breve di cronaca
Dalla Shoah alla pace
Liberazione - 04-02-2005
Sharon ha detto che sta per aversi una svolta storica con i palestinesi. Bush ha detto che sta per realizzarsi lo Stato palestinese. Anticipazioni ufficiose parlano di una liberazione di detenuti palestinesi, di ritiro israeliano da città della Cisgiordania, di qualche varco in più che sarà aperto nel muro. E finalmente dovrebbe scoccare la pace.

Purtroppo è molto improbabile che ciò accada. Ma è una coincidenza molto significativa che il primo ministro Sharon abbia ridato credito a una soluzione negoziata coi palestinesi proprio nel giorno della memoria, nel giorno in cui si ricordava la liberazione da parte dell'Armata Rossa del campo di Auschwitz. E' una coincidenza significativa perché allude, senza volerlo, al cuore della cosa, dove sta l'origine del problema e dove sta anche la chiave della sua soluzione. Il cuore è la Shoah.

Essa sta all'origine del problema perché senza di essa gli ebrei non si sarebbero risolti con tanta determinazione a fare quello che mai avevano voluto fare nella storia, e che i rabbini sconsigliavano, cioè di dare un'accelerazione alla realizzazione politica delle speranze messianiche, ponendo termine a quel "rinvio", a quel "differimento" del giorno della redenzione di cui ha parlato Gershom Scholem. Dopo la Shoah il ritorno a Gerusalemme è diventata un'urgenza storica concreta, il sionismo politico di matrice ideologica europea ha trovato la formidabile legittimazione del sionismo religioso, ed è diventato irresistibile il grido ripetuto da Menachem Begin in tutte le comunità della diaspora: "mai più gli ebrei deboli e senza potere".

La Shoah è stata anche la ragione determinante per cui il cosiddetto "rifiuto arabo" ad accettare lo Stato di Israele non poteva in alcun modo prevalere. Non aver capito la portata decisiva della Shoah, trincerandosi dietro il fatto che non era certo avvenuta per colpa sua, è stata la ragione non solo della sconfitta, ma anche della frustrazione del mondo arabo che si è trovato contro non l'Occidente, come ha creduto, ma la storia.

E solo molto tempo dopo la loro "catastrofe", quando i palestinesi hanno capito, con Arafat, la potenza causale della Shoah, e hanno riconosciuto l'esistenza dello Stato di Israele, anche lo Stato palestinese è diventato in via di principio possibile.

Ma la Shoah, oltre che all'origine del problema, sta anche alla sua fine. Questo nessuno lo dice, ma se non si dice non se ne verrà fuori. Anzi si può azzardare a dire che solo quando una vera pace tra israeliani e palestinesi sarà raggiunta a Gerusalemme, la Shoah sarà veramente finita, anche nei suoi lontani effetti di paura e di violenza. E lo sarà non solo per Israele, ma anche per le comunità della diaspora, che in questa situazione non sono affatto serene, come ne sono sintomo le dimissioni del rabbino capo di Milano, Giuseppe Laras. E con la pace la memoria del genocidio potrà davvero far risuonare il suo "mai più" in piena e perfetta universalità.

Dovendosi mettere nel conto tutto questo, il percorso è molto più complesso e difficile di quanto l'approccio grossolano della "road map" può far supporre, ma la sfida è anche ben più nobile e gravida di futuro.

Per procedere nel cammino occorrono infatti due fondamentali evoluzioni in componenti essenziali delle due società palestinese e israeliana.

Nella prima, il popolo dei "martiri" e dei kamikaze deve ormai riconoscere che la propria via, se è servita a tenere aperta la questione palestinese contro il tentativo della destra israeliana di negarne perfino l'esistenza, non può giungere ad alcun altro risultato, se non la tragedia. Se la questione è stata tenuta aperta, occorre che a un certo punto se ne venga alla fine, si lascino le armi e si realizzi una soluzione. Senza una soluzione, anche i kamikaze sono perduti.

Nella società israeliana, la componente politica, che ha la responsabilità dello Stato, deve ormai riconoscere che il progetto fin qui perseguito di uno Stato ebraico che non ammetta alcun altra sovranità se non ebraica sull'intera antica terra d'Israele, dal mare al Giordano, non si può realizzare mantenendo la democrazia, l'integrità spirituale e nemmeno la sicurezza, che è poi l'alibi di tutto; e la componente culturale e religiosa, che pur senza arrivare all'estremismo degli ultra-ortodossi, considera irrinunciabile la terra perché data da Dio, ritiene lo Stato d'Israele "l'inizio della redenzione" e i palestinesi un semplice ostacolo da rimuovere, con l'alleanza di Dio, come lo furono i popoli stranieri dell'antica storia biblica, deve fare un potente sforzo di reinterpretazione di queste categorie. Non si tratta affatto di ripudiarle o di reinterpretarle in chiave laica o laicista come la cultura europea sarebbe pronta a suggerire; è antisemitismo anche accettare gli ebrei purché non facciano gli ebrei. Al contrario è all'interno della stessa tradizione ebraica che ci sono le risorse per una lettura non esclusiva e non escludente, non potente e non prepotente, non letteralistica e non deterministica di queste categorie religiose; c'è un ebraismo delle genti, un ebraismo della pace, un ebraismo del ricordo che possono portare a condividere il dono della terra, ad abitare con lo straniero, a fare dello Stato di Israele una nazione tra le nazioni e con le nazioni.

Il ricordo; come si sa, è essenziale nella definizione stessa di Israele. Esso non è solo memoria, commemorazione, museografia; il ricordo dell'uscita dall'Egitto, come il ricordo della Shoah, è un ricordo normativo dell'azione; esso è chiamato a generare comportamenti opposti ai mali subiti: fare la giustizia, onorare lo straniero, non accettare e non imporre altre schiavitù, scegliere la vita.

In questo senso la Shoah può entrare nella invenzione della pace in Medio Oriente e nel concepimento di un altro tipo di rapporti umani e politici nel mondo; e in un momento in cui, sia dall'islamismo estremista sia dal cristianesimo settario viene riproposta la figura di un Dio vendicatore e omicida, il popolo d'Israele potrebbe realizzare il suo universale compito di mostrare la dolcezza di Dio.

Raniero La Valle

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