breve di cronaca
Se il tormento sale in cattedra
l'Espresso - 08-12-2004
Un romanzo che finisce con il suicidio dell’insegnante. Letto da uno scrittore con un passato da professore.

Ciò che passa nell’esperienza didattica non sta sulla lavagna. E’ un flusso di impressioni preintellettuali. L’asceta in Panda non interessa più. Le mamme vengono in Mercedes.


di Mauro Covacich

Dopo aver letto il romanzo di Christophe Dufossé, “L’ultima ora” (Einaudi), la prima domanda non è: come mai un professore si è suicidato? Bensì: come mai la maggioranza dei professori decide di restare in vita? C’è un tale odore di morte e di fine irrevocabile nelle aule dell’istituto narrate in questo libro, c’è un tale senso del declino, una tale sarcastica rassegnazione da parte degli insegnanti protagonisti, che per contrarlo mi verrebbe voglia di cantare a squarciagola “Allons enfants de la Patrie”. Lo dico, essendo io un disertore della scuola e avendo, quindi, un principio di coda di paglia. Ma è davvero così brutto il mestiere dell’insegnante? E' davvero così agghiacciante il posto in cui mi trovavo a lavorare? Ora, voi direte, c’è scuola e scuola. Ci sono diversi ordini, orientamenti, sistemi che si inseguono di riforma in riforma, aggiornandosi e rendendo l’Europa un miraggio anche dal punto di vista dell’istruzione. D’accordo, però è anche vero che la scuola è sempre la scuola e che ragazzi e professori sono uguali dappertutto. Insomma, l’incubo descritto da Dufossé attiene alla realtà delle relazioni umane scaturite in classe, in una qualsiasi classe, oggi, oppure si tratta di una storia inventata i cui fatti eccezionali si spengono per fortuna all’interno dei confini di Trousseau, piccola città del nord-ovest della Francia?

E' da tre anni che non metto piede in una classe. Per me abbandonare l’insegnamento è stato un trauma, non solo per la rinuncia al mitico posto fisso, ma soprattutto perché stare a scuola mi piaceva, era il mio ambiente naturale, ci ero vissuto da sempre (dai sei ai 36 anni) e non sapevo che cosa avrebbe significato un mattino senza tutta quella gente che schiamazza davanti ai distributori delle merendine. Per me la scuola è innanzitutto energia, casino, vitalità. Per questo non riesco a riprendermi dalla lettura di Dufossé. Un giovane professore viene spinto al suicidio dalla sua classe modello. Il collega che lo sostituisce rischia a sua volta la vita in una sottile congiura che poi si trasforma nel suicidio di massa dei suoi studenti. Il romanzo è perfino bello, scritto da uno che sente come Stephen King e pensa come Michel Houellebecq, un esordiente quarantunenne che di mestiere fa l’insegnante. Il risultato è un anti “Attimo fuggente”, che manca però con il suo sguardo mortifero l’altra metà del ritratto. Perché il rapporto studente-professore, nonostante tutto, è un rapporto che nutre - che dà vita e non ne sottrae - e la scuola è ancora un ambiente euristico, forse unico per le relazioni umane.

