Sei mesi dopo: la storia oggi
Giuseppe Aragno - 19-03-2002
11 settembre 2001-11 marzo 2002.

Penso che nessuno abbia mai seriamente creduto che l'attuale situazione politica di monopolarismo avrebbe condotto la vicenda umana su di un rettilineo a senso unico, imponendogli una progressiva e insensibile frenata, in grado di cancellarne la dinamica. E' vero, c'è chi l'ha sostenuto - storici mi pare, o presunti tali - ma si sa, "sostenere" e "credere" non sono la stessa cosa. In realtà, la storia non può separare la propria vicenda da quella degli uomini e uomini senza storia smettono d'esser tali. Ci possono essere forse cicli e percorsi ricorrenti, come spiega Vico, il vuoto, il "limbo della statica" no. Se poi la soggettività della nostra natura propone l'apparente paradosso per cui ogni singola generazione ha sempre più "storie", e non esiste infine una "storia unica" dell'umanità, bene, questo è perfettamente comprensibile, fisiologico addirittura, e dovrebbe far riflettere i sacerdoti della "verità" e i teorici dell'imparzialità dello storico.
Si fa da tempo un gran parlare di nuovo e vecchio e ci si perde in ragionamenti pseudo storici sul mondo globale e sulla sua natura, sul rapporto che esiste tra fondamentalismo e terrorismo, globalizzazione e guerra: nuovi sono i conflitti, nuovo il pacifismo, nuovissima la scoperta che la storia non è finita. Che dire? A Proudhon che, dopo aver posto sotto processo il denaro, dichiarò, per dirla in breve, che "la proprietà è un furto", ma sprecò il suo ingegno nella "Filosofia della miseria", sperando che i "ladri" restituissero spontaneamente il "maltolto", Marx rispose semplicemente che quella illusione non era innocente, ma perniciosa. E fu la "Miseria della filosofia". Sul piano storiografico oggi accade per certi versi la stessa cosa, anche se alla micidiale "Globalizzazione della miseria" non si oppone ancora un'articolata e lucida "Miseria della globalizzazione", che verrà - occorre sperarlo - perché il rischio concreto non è la morte della storia, come qualcuno ha strumentalmente sostenuto, ma quella della storiografia. Quella, s'intende, dell'età contemporanea, dal momento che la tragedia dell'Afghanistan è, come scrivono in molti, il primo conflitto del mondo globale quello che, assicurano, ci vede immersi in un'epoca nuova: quella, appunto, della globalizzazione.
Esiste, a quanto pare, una spiegazione storicamente fondata di ciò che volgarmente s'intende per "mondo globale", del quale si può evidentemente giustificare l'esistenza azzardando delle date e modificando la periodizzazioni già note. Bene. Se le cose stanno così, occorrerà uscire dal vago e dare un nome al tempo che si chiude, fissare una data orientativa che segni il passaggio ed individui un'età. Per mio conto, se uno studente me lo chiedesse, non saprei dare risposte. Non so, lo confesso, cosa sia un "mondo globale" e vedo, in una formula così indeterminata, il rischio di un'astrazione, l'insidia di una separazione tra il "fatto storico" - con i suoi canonici effetti e le sue cause - e l'incipiente lettura storiografica. Per dirla tutta, mi pare che esista la ricostruzione, ma non si vedano né i fatti, né le cause, né gli effetti. Astratte ed, ahimè, povere di contenuto, risultano perciò fatalmente le parole, retoriche le domande. Il terrorismo, ci si chiede smarriti, è figlio della globalizzazione? E il fondamentalismo è un fenomeno moderno o arcaico?
