Giornalisti! At-tenti!
Mariella Bussolati - 20-01-2005
L'iter della legge delega sul codice penale militare, che rende impossibile divulgare informazioni sul settore militare, è giunto all'ultimo passo. Forse è meglio intervenire finché si è in tempo

In generale molti colleghi sentono la mancanza di un dibattito serio e approfondito sui grandi temi che riguardano la nostra professione, il che si traduce in un progressivo impoverimento del livello di riflessione medio diffuso.

Ci sono però occasioni contingenti che offrono la possibilità per riprendere un confronto, sia sul tema specifico da esse offerto, sia sul ruolo del giornalismo, sia più in generale sulla libertà di stampa.

L'occasione alla quale faccio riferimento in questo momento è il disegno di legge contrassegnato con il codice 5433, ovvero "Delega al governo per la revisione delle leggi penali militari di pace e di guerra, nonché per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario militare".

Io penso sia nostro compito cercare di fare più luce possibile sulle applicazioni di questa legge che, nel caso venga approvata può ledere profondamente i diritti dell'informazione.

Nei primi giorni di febbraio (ma le date sono ancora da confermare) il decreto dovrebbe tornare alla Camera (ha già passato il vaglio del Senato in data 18 novembre).

La legge in via di discussione prevede, nei luoghi oggetto di missione militare italiana, l'applicazione della legge penale militare di guerra, anche indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra, punendo in tale contesto ciò che viene ritenuto illecita raccolta, pubblicazione e diffusione di notizie militari.

Ciò comporterebbe tra l'altro, in una situazione come quella attuale, l'applicazione degli articoli 72 e 73 del Codice Penale Militare di Guerra che prevedono che chiunque (e non solo i giornalisti) si procura notizie concernenti la forza, la preparazione o la difesa militare, la dislocazione o i movimenti delle forze armate, il loro stato sanitario, la disciplina e le operazioni militari e ogni altra notizia che, non essendo segreta, ha tuttavia carattere riservato, per esserne stata vietata la divulgazione dall'autorità competente, è punito con la reclusione militare (cioè in un carcere militare) da due a dieci anni. Mentre chi diffonde o comunica tali notizie è punito con la reclusione militare da cinque a venti anni.

Se passerà, renderà impossibile per chiunque divulgare informazioni che riguardano l'esercito, ma anche l'arma dei Carabinieri e la Guardia di Finanza.

Va sottolineato che l'art. 72 riguarrda il procacciamento di notizie riservate, mentre il 73 la diffusione di notizie riservate.

In base a tali norme, per esempio, non sarebbe stato possibile dare notizia dei caduti di Nassiryia, se l'Auorità militare avesse deciso di non divulgare la notizia.

Purtroppo molti commentatori l'hanno descritta come una limitazione che danneggia esclusivamente i giornalisti al seguito delle unità delle forze armate in azione, come sta accadendo ora in Iraq. In realtà la sua portata è più ampia, fino a riguardare in genere tutti i cittadini.

Alcuni di questi reati venivano fino a poco tempo fa puniti dal codice penale militare solo quando il paese era in effettivo stato di guerra, una situazione dunque virtualmente non applicabile all'Italia, che vieta interventi di questo tipo nella costituzione. Il disegno di legge 5433 ribalta però questo concetto, abbassando la differenza tra stato di guerra e stato di pace.

Nel comma 1 dell'art 4 in particolare viene enunciato che per aversi tempo di guerra non è più necessario che sia dichiarato lo stato di guerra, cioè che il paese sia entrato in guerra contro qualche altro stato. Una situazione che abbiamo ben presente, in quanto risponde perfettamente alla realtà odierna del nostro Paese, impegnato nella "missione" in Iraq.

Prevede anche che "al di fuori del territorio nazionale" si applichino automaticamente il codice penale militare e leggi che presuppongono il tempo di guerra "per i reati commessi (al di fuori del territorio nazionale) nel corso di un conflitto armato, anche indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra"; situazione che in effetti può riguardare più da vicino i corrispondenti di guerra.

