L'Islam Italiano
Laura Tussi - 18-12-2004
Notizie su una realtà molteplice e multiforme.
La rappresentanza dell’Islam in Italia


L’Italia è un grande mondo al plurale. Dalle statistiche risulta anche la presenza dell’Islam Albanese quale identità religiosa annacquata e differente, per esempio, dalla realtà Egiziana, Algerina e Senegalese. Quando si tratta di Islam sovviene sempre alla mente il mondo Arabo, soprattutto dopo l’11 Settembre, in quanto come religione monoteista è inoltre la seconda in Italia. Nella quantità di immigrati a livello europeo, l’Islam rappresenta una cospicua percentuale di persone. In Italia si attesta un notevole ritardo nei confronti delle politiche migratorie, per la presenza esigua e molto differenziata di stranieri rispetto ad altri Paesi europei. Il modello di politica migratoria in Francia è di matrice assimilazionista, ossia lo straniero deve diventare uguale, omologarsi all’elemento autoctono e tralasciare la propria memoria, il proprio passato identitario, quando molti autori hanno trattato dell’importanza del ricordo, dello scambio di memoria, nell’ambito del confronto tra le diversità (Ricoeur).
Il modello francese si differenzia da quello inglese che, al contrario, attribuisce un maggior potere alle comunità di immigrati, non favorendo in senso pieno l’integrazione, ma facilitando la formazione di realtà ghettizzate e rinchiuse in se stesse. In Italia una particolare novità è rappresentata dai matrimoni misti, ben 6000 coppie in Lombardia e dall’ingente presenza scolastica di stranieri nelle grandi città, con oltre il 40% degli studenti stranieri in una presenza plurale, variegata e articolata. Durante gli anni ’70 la prima Associazione di musulmani che gravitava intorno all’Università di Perugia fonda l’USMI, un’istituzione all’interno della quale gli stranieri cominciano a trovarsi e confrontarsi nell’ambito di un Paese Occidentale come l’Italia e si organizzano in progetti di tutela, di riconoscimento di diritti avanzati, in seguito, dalle istituzioni nazionali. Al seguito della spinta dell’USMI nascono diverse associazioni di immigrati: l’AMI (L’Associazione Musulmani) e il COREIS una realtà di convertiti all’Islam. La Moschea di Roma negli anni ’90 diventa un punto di riferimento per gli islamici e l’ambasciatore Scialoja rappresenta il mondo musulmano in Italia a livello ufficiale per tutte queste realtà islamiche presenti sul territorio nazionale, che transitano in dinamiche e processi di continua tensione rivolti ad accordi d’intesa con lo Stato Italiano, anche se ancora non si è giunti a comprensione e armonia, in procedure di accomodamento. L’opinionista Ferrari sostiene che senza l’11 Settembre 2001 il processo di intesa sarebbe conseguito da sé, spontaneamente.
Il centro islamico di viale Jenner a Milano non registra la presenza di convertiti e non ha rapporti con altre realtà, come la Casa della Cultura di via Padova, in cui, invece, sussiste una realtà a sé stante, senza contatti con le realtà milanesi di volontariato associazionistico islamico. In tutti questi centri il collante più che quello religioso (solo il 10%) è quello dell’opposizione politica, come in Algeria, i cui oppositori politici dovrebbero essere rifugiati all’estero, invece sono in Italia. Un’altra realtà è quella di via Quaranta che non nasce come Moschea, ma quale presenza di genitori che vogliono permettere ai propri figli di studiare secondo la tradizione musulmana, per poi tornare al paese d’origine; l’associazione è anche fornita di una sala di preghiera per il culto.
Per esempio, considerando il caso dell’Istituto di via Agnesi, questo era inizialmente legato al centro di viale Jenner che presenta una realtà molto chiusa e non annovera al suo interno la presenza di convertiti.
Il COREIS, un’associazione con un’ingente presenza di convertiti, di cui Pallavicini, che tratta anche con il Ministro Pisanu, è il presidente, risulta effettivamente ben poco rappresentativa dell’Islam immigrato. Le dinamiche di esclusione e partecipazione sono soggette ad una continua dicotomia su cui si gioca il rapporto con le comunità islamiche. L’intesa, il dialogo, il confronto pacifico, sono necessari per regolare una serie di discordie, divergenze, discrasie implicite nel dialogo con il volto dell’altro (Lévinas).
