertà di scelta” che abbatte le disuguaglianze, penso che se ne possa fare tranquillamente a meno. Dietro questa “filosofia”, purtroppo, c’è solo la semplificatoria idea che chi non ce la fa, e spesso proviene da condizioni socioeconomiche più deboli e fragili, ha bisogno di poter scegliere un sistema costruito a sua immagine e somiglianza, magari di pari dignità formale, ma strutturalmente diverso: più breve, più concreto, più pratico, più vicino al mondo del lavoro. Insomma, chi non ce la fa (a studiare) è giusto che sia avviato (prima) al lavoro (se ne trova uno). Se e perché effettivamente “non ce la fa” pare non interessi più a nessuno.
Ma dietro questa riforma c’è anche di più: c’è la convinzione, che da un po’ di tempo sta inquinando la politica italiana, che la scuola debba essere funzionale e finalizzata allo sviluppo economico, al mondo del lavoro, che addirittura debba saperne prevedere le esigenze e magari le contraddizioni, per porvi rimedio. Un’idea che solo dieci anni fa appariva eretica (o sciocca); e non solo per il liceo disinteressato e gentiliano, ma per tutto il sistema scolastico chiamato a formare donne, uomini e cittadini, prima che lavoratori: “la scuola, prima ancora che fattore decisivo di sviluppo economico, è il luogo di acquisizione sistematica e critica della cultura, luogo in cui si promuove lo sviluppo della persona umana. La scuola, insomma, prima che risorsa economica è una risorsa civile” (G. Lombardi, 1993), opportunamente ripreso dal documento del CIDI sui percorsi formativi nell’età dell’adolescenza.


Come sicuramente saprà, si sta dando il caso, unico, mi sembra, nelle vicende pur tormentate di questo governo, che il decreto non piaccia a nessuno, nemmeno agli stessi partiti della maggioranza. Come se non avessero nemmeno letto la legge 53, dalla quale il decreto direttamente discende. Che spiegazione si è dato lei, di questa inattesa levata di scudi?

Forse si comincia semplicemente a capire che quella legge è impraticabile, se non sacrificando e stravolgendo tutta la scuola superiore di questo paese; che quella polarizzazione non giova a nessuno: irrigidisce i licei in una forzatura anacronistica; cancella gli istituti tecnici (sia che li “salvi” o che li “sommerga”, a seconda dei punti di vista: mettendoli di qui o di là, li snatura comunque); fa ripiombare gli istituti professionali nella condizione in cui erano venti/trent’anni fa; non affronta in modo adeguato la realizzazione di un sistema di formazione professionale qualificato e serio, proprio in quanto non parallelo o alternativo, ma successivo, alla scuola. E molti saranno giustamente preoccupati anche dalle iscrizioni di questi anni: è in atto una fuga dagli istituti tecnici (che la politica scolastica di questa maggioranza ha fatto percepire come fragile, dal destino incerto) che potrebbe diventare difficile da recuperare.
Piuttosto, può sembrare strano che ci si stracci le vesti ora, mentre questo decreto non fa che dar corpo alla legge 53. In realtà una parte della maggioranza teme l’annacquamento della legge, che sarebbe rappresentato proprio dal mantenimento degli istituti tecnici nell’area “statale” dei “licei” e sembra voler recuperare l’interpretazione autentica della proposta: il secondo sistema sarebbe di pari dignità solo se includesse gli istituti tecnici. Ovvero: l’unico modo di applicare in modo coerente la legge sarebbe quello che spacca la mela in due parti più o meno eguali. A questo proposito è curioso che molti esponenti della maggioranza affermino che bisogna collocare gli istituti tecnici nel sistema regionale per venire incontro alle esigenze dei settori produttivi e del mondo del lavoro, proprio mentre Confindustria e Lega delle cooperative firmano insieme un documento in cui si chiede di lasciar perdere! [ne dà notizia Tuttoscuola, 185]
La realtà è che, ancora una volta, una ipotesi di riforma delle superiori è al palo: confusa, contrastata e pasticciata per via: nata male, proseguita peggio e infine impraticabile. Il buon senso consiglierebbe di lasciar perdere, ma abbiamo di fronte un anno di campagne elettorali roventi e temo che il buon senso non sarà spesso all’ordine del giorno. Va però detto fin da subito con chiarezza: se, com’è auspicabile, e come molti ormai chiedono, non si procede con la scuola superiore, vanno ritirati tutti i provvedimenti relativi alla scuola primaria e secondaria di primo grado: la legge è una sola e quelle “innovazioni” (il 2+1 nella media, il tutor, il portfolio, il 27 + opzionalità, i piani di studio personalizzati, ecc.) erano tutte funzionali al doppio canale; quindi…