Nella seconda parte dell'articolo però viene detto che le applicazioni valgono in assenza di dichiarazione di stato di guerra se viene disposto un atto avente forza di legge.

Tra l'altro: in base all'art.3 comma3, si ritiene luogo militare sia caserme, navi, basi militari, sia qualunque altro luogo dove i militari si trovino, anche se temporaneamente, per ragioni di servizio.

Spero che si possa innescare un ampio dibattito con i colleghi, eventualmente proponendo qualche attività di pubblico rilievo. Eventualmente una raccolta di firme.

Sono occasioni come questa che possono fare in modo che il pubblico possa credere che i giornalisti, a differenza di quanto può sembrare in superficie, sono qualcosa di più che un gruppo di velinari.

Mariella Bussolati

Leggi anche un documento di riesame con note e osservazioni a cura dei “Giuristi Democratici” pubblicato da Reporter Associati


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 Articolo 21    - 22-01-2005
Qual è la situazione della sicurezza per i giornalisti italiani in Iraq? C’è spazio per poter raccontare le prime elezioni libere del “dopo-Saddam” nella martoriata terra dell’antica Babilonia? Oppure, lo stato di allarme è talmente elevato che è più salutare tenere lontani da quella realtà qualsiasi mezzo di comunicazione?

Ad appena dieci giorni dalla data delle elezioni, il nostro paese rischia di restare senza informazioni puntuali, dirette e a largo raggio su quanto sta accadendo in Iraq. Stando, infatti, a quanto risulta ad Articolo21, l’aereo dell’Esercito italiano che doveva partire il 26 gennaio prossimo dall’aeroporto militare di Pisa alla volta di Nassirya (dove si trova il grosso del nostro contingente, stipato nella superfortezza di Camp Mittica, a 8 kilometri dalla città irachena), non decollerà più con il suo carico di giornalisti, operatori e tecnici di RAI, Mediaset e altre testate della carta stampata.

I motivi addotti sono come sempre quelli della mancanza di sicurezza e, quindi, degli alti rischi per la vita dei giornalisti, una volta arrivati in Iraq.

A Nassirya, così, resteranno solo gli inviati di guerra del Corriere della Sera e di Repubblica, mentre il pulmino satellitare della RAI attrezzato per riversare i servizi e per collegarsi in diretta con l’Italia rimarrà chiuso e inattivo.

Certo, non è che Nassirya sia la base migliore per raccontare cosa sta succedendo in questi tempi in Iraq, e come quel popolo si appresta ad assaporare il ritorno alla democrazia elettorale, visti gli strettissimi controlli cui sono sottoposti i nostri inviati, i quali, sempre per motivi di sicurezza, si muovono e lavorano con appresso i militari del contingente italiani appiccicati come “francobolli”.

Motivi di sicurezza, certo sacrosanti, ma la scarsa agibilità determina molto il loro libero lavoro di reportage.

Le sorti dell’informazione RAI saranno rette, così, dagli inviati a Baghdad ( Ferdinando Pellegrini per la radio, Monica Maggioni per il TG1 e, fra pochi giorni, anche da Giovanna Botteri del TG3 e Fabio cacchione del TG2 ( questi ultimi due arriveranno nella capitale irachena con volo di linea, probabilmente più sicuri di quelli militari!).

Ma allora, nonostante tutte le raccomandazioni, è più pericolosa Nassirya che Baghdad? Eppure la maggioranza degli attentati terroristici avviene nella capitale irachena. E nei dintorni sanniti. A meno che il governo italiano non abbia qualche “segretuccio” da coprire in quel di Nassyria, roccaforte sciita, come lascerebbe intendere purtroppo anche l’ultimo agguato ad un nostro militare, ucciso durante un turno di pattuglia in elicottero. Proprio per questo, quindi, è ancor più urgente che gli occhi e le orecchie della libera stampa tornino a Nassiriya.

Articolo 21