Il fatto è che tale nutrimento scorre a un livello sotterraneo, più basso di quello della cosiddetta trasmissione dei contenuti. Livello che Dufossé ha ben colto, ma solo nel suo elemento negativo. Ciò che passa nell’esperienza didattica non sta sulla lavagna. E' un flusso di impressioni preintellettuali che circola in entrambe le direzioni. Su tutto prevale lo stare insieme, la condivisione di uno spazio chiuso all’interno del quale talvolta pare davvero miracoloso che si impari e si insegni qualcosa. Se penso alla scuola, mi vengono in mente le nuvole di sudore addensate nell’aria dopo il compito in classe di latino, mi vengono in mente le esplosioni di gioia per una battuta, per una parola sbagliata, mi vengono in mente i silenzi tesi, le teste sotto il banco prima dell’interrogazione; solo molto dopo mi arrivano i ricordi di lezioni più o meno riuscite. Eppure si esce dalla scuola, non solo più grandi, più maturi, per certi versi trasformati, ma anche e soprattutto più istruiti. Il che mi conferma nella convinzione che l’insegnamento sia una forma d’arte e che tutte le procedure tecno-scientifiche applicate dalla macchina ministeriale per codificare, misurare, verificare con tabelle e casellami il lavoro degli insegnanti, producano di fatto una sorta di inibizione normalizzatrice. Gli insegnanti italiani non stanno male come quelli del romanzo di Dufossé, intendo, non così male, ma devono comunque resistere a un avvilimento costante del loro ruolo da parte dello Stato e della società civile. È gente più colta e più povera della media, gente un tempo rispettata per quello che sapeva e ora quasi ridicolizzata da un sistema i cui codici di valutazione si sono tutti definitivamente spostati verso il portafoglio. «L’asceta in Panda non interessa più», mi diceva un mio collega, «che credibilità hanno le mie parole quando mi arrivano a ricevimento solo mamme in Bmw e Mercedes»? A questa diminuzione di credibilità viene in soccorso la spinta professionalizzante delle ultime riforme del ministero (ma quante sono state le riforme dell’istruzione negli ultimi dieci anni?). Professori iscritti a un albo professionale, professori emuli del mito vigente del professionista, professori messi a regime, garantiti dal sigillo di qualità Iso 9000. Tranquilli, non vi parlerò ora di tutte le attività sbocciate attorno agli impegni fissi dei consigli di classe, riunioni per materia, collegi docenti, scrutini, eccetera, non vi parlerò dell’approvazione del POF (Piano Offerta Formativa, una specie di piano quinquennale redatto a scopi puramente promozionali, una strana combinazione di stalinismo e mercato), no, preferisco farvi un solo esempio. Sull’onda della suddetta professionalizzazione, in un collegio docenti di qualche anno fa era emerso il problema dell’ora di 55 minuti. Il contratto di un professore prevede 18 ore di attività in classe. Durando un’ora di lezione sempre qualche minuto in meno di un’ora effettiva, come si dovevano far recuperare al professore i minuti non lavorati? Per ovviare a questo inghippo sono nati corsi riempitivi di educazione alla salute, al sesso, alla fotografia, al primo soccorso e un sacco di altre iniziative “extracurricolari” stancamente condotte dagli insegnanti e altrettanto stancamente seguite dagli studenti. Il fatto che il tempo dell’insegnamento non sia parcellizzabile, il fatto che un professore serio spenda molto più di quei 90 minuti settimanali per prepararsi, il fatto che ognuno di noi ricordi di aver compreso alcune delle nozioni più importanti in un istante folgorante, magari fuori dalla classe o in piedi davanti alla cattedra mentre gli altri stavano già mettendosi i piumini e prendendosi a cazzottoni sulle braccia e la campanella stava suonando all’impazzata, ecco questi e altri fatti piuttosto significativi non significano niente per la nuova fabbrica dei professori professionisti. Enumeri i contenuti di un’unità didattica, ne stimi la durata, la svolgi attenendoti a quella stima, verifichi la sua assimilazione da parte dei ragazzi (anzi, dei discenti), passi a un’altra unità - questo è il nuovo tecnoinsegnamento - poi esci dalla scuola e sali in Panda.

Eppure, a differenza del romanzo di Dufossé, i professori non si suicidano, né i loro studenti li spingono a farlo. Come mai? Semplice, perché quello che dà la scuola è ancora maggiore di quello che toglie, perché non esiste un luogo in cui si assista meglio alla vita nel suo farsi - e la vita ha su tutti noi, anche sui più scoraggiati, un appeal irresistibile. Stare immersi cinque ore al giorno nel marasma dell’adolescenza, assorbirne l’energia ripagandola con le proprie conoscenze, invecchiare lentamente in un vivaio che ogni anno ha la stessa età: questi sono vantaggi che solo gli insegnanti hanno e che compensano stanchezza, frustrazione, senso di ingiustizia meglio di quanto possa la migliore beauty farm.

Dufossé ha colto quel fondo animalesco, preumano, che regge i rapporti tra professore e allievi. Ha colto anche il carattere metaindividuale della classe che di fatto ne è l’essenza: ciò che la fa essere un organismo vivente superiore alla somma dei componenti e che spesso tradisce una potenza primordiale che terrorizza chi vi si immerge. Forse Dufossé ha sbagliato a utilizzare queste intuizioni come spunto per un thriller, forse poteva farne un buon saggio di psicologia sociale. Lo dico perché, secondo me, quella potenza primordiale non terrorizza soltanto, anzi. Anch’io nella mia pur breve carriera di insegnante ho ricevuto una lettera anonima. Anch’io ho avuto un allievo che si è suicidato, l’ho saputo da poco. Ricordo bene Marco I., la sua scrittura ossuta, l’horror vacui dei suoi quaderni riempiti dal primo all’ultimo quadratino. Ma più del suo ricordo, mi colpisce che Riccardo Z. mi abbia scritto un’email per dirmi che Marco I. si è ucciso. Mi colpisce che Riccardo Z. e i suoi compagni, dopo quasi dieci anni, abbiano cercato il loro supplente per condividere con lui il lutto dei vivi per i morti. Ecco, a proposito di potenza primordiale, questo mi colpisce e mi rende felice.

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