Anche dall'interno della maggioranza, viene lamentata la disparità esistente tra la prima e la seconda "gamba" del sistema (per non parlare della terza, dell'apprendistato) così come il decreto - ma la stessa legge - le disegna, disparità accentuata - a mio avviso - non solo dalla " licealizzazione" in sè della prima, ma dalla particolare idea di licealizzazione che il decreto contiene. Il ministro, invece, insiste sulla "pari dignità". Secondo lei, Letizia Moratti pensa che noi insegnanti non sappiamo "leggere" la realtà? Che "basta la parola"?

Saper costruire e soprattutto praticare condizioni effettive di pari opportunità e pari diritti, in contesti non antagonisti, ma cooperativi e solidali, per persone che giustamente rivendicano le loro diversità e, purtroppo, vivono spesso in condizioni di oggettiva ed esecrabile disuguaglianza è la non facile impresa che il secolo che si è chiuso ha lasciato in eredità a quello appena iniziato. Non è certamente un compito agevole, e non basta certo a realizzarlo la “pari dignità” formale né, ovviamente, servono le semplificazioni manichee e un po’ demagogiche.
Qualcosa di concreto si potrebbe però fare: ad esempio smetterla di pensare che qualcosa o qualcuno si dovrebbe “licealizzare”, soprattutto se per liceo si intende un luogo dove prevale un’idea di cultura astratta, formalizzata, non esperienziale; o che i licei rischiano di perdere la loro dignità e di “banalizzarsi” se si ritrovano nella stessa categoria-sistema degli istituti tecnici; o che gli istituti professionali riescono a non emarginare e a non selezionare gli allievi se diventano regionali e accrescono la dimensione professionalizzate; o che il biennio diventa meno selettivo se include moduli gestiti dalla formazione professionale... Chi vive nella scuola sa quanto siano questioni totalmente fuorvianti e lontane dai problemi della scuola reale. Siamo di fronte a problemi più sottili e pervasivi, più trasversali, che, pur nelle loro inevitabili diversità, accomunano talvolta tipi di scuola e di allievi molto lontani fra loro… Certo le allieve e gli allievi che frequentano i licei sono (sempre più? sempre meno?) diversi dagli allievi che frequentano alcuni istituti tecnici o professionali, ma, come ben sappiamo, rivelano anche disagi e interessi, idiosincrasie e passioni, comuni. Una cosa sanno bene coloro che guardano (e vivono) con coraggio la realtà scolastica: che mettere tutti quelli (apparentemente) simili da una parte non talvolta non fa che peggiorare la situazione. Così come è oggi sempre più difficile far crescere insieme, già nella scuola media.
Forse abbiamo bisogno di cambiare radicalmente il paradigma di approccio alla scuola, per scoprirne i problemi veri e andare alla caccia di soluzioni più credibili e praticabili, emettendola di pensare che la soluzione stia nel “dove” vanno gli allievi e dove entrano ogni mattina, e non nel che cosa fanno (o non fanno) dopo che sono entrati.


Da esperto di educazione linguistica, che spiegazione si è dato dell'incertezza terminologica con la quale vengono indicati i destinatari (non gli attori) del secondo canale? Nella legge 53, all'art 2 si parlava di percorsi del sistema dell'istruzione e della formazione professionale, nella bozza apocrifa si diceva chiaramente che al secondo canale erano destinati gli istituti professionali, che poi, nel documento di lavoro, sono diventati: percorsi professionalizzanti statali e, successivamente, nella bozza autentica, istituzioni formative. Mentre nel profilo educativo, si inventa una nuova espressione: sistema degli Istituti dell'istruzione e della formazione professionale.

