Shindler e i suoi fratelli
Giuseppe Aragno - 18-12-2004
Se non avete altro da dirci, tranne che un barbaro successe a un altro barbaro sulle rive dell’Oxo e del Jaxartes, che cosa c’importa di ciò che narrate?”. Penso a Voltaire, che chiede agli storici di interrogare i fatti, mentre dalla rete filtrano atroci dettagli sull’attacco a Falluja e Gino Strada accusa: una strage nazista. Stavolta, però, dalla parte dei nazisti, insieme in un tempo aberrante, ci sono gli ebrei, sotto gli occhi nostri narcotizzati dai giorni della memoria equamente divisi tra sinistra e destra: la Shoa e le Foibe. A ciascuno il suo e su ciò resta un silenzio che non ha memoria, un silenzio a futura memoria. Cosa racconteranno i nostri figli di questo nostro tempo che non ha passato, che è un eterno presente dopo il “secolo breve”, una incomprensibile cesura? Cosa narreranno, se Luzzatto decreta che “dopo il passaggio di secolo e di millennio, non si intravede sul ring neppure più l’ombra del fascismo”, e l’antifascismo “rischia di somigliare a un pugile rimasto solo sul ring”, se tutti consentono, da destra e da sinistra e a nessuno basta il cuore per dire che il secolo della storia non nasce e non muore sui confini d’un calendario.
Rigiro inquieto tra le mani il verde intenso della copertina d’un saggio che ho appena letto e mi rassereno: Giovanni Palatucci. La scelta, le differenze, stampato da Mephite, a cura di Luigi Parente e Francesco Saverio Festa, è un lavoro attento ai tempi della storia ed ai mille perché che attraversano come fili rossi il passato e il presente.
Ricostruendo la vicenda di un commissario di polizia in servizio a Fiume tra il 1937 e il 1944, morto per mano nazista a Dachau - dov’è finito con l’accusa di “intelligenza col nemico” - e riscoperto anni dopo come “salvatore di ebrei”, il libro si propone come esempio di corretta ricerca storiografica, in grado di elaborare una risposta lucida e articolata al revisionismo storico, colto in una delle sue più insidiose e riuscite operazioni di uso pubblico della storia: il tentativo di rivalutare il fascismo attraverso il caso dei “salvatori di ebrei”. Una risposta al moltiplicarsi dei miracoli di “Shindler e i suoi fratelli”, per usare il titolo da reality show prediletto dai propagandisti di ispirazione cattolica che, a caccia di “parentele spirituali”, si perdono nella secolare tradizione apologetica e si affidano alla via sperimentata della vita dei santi e trovano consensi tra certa sinistra che, in cambio di accrediti moderati, e assoluzioni per i “colpevoli trascorsi comunisti”, accetta l’azzeramento delle analisi organiche del fascismo e lascia il campo ai Pansa di giornata.
Scelta la via del confronto – nel libro trovano ampio spazio i sostenitori del “fascismo buono” – ed affidato ai ferri del mestiere correttamente usati il compito di ricostruire la tragica esperienza di Giovanni Palatucci, il libro, nonostante l’apparente modestia del tema, va oltre le intenzioni degli autori, partiti dall’intento di contrapporre ai luoghi comuni del revisionismo la “revisione dei vecchi e nuovi luoghi comuni del discorso intorno alla storia”. Va oltre, non tanto e non solo per il contributo offerto alla “deprogrammazione” degli “eroi per forza”, che tendono a moltiplicarsi come funghi, ma perché si interroga sul fenomeno e lo collega alle posizioni assunte da quanti, partiti dalle ormai lontane riflessioni di Nolte, provano a sciogliere il grumo sanguinolente della Shoa nell’acido della “guerra civile europea”, combattuta tra nazionalismo e bolscevismo – il capitalismo intanto ha chiesto venia per sparire prudentemente dalla scena – e riducono i crimini del nazismo nei confini di una risposta poco meno che naturale ai crimini “asiatici” di Stalin. A quanti, per intenderci, riducono la storia ad una decontestualizzata “conta dei morti” nei confini euro-asiatici e fuori del tempo, sicché - in media est virtus - individuata un’area eticamente “buona” – e qui, s’intende, ricompare il liberalismo – e collocati agli estremi esterni le aberrazioni di destra e di sinistra, il problema del revisionismo italiano è quello di disegnare un volto umano del fascismo da collocare entro i confini rasserenanti del mondo liberale. Palatucci, come altri, serve a riabilitare un regime e legittimare il percorso politico dei neofascisti, che Luzzatto non vede sul ring perché sono a Palazzo Chigi ed alla Farnesina.
Viene fuori così, in luce meridiana, lo scopo essenziale della polemica sul “passato che non passa”: occorre che la cultura dell’antifascismo, spiazzata dall’avversario che non è sul quadrato, appaia superata, se non addirittura inventata, e che il fascismo, privato dei connotati della sua ferocia, assuma il volto dei Perlasca e dei Palatucci.
Ridimensionata la figura tragica e senza storia del commissario irpino – dei salvataggi in archivio non c’è traccia – il libro riconduce la questione alla sua natura storiografica ed apre brecce micidiali nella debole costruzione del fascismo “buono”. In questo senso, i saggi che lo compongono diventano tessere d’un mosaico entro il quale si compone il disegno del “fascismo reale”.
