A margine di una tragedia
Aldo Ettore Quagliozzi - 03-01-2005
E come al solito è partita a spron battuto la “carità pelosa “ del bel paese; è tutto un fiorire di opere altamente benefiche finalizzate ad aiutare le popolazioni colpite dall’immane forza della natura.
E’ forse irriverente in queste circostanze, o fuor di luogo, accennare solamente a questa abitudine da postulanti per cui, depositato il soldino, ora possibile anche con un sms, nel cappellaccio del povero sventurato di turno, il tutto torna al prima, con i pensieri rivolti altrove?
E mi viene anche in questa occasione di pensare alle altre volte in cui come abitatori del bel paese ci siamo impegnati in grandi opere umanitarie nel mondo; il più delle volte, l’esito finale è sempre stato l’intervento di un magistrato.
E non ci voglio proprio pensare più di tanto, per la grande vergogna che ancora riesco a provare. E’ divenuto quasi uno sport nazionale indire gare di beneficenza in ogni occasione; non siamo ancora riusciti ad imparare che sarebbe meglio “ insegnare a pescare “ che fare doni, o come nella circostanza, fare appello al pietismo del bel paese.
Fuori da ogni metafora, quel costo di vite umane è un prezzo troppo alto perché lo si possa alleviare con il soldino trasmesso con il telefonino, magari con il videotelefonino ricevuto a natale.
Quelle morti non possono non pesare sulla coscienza del cosiddetto mondo progredito e cristianizzato. Scrive Umberto Galimberti nel suo editoriale “ La natura inumana “apparso sul quotidiano ‘ la Repubblica ‘:


“ ( … ) Non dimentichiamo la potenza della natura e non abituiamoci a pensare che essa altro non è che materia prima, o deposito di rifiuti. Il trattato di Kyoto attende ancora molti paesi, tra cui l’Italia, al rispetto della natura.
Migliaia di morti, soprattutto tra i dannati della terra, i più indifesi, semplicemente perché più poveri, perché hanno per casa quattro assi inchiodate e per vivere un dollaro al giorno.
Sono sempre i più deboli che la natura elimina seguendo il suo principio della selezione. Ma se oggi la debolezza non è decisa dalla biologia,ma dalla ricchezza e dalla disponibilità economica, che complicità abbiamo con la ferocia della natura?
Queste sono le due domande che il maremoto nel Sudest asiatico ci pone:
1 – Che rispetto abbiamo della natura noi, uomini della tecnica che la visualizziamo solo come materia prima?;
2 – Che rispetto abbiamo degli altri uomini, e che soccorso diamo a loro noi, ricchi della terra, che ammiriamo la loro natura nel passatempo delle nostre vacanze?
Se sapremo rispondere a queste due domande con serietà, non fermeremo né i terremoti né i maremoti, ma eviteremo almeno che, per gran parte dell’umanità,ogni sussulto della terra sia strage.



Ma abbiamo voglia di porci le due domande, anzi ne abbiamo il coraggio, ora che con la globalizzazione dovrebbe diffondersi il senso di una cittadinanza senza confini, una cittadinanza per l’appunto planetaria?
Sono i nostri interessi immediati, sono le nostre resistenze alla condivisione in parti uguali delle risorse del pianeta Terra, che offuscano la nostra vista e non ci permettono oggi e non ci permetteranno mai di sentire gli altri, gli esclusi, come fratelli.
E’ la difesa del nostro benessere dell’oggi che ci impedisce una reale, necessaria modifica dei nostri comportamenti di grandi consumatori quotidiani e delle nostre scelte politico-ambientali, tutte tese alla difesa del benessere relativo così faticosamente conquistato, relativo proprio in rapporto al degrado ambientale che incombe come uno spettro sui destini dell’umanità tutta, e che non consentono il risanamento di quelle sacche estreme di povertà, in un tempo che non sia illusorio o addirittura bugiardo. Di tutto ciò non esiste segnale alcuno.
Si chiede Pietro Greco nel suo editoriale apparso sul quotidiano ‘l’Unità ‘col titolo “ Quanti potevano essere salvati?