Infatti in Italia si sono presentati vari problemi e particolari esigenze, anche molto contraddittori, per esempio, la questione della Moschea di Gallarate e il caso di Reggio Emilia, per cui sono stati prestati locali adibiti alla preghiera islamica ed è stato inserito il Venerdì islamico in una scuola.
In Inghilterra vige l’idea per cui ogni comunità si deve autogestire, comportando una certa chiusura che invece è totale su un modello come il Libano. Vi sono state da parte delle comunità musulmane in Italia delle proposte di intesa con lo Stato Italiano. Lo scorso settembre 2004 sul Corriere della Sera è stato pubblicato un manifesto edito dai musulmani moderati in Italia, nel tentativo di esercitare un controllo sulle comunità islamiche tra i cui firmatari compariva l’associazione dei giovani musulmani, ossia un’emanazione dell’UCOI, che invece non ha firmato l’appello dei moderati: si assiste a nuove forme di emancipazione. Come anche l’associazione delle donne islamiche ha creato un gruppo e si sono costituite in uno statuto associazionistico per affrontare la questione di un’identità e con insite diversità (di genere ed etnia) nel confronto con i cittadini Italiani, in un continuo e assiduo dialogo con il diverso nel volto dell’altro. Dunque l’identità dell’Islam europeo risulta poliedrica, in quanto presenta innumerevoli modalità di relazione, multietniche sfaccettature di espressione, di convivenza. Il caso Agnesi ha rappresentato il tentativo di integrare delle ragazze musulmane in una scuola superiore di Milano e ha dimostrato che è importante difendere l’idea e il valore di scuola pubblica per tutti, anche con gradualità, senza settarismi. Il caso Agnesi, come sperimentazione interessante, esprime l’importanza del senso della Scuola come frontiera di dialogo, di confronto pacifico, di interscambio fra culture.



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 Laura Tussi    - 18-12-2004
ISLAM E IDENTITA’ RELIGIOSA
L’Islam tra Oriente e Occidente

Incontro con Paolo Branca presso la CASA DELLA CULTURA di Milano, ottobre 2004 per il seminario ETICA NELLO SPAZIO-MONDO

Alcuni autori musulmani si sono molto battuti per evitare che le Università soprattutto iraniane censurassero e revisionassero i testi.
Attualmente si sta configurando lo scontro tra le civiltà, un confronto di tipo valutativo, ma che in fondo è rivelatore di pregiudizio e discriminazione. Purtroppo di fronte agli attentati terroristici si finisce per scadere in posizioni di tipo essenzialista, ossia “noi siamo tolleranti, democratici, moderni, sviluppati, progrediti e gli altri sono fanatici, retrogradi, intolleranti e antidemocratici”. Sussistono ovviamente dei presupposti per cui l’Islam è una civiltà con un percorso diverso rispetto a quello occidentale, che concepisce per esempio i rapporti tra religione e politica in modo differente e alcuni musulmani, per esempio i fondamentalisti, ma non solo, sostengono l’idea di teocrazia, per cui nell’Islam il profeta dopo l’Egira realizzò a Medina una perfetta società teocratica che è un modello per tutti i musulmani fino alla fine dei tempi. Bisogna rendersi conto che quando si avvicina un’altra civiltà religiosa e un’altra tradizione culturale, occorre tener presente che gli strumenti che si usano per comunicare non sono neutri e non hanno carattere universale.
Quindi anche il linguaggio non è sempre adeguato. Gli equivoci si ingenerano ancora più laddove sussiste comunanza e vicinanza, perché le comunanze coprono le differenze, mascherandole e impedendoci di avere idee chiare. Forse è proprio il concetto di religione stesso non adeguato a definire e descrivere il fenomeno religioso dell’Islam o di qualsiasi altro credo.
