breve di cronaca
Conoscenza vuol dire libertà
l'Unità - 31-01-2005
Atipiciachi di Bruno Ugolini

C’è un diffuso luogo comune, riscontrabile in una parte dei lavoratori atipici, rimbalzato anche nella mailing list del Nidil. È quello di chi sostiene che la formazione professionale, il "sapere", i titoli di studio, non servono a niente. Cìtano così una ricerca dell'Eurispes, che segnala come l'80 per cento dei precari sia in possesso di laurea. Un ragionamento paradossale perché preso alla lettera porterebbe ad affermare che tanto varrebbe essere analfabeti o saper solo far di conto. Eppure tutta la pubblicistica mondiale parla di lavori, di processi produttivi in cui le nuove tecnologie, la globalizzazione, gli intrecci mercantili, portano alla necessità di una forza lavoro assai diversa da quella del passato. Una forza lavoro di "qualità" da aggiornare continuamente, per stare al passo con i tempi e che può in tal modo anche conquistare un proprio ruolo meno subalterno.
È vero che una gran parte di quelli che battono sul ritornello "la mia laurea non serve a nulla" sono stati costretti a ricoprire posti, impieghi collaborazioni, spesso in polverosi uffici pubblici dove non è attivata nessuna forma di ammodernamento, di partecipazione attiva. Ma dovrebbe essere, questa, una ragione non per adeguarsi, bensì per rivendicare, anche in quei luoghi, un'organizzazione del lavoro diversa, capace di valorizzare e premiare la forza lavoro. Esistono, del resto, una quantità di testimonianze di giovani - ad esempio collegati al mondo multimediale - che raccontano di come siano obbligati ad aggiornarsi continuamente in un settore in continua evoluzione. E lo fanno volentieri, semmai lamentano di non ricevere aiuti, incentivi dai committenti.
Uno degli argomenti che si usa in questa discussione, tesa a sbeffeggiare chi considera prioritario il diritto alla formazione permanente, riguarda il fatto che molte aziende dimostrerebbero un assoluto menefreghismo per il livello di conoscenza, di sapere, dei propri dipendenti. Questo perché guidati da una filosofia improntata alla ricerca dei minor costi possibili, con la possibilità di disporre di "carne fresca" magari un po' ignorante, senza tanti grilli per il capo. Non ricercano una manodopera più costosa ma più capace, più impegnata, più ricca sul piano professionale. È vero: questa concezione non è certo isolata. Ma è forse giusto assecondare questa impostazione ed accettare un'occupazione povera, fatta di mansioni umili, magari rivendicando in cambio di questa condizione, piccole misure economiche, piccole mance? Oltretutto tale concezione sta desertificando l'apparato produttivo del Paese.
Non a caso la sinistra, i sindacati, perseguono un'alternativa, si battono, scioperano per un'alternativa. Quella basata sulla qualità, appunto. Qualità delle persone che lavorano, con i loro saperi sempre aggiornati, qualità nell'organizzazione del lavoro, qualità nei diritti, qualità dei prodotti.
C'è, infine, un altro argomento che a me sembra decisivo. La formazione, l'accrescimento del sapere rende uomini e donne più liberi. Lo sapevano gli operai che negli anni 70 conquistavano dopo dure lotte il diritto alle 150 ore, centocinquanta ore "per studiare", battendo le resistenze assordanti della Confindustria e gli sberleffi dell'allora "Lotta continua". Lo sapevano prima di loro, i vecchi capi sindacali come l'autodidatta Giuseppe Di Vittorio. È uscito in questi giorni un bel libro di Bruno Trentin. Leggiamo qui, sempre a proposito di diritto alla formazione lungo tutto l'arco della vita: "Si tratta di un diritto di libertà perché non c'è libertà senza conoscenza e perchè senza conoscenza non c'è soltanto una frattura insanabile nella società civile, ma ogni rapporto fra governanti e governati, a cominciare dai luoghi di lavoro, diventa oppressione e subalternità". Il libro s'intitola "La libertà viene prima, la libertà come posta in gioco nel conflitto sociale". Viene prima. Prima anche del reddito sociale.
  discussione chiusa  condividi pdf