Un terremoto, anche di potenza devastante come quello avvenuto nell'Oceano Indiano lunedì scorso, si consuma in pochi secondi.
Le sue vittime non possono essere salvate, se non con una lungimirante prevenzione. Ma le onde anomale di un maremoto impiegano molto tempo prima che si abbattano su coste lontane centinaia e persino migliaia di chilometri dall'epicentro.
Anche se lo tsunami ha la velocità di un jet, può giungere a destinazione decine di minuti, persino ore dopo il sisma che lo ha provocato. Con un buon sistema di sorveglianza le vittime del maremoto possono essere salvate.
Con un pronto all'erta decine di migliaia di persone, lunedì scorso, avrebbero certamente evitato la morte. Quel sistema di pronto allerta esiste. L'uomo, ma bisognerebbe dire l'uomo occidentale, ha la capacità tecnologica, con una rete piuttosto fitta di sismografi, non solo di rilevare in tempo reale un terremoto e la sua esatta collocazione. Ma ha anche la possibilità, per esempio con la sua rete di satelliti, di individuare l'onda anomala eventualmente provocata dal sisma e di prevedere in anticipo dove, quando e come arriverà.
Un sistema di allarme collegato con il sistema di rilevazione può, dunque, con largo anticipo avvisare le popolazioni costiere interessate e consigliarne la rapida evacuazione.
Non è un sistema avveniristico. In Giappone - spiega l'ingegner Luigi Cavaleri dell'Istituto di Scienze Marine del Cnr di Venezia - ce n'è uno che funziona così bene che consente alle persone allertate non solo di mettersi in salvo ma anche di raccogliere l'attrezzatura necessaria e, telecamera alla mano, documentare regolarmente i maremoti, riprendendone gli effetti catastrofici ma spettacolari.
Nel caso del disastro «che ha colpito il Sudest asiatico, l'India, lo Sri Lanka e le Maldive - sostiene ancora Cavaleri - c'era tempo per avvisare la popolazione. Il problema è stato e rimane la mancanza di un opportuno sistema di previsione e di informazione alla popolazione».
Insomma, se l'India, lo Sri Lanka, l'Indonesia, il Bangladesh, la Somalia e le altre nazioni che affacciano sull'Oceano Indiano avessero avuto il sistema di allarme tsunami in dotazione al Giappone, decine di migliaia di vite umane si sarebbero salvate.
La catastrofe di lunedì scorso non era solo annunciata, ma anche evitabile. Perché la tecnologia e l'organizzazione che aiutano le popolazioni del ricco Giappone (ma anche degli Stati Uniti o dell'Australia) non sono state capaci di aiutare le popolazioni povere dello Sri Lanka, dell'India, del Bangladesh e di molte altre nazioni asiatiche e africane?
Si possono invocare diverse ragioni per rispondere a queste domande. Per esempio, perché nei paesi poveri mancano le risorse per allestire il sistema di allarme. Perché nei paesi poveri la percezione del rischio - compreso il rischio sismico - è diversa che nei paesi ricchi.
E tuttavia c'è un'altra considerazione semplice - forse troppo semplice - da fare. Una considerazione che riguarda anche noi, abitanti dei paesi ricchi.
Esistesse al mondo un sistema di protezione civile, afferente alle Nazioni Uniti, sul tipo dell'Organizzazione Mondiale di Sanità (che si occupa del rischio sanitario) o anche sul tipo della Fao (che si occupa del rischio alimentare), gran parte delle persone morte a causa del maremoto di lunedì scorso si sarebbero salvate.
Il costo per allestire un simile sistema è forse insopportabile per i singoli paesi poveri (e anche per un paese grande e in via di rapido sviluppo come l'India), ma è certamente sopportabile dalla comunità internazionale. Se poi l'Occidente estendesse a questa agenzia di protezione civile globale le informazioni in suo possesso, i costi diventerebbero davvero minimi. Al limite dell'irrisorio.
Questo sistema di protezione civile globale è una necessità. Sia perché è intollerabile che per così poco, così tanti - solo perché vivono in paesi poveri - paghino con la morte. Sia perché col cambiamento globale del clima il rischio di tragiche calamità - come alluvioni e inondazioni - sta aumentando rapidamente. Un sistema di protezione civile globale è, in questo scenario, qualcosa di più di un bisogno. È un diritto non più alienabile.




interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 ilaria ricciotti    - 29-12-2005
Che lo stato, le famiglie, le scuole aiutino i giovani, CON L'ESEMPIO, a rispettare questa natura molte volte, anzi troppe volte violentata!!!!!!
E' ora di finirla con l'indifferenza giustificata e poi con il pianto da coccodrilli!!!!!!
I numerosissimi morti di questa tragedia è un chiaro esempio di quanto si evince dalle considerazioni di Aldo.

 Elena    - 09-01-2005
Non entro nel merito della "carità pelosa", ma da giorni la mia coscienza è "disturbata" da un fastidioso interrogativo: se le ragioni colpite non fossero state a noi così vicine, perché ci passiamo le vacanze, perché anche i nostri connazionali sono morti con i locali, perché ci sono i tour operator occidentali che hanno costruito i villaggi turistici etc. ci saremmo mossi con altrettanto altruismo? Lo tzunami ha colpito anche le coste della Somalia. Il mio contributo aiuterà anche quelle popolazioni o solo il sud-est asiatico?