Anche all’interno della stessa cristianità coesistono appartenenze differenti e lo stesso concetto di laicità presenta nella piccola Europa, differenze notevoli, anche a distanze geografiche assolutamente risibili. Sussiste una varietà di situazioni storiche, geografiche, culturali, per cui di tutte queste etichette dovremmo sentire il peso della responsabilità di usarle in modo così superficiale ed omologante. Che senso ha dire che al mondo esiste un miliardo e mezzo di musulmani quindi teocratici, quando, per esempio il Senegal, è un Paese islamico che ha avuto un presidente cattolico.
L’Islam tra le civiltà orientali è stato definito da Lévy-Strauss “l’occidente dell’oriente”, quindi tra le varie culture e tradizioni religiose dell’oriente, l’Islam è la più occidentale e la più vicina anche geograficamente e forse per questo è la più problematica per l’occidente. E’ molto più semplice essere tolleranti con chi è distante e assente… Siamo sotto un ricatto continuo dei mezzi di comunicazione di massa, che continuamente ci spingono a prendere partito e posizione d’opinione di fronte a quello che succede attualmente e a reagire così superficialmente verso problemi gravi e molto complessi, a decidere se siamo innocentisti o colpevolisti, per cui nel mezzo si apre l’enorme baratro di posizioni più serie, impegnate adversus le posizioni nelle quali invece vi è una latitanza generale e un’ignoranza spaventosa. Attualmente l’Islam fa paura, è innegabile, ma si tratta di qualcosa di fatale? Di un destino ineluttabile? Il problema che sta di fronte al mondo musulmano non è facile, presenta note difficoltà legate allo sviluppo a cui si aggiunge il peso della tradizione e la pervasività della religione. Per superare o evitare l’ostacolo sono state proposte e tentate molte formule: alcune ammettono come postulato che l’Islam sia un universo chiuso, altre implicano l’ineluttabilità dello sradicamento culturale quindi o chiusura o assimilazione ad altri modelli.
Il tentativo maggiore è quello di coloro che evitano tali posizioni estreme, tentando da oltre un secolo di realizzare una modernizzazione che non comporti né un sradicamento, né l’isolamento dai propri simili. Se l’Islam può darsi oggi un senso, di che altro si tratterà se non di realizzare una più ampia comunicazione tra gli uomini? Ogni autentico musulmano crede infatti che la sua religione si rivolge all’intero genere umano e che vale per ogni tempo e per ogni luogo. La sfida che egli lancia al mondo moderno è semplicemente quella di sperimentare i loro usi e costumi. Spesso i musulmani si trincerano dietro discorsi apologetici, dipingendoci una realtà surreale. Gli occidentali credono che la propria tradizione religiosa contenga dei grandi valori universali e quindi abbiamo una grande opportunità: dimostrare che è vero.


 Antonello    - 07-01-2005
Corriere 4/1/2005

Pubblichiamo alcuni brani del saggio di Walter Laqueur in uscita sul nuovo numero della rivista « Aspenia » . Lo studioso analizza i possibili
sbocchi del terrorismo islamico prevedendone un declino, anche se lontano nel tempo: le statistiche mostrano che negli ultimi attentati sono caduti
molti più musulmani che « infedeli » . Un dato che, secondo Laqueur, produrrà un dissenso crescente tra i fondamentalisti Ecco perché i kamikaze
uccideranno il terrorismo Fare previsioni sullo sviluppo futuro del terrorismo è ancora più
rischioso che azzardare previsioni politiche in generale. Quello che abbiamo di fronte non è un movimento di massa, bensì una costellazione di piccoli gruppi ( a volte molto piccoli) di persone: a tutt'oggi, non c'è modo di prevedere del tutto il movimento di particelle così minuscole, né nel mondo
della fisica né in quello della società umana.
Quel che è sicuro è che il terrorismo continuerà a esistere e a colpire. Oggi, l'attenzione è concentrata quasi esclusivamente sul terrorismo islamico, ma va ricordato che il fenomeno non si esaurisce qui.
Fino a meno di trent'anni fa, il terrorismo era ben altra cosa; oggi esiste una varietà di situazioni calde che potrebbero determinare azioni radicali.