Un mosaico del quale Luigi Parente anima lo sfondo con una puntuale rilettura in chiave storiografica di Primo Levi e Giacomo Debenedetti: è la scelta metodologica, dichiarata, della letteratura della memoria come fonte storica di primaria importanza che, utilizzata in maniera appropriata, in relazione alla documentazione “classica”, non solo punta il dito contro il silenzio colpevole di Pio XII sulla tragedia del ghetto di Roma, ma individua un metodo con cui affrontare il rapporto tra l’antisemitismo di oggi e quello di ieri, tra fascismo di ieri e fascismo di oggi – Parente lo vede, è lì, ancora sul ring il fascismo sfuggito a Luzzatto – e trovare la risposta da dare ai revisionisti: il passato non passa perché manca - si vuole che manchi - un confronto sistematico tra la memoria storica del passato e la critica del presente. Così trovano spiegazione convincente non solo il caso di “Shindler e dei suoi fratelli”, ma anche il processo di beatificazione del commissario di Fiume: Palatucci è uno degli strumenti attraverso i quali la Chiesa oggi tenta di cancellare le responsabilità che il Vaticano ebbe ieri. E’ un “perché”, che conduce ad interessi estranei alla vicenda storica ed alla cultura storiografica e svela la natura evidentemente politica degli obiettivi del revisionismo. Il passato non passa perché opera nel presente e lo invade, così come il presente usa il passato per giustificare se stesso.
In questo senso è illuminante il lavoro svolto da Fabio Gentile, che si ferma sulla sostanziale scorrettezza delle tesi di Renzo De Felice sul razzismo fascista e sulle reticenze e i silenzi che nell’Italia postfascista coprono l’autonomia ideologica e la spietata durezza della legislazione razziale del fascismo e tira fuori dall’ombra il filo di una continuità che da sola basta a spiegare i mille misteri della storia repubblicana. Ancora un “perché”, quindi: perché ci ha fatto comodo e ci ha messo la coscienza in pace il mito dell’italiano “brava gente” e perché - ci piace pensare - il razzismo che abbiamo di nuovo sotto gli occhi non potrà avere esiti peggiori di quanti non ne ebbe quello teorizzato dal regime.
Una continuità che gela e fa venire voglia di capire, quando Gentile, seguendo brevemente il percorso di quanti nel luglio del 1938 firmarono il Manifesto degli scienziati razzisti, li ritrova tranquilli ai loro posti, transitati senza problemi dall’università fascista a quella repubblicana: Franco Savorgnan, titolare di Statistica, andato via nel 1949, Nicola Prede, titolare di Patologia medica, rimasto in cattedra fino al 1955, Eduardo Zavattari, cattedra di Zoologia, ritiratosi nel 1958 e Sabato Visco, Fisiologia generale, che insegnava ancora nel 1963. Con buona pace di Pansa e del sangue dei vinti, questi criminali teorici del calcolo percentuale del sangue puro, che offrirono giustificazione teorica e copertura pseudo scientifica alla progressiva e sempre più pesante persecuzione di ebrei, slavi e rom, che condusse tanti sventurati nel fumo livido dei camini di Auschwitz, al razzismo coloniale, ai gas sull’Etiopia, agli eccidi di civili e ai villaggi bruciati nelle terre slave che appoggiarono la lotta di liberazione, ai campi di concentramento che coprirono il Paese. Di essi si occupa nel libro uno “specialista” del valore di Spartaco Capogreco, che ricostruisce in un saggio lucido e documentato la storia del campo di Campagna e dell’internamento fascista nel Meridione.
Più che occuparsi di Palatucci, sul cui ruolo-non ruolo Paola Carucci e Marco Coslovich sono così espliciti e documentati, che a poco servono i modesti interventi di Francesco Barra ed Elisabetta Massera, il libro finisce così col far luce su aspetti essenziali del fascismo, tirato a viva forza fuori dalla tutela della rimozione, e sugli interessi reali che muovono il revisionismo. Dietro i vuoti di memoria, i giochi al ribasso ed il minimalismo, appare così, per dirla con i curatori del libro il volto inquietante del razzismo “che ha invaso da tempo la nostra vita nazionale con le posizioni chiaramente xenofobe dell’attuale classe politica in totale antitesi dei principi fondamentali della carta costituzionale.
Il volume si chiude con una intervista di Marco Cosulich a Ennio De Francesco, dirigente della Polizia di Stato che, alla domanda sui rapporti tra Palutucci e il fascismo, risponde invitando il lettore a interrogare la propria cosciena: cosa avrei fatto se fossi nato nel 1909 e mi fossi formato in regime fascista? Una domanda a cui un’intera generazione di giovani cresciuti, come il commissario alla scuola fascista, rispose concretamente dopo l’otto settembre, e salendo in montagna armi in pugno. Il commissario avellinese finì a Dachau molto probabilmente perché si interessò ad un ambiguo progetto su Fiume indipendente in funzione antislava, sostenuto da nazionalisti e fascisti e redatto in lingua inglese. Morì per questa scelta, che non fu certo di rottura con la Repubblica Sociale. Su questi elementi, al di là di possibili gesti di umanità e sul rispetto che gli si deve per la tragica morte, si fonda il giudizio della storia, così che Palatucci potrà diventare anche santo, ma non antifascista.
Internet mi riconduce a Falluja e torno a sentirmi sperduto: perché tutto questo? E’ amaro riconoscerlo, ma al nostro smarrito dissenso manca – e non sembra voglia nascere – persino il “nemico” col quale avere “intelligenza”. Tutti noi lo sappiamo: il campo di Dachau non è stato mai veramente chiuso. Mi vengono in mente Levi e la sua terribile domanda: "che cosa può fare ognuno di noi, perché in questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga vanificata?”.

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