Questa è certamente la questione più grave e seria, anche perché coinvolge l’interpretazione e l’applicazione della legge di revisione costituzionale approvata a fine della scorsa legislatura. Dal punto di vista terminologico, la confusione è in effetti totale. Ovviamente si tratta di oscillazioni solo apparentemente casuali, che rivelano anziché nascondere le difficoltà e le contraddizioni: basta seguire la contraddittoria presenza della non innocua particella “di” in “di/della istruzione e [di/della] formazione professionale”…. Anche qui, però, l’ambiguità era già nella legge 53, dove il “sistema educativo di istruzione e di formazione” “si articola”, nel secondo ciclo, in “sistema dei licei” e “sistema della istruzione e della formazione professionale”. In termini logici e linguistici, è come se il sistema alimentare di frutta e di verdura fosse articolato nel sistema delle macedonie e nel sistema della frutta e della verdura cotta. E il sistema della frutta e della verdura cruda? Ovvero, perché il sistema dei licei non viene chiamato, più onestamente, sistema dell’istruzione e della formazione scolastica? Forse perché si capirebbe la verità: che uno vuole essere (solo/soprattutto) scuola e l’altro (solo/soprattutto) formazione professionale!
In termini propositivi, però, penso che non se ne esca se non accettando che la legge di revisione costituzionale delega alle Regioni, (ma non solo: alle Province, ai Comuni, ecc.) materie legislative e trasferisce compiti; non può istituire, con degli incisi, dei sistemi formativi o derubricare delle istituzioni scolastiche. Fino a quando continueremo a pensare che applicare la legge di revisione costituzionale significa trasferire gli istituti tecnici o quelli professionali alle Regioni, lasciando i licei allo Stato, continueremo a servire una logica dicotomica che ormai ci chiude in impasse sterili e discriminanti. Sarebbe più semplice (non tanto, ma si potrebbe) decidere su quali “materie” che riguardano le finalità e il funzionamento delle istituzioni scolastiche da un lato, delle agenzie di formazione professionale dall’altro e dei loro rapporti legiferano e dettano norme, ciascuno al proprio livello di competenza e di responsabilità, l’Unione Europea (che ad esempio definisce i livelli minimi per certi attuali “diplomi” superiori…), lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune, la Circoscrizione, ecc. Se invece preferiamo immaginare che i problemi siano risolti dalle belle targhe di ottone o di plexiglas, che apparentemente conciliano statalismo e federalismo, pubblico e privato, con su scritto liceo classico nazionale statale; istituto professionale alberghiero regionale o scuola materna comunale si proceda pure. Non si va da nessuna parte, ma si crede di mettere il cuore in pace a un sacco di gente
.

Il ruolo da lei svolto all'epoca della riforma Berlinguer mi spingerebbe a chiederle un confronto diretto tra quel disegno e questo, anche alla luce della constatazione che alcuni temi (licealità, professionalizzazione, rapporto con la formazione professionale, solo per citarne alcuni) trattati dalla commissione 7c, della quale lei era coordinatore, sono alla base della bozza "Moratti". Un discorso lungo ed articolato. Può delinearcelo schematicamente ora e, magari, dedicare ad un approfondimento un successivo intervento?

