Le donne, ad opera del Ministero del lavoro, sono diventate categoria di svantaggio sociale.
È questo il risultato di recenti interventi normativi sui nuovi contratti di inserimento. E pensare che, della riforma del mercato del lavoro iniziata lo scorso anno, il contratto di inserimento è la tipologia meno contestata, destinata a raccogliere l'eredità dei contratti di formazione e lavoro, pur discostandosene per la netta - quasi totale - riduzione della componente formativa.
Questi contratti sono finalizzati all'inserimento o reinserimento lavorativo di una serie di soggetti svantaggiati; tra cui i giovani, i disabili e anche le donne, ma solo quelle che sono residenti nelle aree del paese a forte squilibrio occupazionale.
Cosa è successo in questi giorni? Il ministero ha scelto di far corrispondere le “aree” alle “regioni”.
Grazie a questo accorpamento per grande area territoriale, è stato possibile rilevare una significativa - superiore a quel 20% previsto dalla legge - differenza nel tasso occupazionale di donne e di uomini in tutte le regioni italiane. Questo significa che, se per rispettare i rigorosi divieti comunitari sugli aiuti di Stato, solo nelle regioni (centro-)meridionali - dove la percentuale di differenza è molto più elevata - sono concessi anche gli sgravi contributivi ai datori di lavoro, da ora in poi il contratto di inserimento può essere stipulato in tutto il territorio nazionale con le donne, donne in quanto tali, bastando appartenere al genere per essere assunte con un contratto che, non solo è di durata determinata (da 9 a 18 mesi), ma prevede anche il sottoinquadramento retributivo fino a due livelli.
Non credo che ci potessimo aspettare una tale deriva. Non potevamo aspettarci che le donne in quanto tali potessero essere considerate categorie di svantaggio sociale! Né, soprattutto, che si finisse per ritorcere contro le donne quegli strumenti positivi della promozione della parità di opportunità costruiti finora. Il tutto puntando a un incremento di occupazione. E che importa se si tratta di lavoro instabile? Ciò che conta è solo l'obiettivo dell'aumento della percentuale di occupati, anche nelle occupazioni precarie, dove il problema non è solo quello della durata limitata e della impossibilità di impostare progetti di vita, ma anche quello della impossibilità concreta di esercitare diritti, pur formalmente riconosciuti.
E che importa se si tratta di lavoro sottopagato? Eppure nella Carta Costituzionale è scritto il vincolo costituzionale della parità di diritti e di retribuzione tra donne e uomini. Non è la prima volta che ci troviamo davanti a un esempio di “salario di ingresso”, ma finora era riservato ai giovani, proprio in quanto categoria di transizione. Le donne si potrebbero trovare di fronte a questo contratto ogni volta che vengono assunte, si tratti di nuovo ingresso nel mondo del lavoro, di reingresso, di mobilità da un posto di lavoro a un altro.
Quella che si sta realizzando è una ferita gravissima, per di più spacciata per notizia positiva, in quanto può consentire incremento dell'occupazione femminile. Si tratta di quelle, tante, operazioni di manipolazione che, pur nella loro costante ricorrenza, continuano e devono continuare ad indignarci profondamente e a farci reagire.
Il rischio è che il prezzo sia altissimo e che si realizzi in un contesto pericoloso in cui già si sta assistendo all'abbandono dei principi del diritto del lavoro e al passaggio a mere tecniche e politiche occupazionali, di una occupazione purché sia.
Finora, la situazione per le donne poteva essere descritta come caratterizzata da fortissime ambivalenze, con le donne stressate, in senso proprio, tra piena affermazione di conquiste realizzate e subdola attrazione all'interno del focolare domestico, impegnate nella soluzione del calo demografico e nella cura della famiglia.
Ora si apre un disastroso paradosso dentro al paradigma dell'uguaglianza: per innalzare l'occupazione femminile viene messa a disposizione una tipologia contrattuale di basso profilo formativo, di durata determinata e senza parità retributiva mediante la quale si può procedere da ora in avanti alla assunzione di qualsiasi donna in qualsiasi area del Paese, a prescindere dall'età, dalla formazione, dall'esperienza.
Dal linguaggio del sogno, della democrazia compiuta, della partecipazione equilibrata ad una nuova brutale realtà: la differenza del tasso di occupazione tra donne e uomini diventa fonte di autorizzazione per trattamenti normativi ed economici peggiorativi, in violazione dei principi costituzionali.
Donata Gottardi (
Diritto del Lavoro Università di Verona)