E non è necessario che si tratti di grandi conflitti, in un'epoca in cui piccoli gruppi avranno accesso alle armi di distruzione di massa.
Oggi, però, è il terrorismo islamico che monopolizza la nostra attenzione e sicuramente il fenomeno è tutt'altro che esaurito. È però poco probabile che il suo attuale slancio fanatico duri per sempre: il fervore
religioso- nazionalistico conosce cali di tensione. In Egitto, ad esempio, abbiamo assistito all'esaurimento del movimento salafita: l'ammorbidirsi dei giovani radicali, l'indebolimento della loro iniziale spinta fanatica. Come tutti gli altri movimenti della storia, anche i gruppi messianici tendono a scivolare nella routine, subiscono l'avvicendarsi delle generazioni, il
cambiamento delle circostanze politiche e soprattutto gli alti e bassi, repentini o graduali che siano, del loro sentimento religioso, che può anche risentire delle vittorie o delle sconfitte del movimento. È perfino
possibile che un giorno riusciremo a trovare un qualche tipo di compromesso con l'islamismo militante; ma questo non può certamente avvenire oggi, quando è ancora così aggressivo e non ha ancora perso fiducia nella vittoria globale.
La cosa più probabile è che la spinta del terrorismo sarà indebolita dalle sconfitte che subirà. Il fanatismo, come insegna la storia, non si trasferisce facilmente da una generazione all'altra: gli attentati continueranno e alcuni avranno anche successo (forse un successo spettacolare), ma molti falliranno. Quando Alfred Nobel inventò la dinamite, molti terroristi pensarono che fosse la risposta alle loro preghiere, ma si dimostrò una speranza fallace. La fiducia riposta oggi dai terroristi nella nuova arma invincibile, gli attentati suicidi, potrebbe dimostrarsi
altrettanto illusoria. E perfino l'uso delle armi di distruzione di massa potrebbe non rivelarsi decisivo, dal punto di vista dei terroristi: forse l'effetto di quelle armi sarà meno catastrofico di quanto si prevede o,
forse, viceversa, sarà così distruttivo da diventare controproducente. Le statistiche mostrano che negli attentati terroristici dell'ultimo decennio sono caduti molti più musulmani che infedeli. E dal momento che i terroristi non operano in un vuoto pneumatico, questo dato di fatto produrrà inevitabilmente un dissenso crescente tra i seguaci. Un declino possibile ma lontano nel tempo.
È probabile, quindi, che vi saranno divisioni e fratture all'interno dei gruppi terroristici, nonostante la loro struttura non sia centralizzata.
In breve, è probabile che un fronte terrorista unito non duri a lungo. È difficile che Osama bin Laden e i suoi più stretti seguaci siano attaccati sul terreno teologico: è più facile che le critiche investano le loro scelte
tattiche. Se Osama ritiene che l'America e l'Occidente in generale siano in fase di declino, potrebbero obiettare i suoi avversari, perché non ha aspettato? Alcuni tra i principali studiosi dell'islam sostengono da tempo che l'islamismo radicale si è lasciato alle spalle da vari anni il momento di massima espansione; il suo crollo e la sua scomparsa sarebbero solo una questione di tempo e forse anche di poco tempo. È vero che le società che sono state esposte al governo dei fondamentalisti ( come l'Iran) o
all'aggressione del radicalismo islamico ( come l'Algeria) sono state in una certa misura immunizzate; ma è anche vero che in Iran, un Paese con 60
milioni di abitanti, è inevitabile trovare elementi fanatici. Ancora oggi a Teheran e in altre città iraniane vengono arruolati volontari per le missioni suicide. In ogni caso, molti Paesi non hanno ancora vissuto in
prima persona l'esperienza dell'islam radicale e fanatico e in questi casi l'imposizione della shari'ah (la legge islamica) e il ripristino del califfato possono ancora apparire come sogni auspicabili. Nel complesso, dunque, le previsioni di una prossima scomparsa di quel tipo di islamismo sono premature, anche se sono sostanzialmente corrette nel lungo periodo.