Acqua passata, ma torniamoci pure. Se non altro per ribadire qualche differenza e guardare al futuro. All’epoca ci si muoveva in uno scenario che prevedeva tre differenze sostanziali:
a) era vigente la legge che elevava l’obbligo scolastico al biennio della scuola superiore, seppure a 15 anni per effetto del contestato accorciamento della scuola di base; quindi dopo la scuola media tutti si sarebbero iscritti e sarebbero rimasti nel sistema scolastico per almeno due anni;
b) arrivammo all’ultima fase di lavoro della commissione con la raccomandazione parlamentare [Allegato ai resoconti, seduta del 12/12/2000, n. 824] di conciliare esigenze culturali e professionalizzanti, in modo da garantire a tutti gli istituti superiori (“licei”) tre sbocchi possibili: l’università, l’istruzione e formazione tecnica superiore e l’accesso al mondo del lavoro; ogni ipotesi di doppio canale era di fatto inimmaginabile e impraticabile;
c) non erano ancora state messe in campo le letture forzate e dicotomiche della legge di revisione costituzionale, che sarebbe stata approvata nell’ultimissimo scorcio della legislatura; soprattutto nessuno pensava di usarla (certamente non io nella posizone che ricordate) come grimaldello per realizzare il sistema duale: si pensava semplicemente che la formazione professionale spettasse alle Regioni (com’è dal 1948) e che toccasse alle scuole e alla formazione professionale trovare forme e modi diversi di collaborazione e di integrazione, laddove opportuno e utile, per i percorsi formativi fra i 15 e i 18 anni; mentre l’integrazione nel biennio a me personalmente (e non solo a me ovviamente) è sempre sembrata una forzatura, che risponde a “bisogni” che sono molto raramente degli allievi; più spesso di chi la organizza.
Le differenze, quindi, non sono di poco conto e bisogna rammentarle perché anche nei commenti di questi giorni si dice con troppa fretta che l’ipotesi del ministero, includendo i tecnici fra i licei, ricalcherebbe l’ipotesi Berlinguer: a parte che in quell’ipotesi c’erano pure gli istituti professionali, ma c’era anche il biennio obbligatorio, quindi… .
In ogni caso quell’ipotesi, oggi, non è più proponibile; si tratta invece di fare un passo avanti anche rispetto a quella soluzione. Oggi la strada realisticamente praticabile impone di elevare l’obbligo al biennio della scuola superiore, nella prospettiva di consolidare e rendere effettivo il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione fino al conseguimento di una certificazione conclusiva valida anche sul mercato del lavoro. Nel contempo bisognerà innovare profondamente i processi di insegnamento/apprendimento della scuola superiore esistente, in particolare del biennio, per ridurre i tassi di selezione e affrontare demotivazioni e disagi che talvolta stanno raggiungendo il livello di guardia.
Per farlo bisogna fermare la soluzione apparente del “doppio canale” e smetterla di affermare e praticare la centralità del rapporto con la formazione professionale, per incominciare invece a occuparsi di problemi seri e reali: la credibilità, la vivibilità e l’efficacia del progetto culturale e formativo e dei processi di insegnamento/ apprendimento della scuola superiore, di tutta la scuola superiore nelle sue diverse sfaccettature.
Dopo il biennio, gli allievi devono poter optare fra percorsi che conducano in tempi e modi differenziati alla iscrizione all’università e/o alla istruzione e formazione tecnica superiore e/o al conseguimento di una certificazione finale valida anche sul mercato del lavoro. Questi percorsi differenziati possono prevedere quote diverse di collaborazione fra scuola e formazione professionale, secondo criteri e finalità che spetta alle Regioni definire, fino alla possibilità di conseguimento di qualifiche professionali (dopo o contestualmente alla certificazione scolastica, non in alternativa, seppure di “pari dignità”).
Quindi (ed è compito delle Regioni) è necessario realizzare un sistema della formazione professionale serio e qualificato che sia effettivamente tale, un sistema che attui la mediazione ricorrente e permanente fra istruzione e mondo del lavoro, e sia non un canale alternativo alla scuola o, peggio, un surrogato parascolastico per allievi inadeguati al “sistema dei licei”.
C’è bisogno, però, che un diverso quadro normativo, abrogata la legge 53, restituisca all’art. 117 uscito dalla revisione costituzionale l’autenticità del suo significato: le Regioni hanno competenza sulla materia e non sul sistema dell’istruzione e della formazione professionale, che non esiste, e sarebbe meglio per tutti che continuasse a non esistere.



A cura di Fuoriregistro

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 sergio massa    - 20-02-2005
Perchè, sulla base dele linee generali illustrate nell'intervista, non si lancia una piattaforma nazionale su cui raccogliere l'adesione di tutte le forze vive della scuola per imporre la modifica della l.53 e una interpretazione "restrittiva" ma nel contempo "realistica" della delega alle regioni relativamente all'istruzione e alla formazione professionale? Non vi sembra che stiamo un po' troppo fermi in un'atteggiamento attendista e un po' fatalista?