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Quanto costa diffidare della scienza
Aldo Quagliozzi - 10-02-2005
Il titolo di questa rilettura è stato preso a prestito dalla interessante nota di Marco Panara apparsa sull’ultimo numero del settimanale “ Affari & Finanza “.
Da quando l’Italia ha iniziato a diffidare della scienza? Stando alle cronache ed alle cose conosciute dal grosso pubblico, il bel paese da un bel po’ di tempo si è distanziato dai più avanzati paesi in fatto di ricerca ed investimenti e quindi in fatto di incremento della produzione, della redditività e della ricchezza, da distribuire poi equamente tra tutti i protagonisti dell’economia di un paese moderno ed avanzato.
E’ vero, è un andare a lume di “ naso “ nella ricerca dell’inizio della diffidenza e dell’abbandono, e di una o delle molte sue ragioni.
I fatti che la televisione occasionalmente ci offre, di ricercatori e scienziati costretti all’espatrio e che poi risultano essere inventori o scopritori di prestigio in campo internazionale, è una misura, seppur empirica, di uno stato delle cose nel bel paese.
Ed è esemplare e tipico di un paese dalla corta memoria come esso, il bel paese, si impossessi e faccia propri i successi compiuti all’estero dagli uomini che ha costretto ad emigrare sottraendo energie ed intelligenze necessarie per competere in campo internazionale.
Eppure, alcuni decenni or sono nel bel paese la ricerca si poneva all’attenzione di tutti, e tanto per richiamare alla memoria un qualcosa di quel felice periodo, come non ricordare il bel paese all’avanguardia nella ricerca sulle materie plastiche, con una ricaduta industriale notevole.
Oggi sembra che una scelta di campo sia stata effettivamente fatta; il bel paese si vota, anima e corpo, alle ricerche e produzioni marginali, con bassissimo investimento tecnologico, nei campi in cui il rischio sembra ridotto all’osso, e tanto per intenderci, si punta tutto sulla produzione dell’immateriale, ovvero nel campo della comunicazione e dell’intrattenimento da un lato, e sulla speculazione finanziaria “ tout court “ dall’altro, all’interno della quale il rischio imprenditoriale è quasi nullo.
E’ questa una scelta recente, dettata dalla circostanza di un capo del governo imprenditore dell’immateriale per eccellenza, oppure è una scelta datata?
Andando a rileggere certe note storiche ci si leva lo sfizio, e l’ansia della ricerca di risposte viene in qual certa misura soddisfatta.
Scriveva infatti giovedì 26 luglio dell’anno del signore 1990 Eugenio Scalfari, prima ancora quindi della decisione storica della discesa in campo dell’egoarca:

“ ( … ) In realtà, come parecchi sospettavamo da tempo, l’Italia non è soltanto la quinta tra le grandi potenze industriali ma anche la prima tra le repubbliche delle banane.

Meglio testa di gatto, dice il proverbio, che coda di leone. E noi testa di gatto siamo e abbiamo l’aria di esserne abbastanza contenti.

( … ) Ciò che distingue i bananieri dagli imprenditori veri è che i secondi fanno i loro affari misurandosi col mercato e con le sue regole; i primi utilizzando i padrinaggi politici per piegare il mercato ai loro interessi.

( … ) Berlusconi è un bananiere a ventiquattro carati, cioè un uomo d’affari che fa i suoi affari con la politica.

E’ un lobbista di tale dimensione da poter disporre, quando siano in gioco i suoi interessi, addirittura della maggioranza parlamentare. ( … ) “

Parole pesanti come le pietre, scritte nell’anno del signore 1990. Possiamo pensare a quella data come ad una delle date a cui far risalire lo stato comatoso della scienza e della ricerca del bel paese?
Nessuna certezza invero, ma la realtà è sotto gli occhi dell’intero mondo, e non porsi domanda alcuna non è un buon esercizio di libera e consapevole cittadinanza.

“ Un paese che diffida della scienza non farà molta strada. La faranno forse, altrove, alcuni suoi scienziati, ma il paese no. Perché resterà fuori da pezzi di futuro: li potrà comprare, se ne avrà i mezzi, ma non li produrrà.

E’ già successo all’Italia negli ultimi decenni, siamo rimasti fuori da molti settori del farmaceutico e della chimica, dal nucleare, dall’informatica e dall’industria delle telecomunicazioni.

Settori che occupano una buona parte della nostra spesa, ma nei quali la nostra capacità produttiva è inesistente o marginale.