Cosa verrà dopo? Il punto è che non sappiamo cosa verrà dopo. Poco dopo la fine della seconda guerra mondiale uscì un interessante studio di Leon
Festinger su ciò che accade « quando la profezia fallisce » . Oggi abbiamo bisogno di uno studio analogo su quelle che potrebbero essere le conseguenze del venire meno del fanatismo islamico. Alcune indicazioni, però, possiamo ricavarle dalla storia delle religioni ( anche di quelle politiche), così
come dalla storia del terrorismo.
Tutto riguarda il futuro più lontano. Nel breve termine, però, il pericolo resta molto serio e potrebbe addirittura aggravarsi. Quando e dove potranno verificarsi nuovi attacchi terroristici? Non è detto che i
terroristi tenteranno di colpire nuovamente proprio quello che i loro guru ritengono il nemico più grande e pericoloso, gli Stati Uniti. Molto dipende da dove i terroristi sono comparativamente forti e ritengono che il nemico sia debole. Che le aggressioni terroristiche continuino in Medio Orien te è scontato; altre aree particolarmente vulnerabili sono l'Asia centrale e
soprattutto il Pakistan. L'Europa, teatro vulnerabile . L'Europa è probabilmente il teatro più vulnerabile. Per compiere attentati in Europa e in America, le organizzazioni terroristiche devono trovare « talenti »
particolari, che abbiano una diretta esperienza personale della vita in Occidente. La diaspora pakistana non è stata molto attiva nell'universo
terrorista, con l'eccezione di alcuni militanti in Gran Bretagna.
L'Europa occidentale è diventata, negli ultimi anni, la base logistica principale dei gruppi di supporto del terrorismo. Questo processo è stato agevolato dall'espansione delle comunità musulmane, dalle tensioni sempre più aspre con le popolazioni dei Paesi europei e dalla relativa libertà con cui gli elementi radicali hanno potuto organizzarsi, all'ombra di alcune moschee o organizzazioni culturali. All'indottrinamento hanno provveduto
elementi estremistici che sono entrati nei Paesi europei come esponenti religiosi. Dopo l' 11 settembre vi sono stati alcuni arresti e il controllo si è fatto più rigoroso, ma alla luce dei vincoli legislativi e politici cui sono sottoposti i servizi segreti europei, un'efficace azione di contrasto resta molto difficile.
I governi dell'Europa occidentale sono stati spesso accusati di non avere fatto abbastanza per integrare i nuovi migranti musulmani nelle loro società, ma l'integrazione sociale e culturale era l'ultima cosa che questi ultimi desideravano. Al contrario, volevano preservare la loro identità religiosa ed etnica e il loro stile di vita. La prima generazione di migranti desiderava, in grande maggioranza, soltanto vivere in pace e assicurare un reddito alle famiglie; ma i loro figli sono del tutto diversi e sono quasi completamente sfuggiti al controllo dei padri. Un fenomeno comune in tutto il mondo: la radicalizzazione della seconda generazione di migranti. Si tratta di una generazione apparentemente acculturata ( parla bene la lingua del Paese ospite), ma che allo stesso tempo avverte più acutamente risentimento e ostilità nei confronti del Paese di destinazione. A ispirare molti dei giovani attivisti o simpatizzanti radicali non è necessariamente la potenza del messaggio fondamentalista: è piuttosto un senso di acuto risentimento, perché - diversamente dai migranti provenienti da altre parti del mondo - sono stati penalizzati ed emarginati sia nel contesto scolastico che, spesso, in quello lavorativo. Questa sensazione di esclusione, la repressione sessuale ( un argomento tabù in questo contesto) e altri fattori ancora hanno prodotto ondate di aggressività e criminalità dirette contro le autorità del Paese ospite, ma anche contro i vicini di casa. Di conseguenza, i non musulmani hanno cominciato ad avere paura a camminare per le strade dei quartieri in cui fino a poco tempo prima si sentivano sicuri. Hanno cominciato a considerare i nuovi migranti alla stregua di elementi antisociali, decisi a cambiare l'identità e lo stesso stile di vita del Paese ospite e naturalmente le tensioni si sono inasprite.
La radicalizzazione degli immigrati è il maggiore pericolo »