I fatti, pochi in verità, ma di portata probabilmente epocale, sono altrove, fuori delle domande che si pone ormai troppo spesso lo studioso, soverchiato dalla contingenza politica, e conducono a problemi e fenomeni che presentano concrete "dimensioni storiche", sono "dimensionabili" sul piano storiografico, valutabili su quello etico. Ciò che purtroppo sembra drammaticamente mancare alla riflessione sono appunto la "dimensione" e la "valutazione". Eppure le ipotesi di lavoro su elementi sostanzialmente nuovi non mancano. Anzitutto gli appetiti scatenati dai vastissimi mercati lasciati liberi dal defunto gigante sovietico, mercati sui quali il controllo statunitense non è certo scontato. In secondo luogo, la nuova Europa, che, nonostante i suoi innegabili limiti, si propone come entità politica organizzata e tendenzialmente unitaria e "minaccia" di costituire una propria forza militare, fuori della tutela USA. Un'Europa cui l'Inghilterra è nel suo insieme ostile - non è un caso che gli inglesi siano ancora una volta i migliori alleati degli USA - un'Europa che non sembra lontana talvolta dal voler enunciare una sorta di dottrina di Monroe alla rovescia. Manca, per avere un quadro più chiaro della situazione, una valutazione complessiva e comparata delle potenzialità di sviluppo economico dei protagonisti della vicenda mondiale, ma studi certamente seri disegnano un quadro in cui gli USA, costretti da crescenti difficoltà, affidano il loro futuro soprattutto alle forza delle armi. E sarebbe bene non dimenticare che il futuro degli USA è, al momento, quello di buona parte del pianeta. Alla luce di questa necessità andrebbero probabilmente letti gli ultimi quindici anni di politica estera statunitense, per verificare se ed in che misura essa risponda alla volontà di scatenare, oggi che i rapporti di forza non consentono reazione, una guerra preventiva per il controllo delle zone calde e il possesso delle risorse energetiche, per cercare di capire quale ruolo - e soprattutto quali limiti - gli anglo-americani assegnano all'Unione Europea. Chiedersi, per essere chiari, quali siano i legami tra la politica estera degli Usa e la costruzione concreta dell'Europa e contro chi siano realmente indirizzati i missili e le bombe che hanno colpito Kabul e torneranno a colpire l'Iraq.
In questo quadro si inseriscono le vicende "classiche", la cui evoluzione è sotto gli occhi di tutti: le rinnovate crisi balcaniche, anzitutto, che ci riportano indietro alle antiche e irrisolte questioni dell'epoca che si sarebbe chiusa, indietro sino al primo conflitto mondiale ed ai terroristi di Sarajevo: concreti, reali e troppo antichi per esser nuovi, eppure terroristi, passati inspiegabilmente tra le maglie del vecchio, giunti al nuovo e divenuti d'un tratto i misteriosi e - chissà mai perché - "inediti" protagonisti della storia del nuovo mondo, del mondo globale. Per orientarsi, occorrerebbe forse chiedersi, in via preliminare, se e quanto i Balcani del 1914 siano completamente estranei a quelli di fine Novecento. In quanto alla crisi mediorientale, è difficile collocarla nella indecifrabile dimensione globale ed affonda le sue radici nelle scelte delle Cancellerie europee tra la prima guerra mondiale e la fine del nazifascismo. In realtà, per questo, come per tanti problemi, regna sovrana la confusione: quanto integralismo, infatti c'è oggi in Israele? Quanto fondamentalismo nella lotta al terrorismo e quanto terrorismo nella guerra tecnologica delle armi "intelligenti" e magari proibite? Esiste un comune denominatore nella gestione politica delle armi che parte dai bombardamenti sulle città indifese nella guerra di Spagna, passa per i gas di Mussolini, il napalm del Vietnam, e conduce difilato alla guerra del Golfo e al secondo conflitto afgano, con le superbombe e gli ordigni termici che risucchiano l'ossigeno? Anche se fingiamo d'ignorarlo, in Afganistan si sono avuti in pochi anni due conflitti, con protagonisti che si sono intrecciati, confusi e mimetizzati. Quali furono gli obiettivi dei sovietici ieri, quali quelli degli USA e dell'Europa oggi? E perché due guerre in l'Afganistan, sulla linea di confine temporale che separa il vecchio dal nuovo? Perché l'Iraq, già colpito nel 1990, diventa ora il futuro obiettivo? Perché scoppia il "cuore del mondo"?