La diffidenza nei confronti della scienza, talvolta addirittura la paura della scienza ha ragioni complesse e serie. Nella percezione collettiva quella stessa scienza che due o tre decenni fa era uno degli strumenti ai quali affidavamo la costruzione di un futuro migliore, oggi invece c’inquieta.

Forse perché, sostengono alcuni, ancora due o tre decenni fa era percepita come la strada da seguire per estendere al massimo le capacità e le possibilità dell’uomo come lo conosciamo, mentre ora la percezione è che si sta entrando in una fase in cui la scienza potrebbe superare l’uomo come lo conosciamo e modificarlo, cambiarne i meccanismi e la natura, rendendolo qualcosa di diverso, che non sappiamo prevedere. E così come l’uomo, gli animali e le piante.

Forse, scendendo ad un livello meno filosofico, il rapporto con la scienza si è incrinato perché non le chiediamo più solo miglioramenti ma certezze, chiediamo la garanzia che certe cose non ne determinino altre, e gli scienziati non sono per loro natura dispensatori di certezze.

La loro misura è ‘l’evidenza scientifica’, che è molto, che è tutto quello che sappiamo oggi, ma che per chi chiede certezze non è abbastanza.

In Italia in particolare c’è dell’altro. Ci sono su molti temi le posizioni della Chiesa, c’è carenza di cultura scientifica che le nostre scuole e i nostri licei non insegnano abbastanza né nel modo giusto.

C’è la delegittimazione progressiva della scienza e degli scienziati, infilati quotidianamente nel tritacarne dello scontro tra i gruppi di interesse e le posizioni più intransigenti, dal quale esce sminuzzata, tirata da una parte e dall’altra senza rigore né rispetto.

E però siamo chiamati ad esprimerci e decidere su cose complesse, dalle staminali agli organismi geneticamente modificati, per citare le cose all’ordine del giorno, di cui sappiamo pochissimo, e non sappiamo di chi fidarci.

Avremmo bisogno di spiegazioni e invece riceviamo slogan. La scienza resta sullo sfondo.

La questione ha anche un’altra faccia, della quale non si parla mai: i costi, che per la società italiana nel suo complesso sono le occasioni perdute, i settori economici non sviluppati, la frustrazione e la diaspora dei talenti.

L’Associazione Galileo 2001, nata per difendere e diffondere la libertà e la dignità della scienza, ne ha fatto un libro, dal titolo appunto ‘I costi della nonscienza’ (edizioni Ventunesimo Secolo, 15,00), che è una lettura istruttiva, benché permeato da uno spirito antiambientalista monocorde e soprattutto ingenuo, perché non riconosce la responsabilità profonda di tutta la politica, della quale i partiti ambientalisti sono solo una parte, e anche piccola.

E’ la politica che non ha il coraggio di scegliere né, spesso, la credibilità necessaria per costruire il consenso su scelte che non possono essere fatte con la pancia ma che dovrebbero essere fatte con la testa.

Non si spiegherebbe altrimenti perché comunità che hanno convissuto per decenni con discariche indecenti siano pronte a fare le barricate alla sola ipotesi di sostituirle con un inceneritore, guidate da sindaci di ogni colore.

Gli scienziati dicono che un inceneritore moderno ha meno emissioni di una sola automobile, ma nessuno è disposto a credere loro.

Eppure basterebbe fare una gita a Peccioli, un piccolo comune toscano che aveva una discarica e l’ha trasformata in un inceneritore supermoderno, migliorando enormemente la qualità dell’ambiente e traendone le risorse per rivitalizzare il paese, investire in innovazione e in servizi, con un significativo effetto anche sull’occupazione.

E come Peccioli altri. Che però non diventano esempi da seguire e restano invece esperienze isolate e marginali.

Ma i costi sono ben altri da quello del trasporto in Germania dei rifiuti che non vogliamo incenerire qui.

I costi maggiori sono lo spreco delle intelligenze, della passione, dei talenti; la non partecipazione a filiere produttive che sono quelle dove maggiori sono il valore aggiunto e le possibilità di creare lavoro qualificato e benessere futuro per la nostra società; l’esclusione o la marginalità nei grandi progetti internazionali di ricerca; il mancato flusso di innovazione verso settori produttivi maturi, nei quali fortissima è la concorrenza sui costi.

Il costo è nella dipendenza da saperi sviluppati altrove.

Si fa un gran parlare di ‘knowledge economy’: ricordiamoci però che i ‘knowledge’ di cui c’è bisogno non sono solo quelli necessari per costruire prodotti finanziari complessi o per inventare campagne pubblicitarie efficaci.



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