Fa sorridere questo integralismo che si affaccia verginello sul palcoscenico della storia, dopo l'antico "Dio lo vuole", dopo Lutero, le guerre di religione, e i recenti genocidi del fondamentalismo ariano, e si veste dei panni di Hamas per diventare, inutile dirlo, il protagonista della questione palestinese, questione antica, "madre di tutte le crisi". Anche qui, in Palestina, tutto sembra nuovo e fuori del tempo, tutto è antico e noto: la giustapposizione di due leader - l'antico Sharon e il "giovane" Bush - e di due politiche, i rapporti oscuri ed antichi che intercorrono da tempo tra i "padroni" dell'Occidente e il loro più fidato gendarme sulla porta cruciale del Medio Oriente, rapporti che sono a monte e non a valle del processo di logoramento della leadership di Arafat. Anche in Palestina misteriosamente accade che Hamas sia il fondamentalismo, mentre la cecità assassina delle destre israeliane - la punta di un insondato pianeta di teoria e pratica della violenza - è solo un governo forte che sbaglia politica.
No, non è vero - come affermano per distinguersi dalla rozza coerenza berlusconiana, i pacifisti-interventisti della "sinistra che non c'è" e straparla di pace però fa la guerra e non teme di farsi spudoratamente le marce di Assisi - non è vero che non c'è nulla d'arcaico nel fondamentalismo islamico. C'è, se lo si valuta con onestà intellettuale e senza fini di parte politica c'è. Perché il burka è arcaico, perché il Corano letto dai Taliban è arcaico. Arcaica però è anche l'incapacità - o il rifiuto - dell'Occidente di guardare nel proprio bagaglio di antichi pregiudizi, del suo strisciante razzismo, dell'inveterato nazionalismo, che non è il lato oscuro della globalizzazione e nemmeno la sua interfaccia: è semplicemente l'eredità irrisolta della storia che non s'è mai fermata e perciò non sì è nemmeno rimessa in moto dopo l'undici settembre e il crollo delle Twins Tower. Bisognerebbe lasciare agli opinionisti - se mai ne abbiano voglia - il compito di coltivare strumentalmente - in omaggio alla moda o ad un padrone -l'illusione di una così avventurosa cesura. Il mondo che precede l'undici settembre 2001 ha in comune con quello che lo segue un carattere fondamentale, che non si può ignorare, una continuità che gli avvenimenti più recenti rendono sempre più evidenti: le responsabilità gravissime, esclusive e schiaccianti del Nord del pianeta, quello che produce, alimenta ed usa i fantasmi che dichiara di voler combattere. Dopo l'undici settembre, rispettosi dei valori universali feriti, abbiamo lasciato mano libera alla giustizia dei bombardieri. Il pacifismo, in stato confusionale per l'abile regia che ha mosso una volta ancora le armate della "polizia internazionale", ha vissuto una stagione di dolorosa divisione interna. E' rimasto silenzioso, annichilito, ha visto marciare nei suoi ranghi chi la guerra l'ha votata e guidata, chi le bombe le ha sganciate.
Sono trascorsi sei mesi e in fondo al tunnel non compare una luce. L'ONU, secondo copioni antichi, recitati chissà perché nel mondo nuovo della globalizzazione, ha coperto l'ennesima aggressione ed ora chiede conto dei diritti umani ma non c'è chi gli badi. Anche questa è storia antica ed ha radici lontane, ma lo storico vede il "nuovo" e non s'accorge del "vecchio", dice e non dice, esita, sembra impaurito di fronte alla necessità di usare chirurgicamente i ferri del suo mestiere e si affida al popolo di Puerto Alegre. Il guaio è che non resta più tempo. Colin Powell ora fa cenno all'arma nucleare...



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