La scuola di Bush e le due Americhe
Pino Patroncini - 18-11-2004
Non si può dire che il tema della scuola e dell’educazione in genere sia stato al centro del confronto elettorale americano. Se si andava al sito dell’ambasciata americana di Roma alla voce Elezioni 2004 si potevano trovare due riassunti esaustivi dei programmi elettorali dei due candidati, ma è significativo che i titoli che comparivano come temi del confronto riguardassero l’Iraq, il terrorismo, il Medio Oriente, gli “stati canaglia” ( in sigla WMD = world most dangerous, countries sottinteso), il ruolo degli USA nel Mediterraneo, il commercio, la salute, la sicurezza, l’immigrazione, l’economia. Ma non l’educazione.
Questo tuttavia non vuole dire che l’educazione sia stato un tema assente dalla competizione. Solo che non è stato presente come in campagne passate o in campagne minori. Tra queste ultime vale la pena di ricordare la recente sfida tra Rudolph Giuliani e Hillary Clinton per il seggio senatoriale di New York giocata con molte polemiche sulla proposta repubblicana del buono-scuola e sulla contrapposizione tra valutazione degli insegnanti (Giuliani) e valutazione della scuola (Clinton).
Indubbiamente ha pesato sulla marginalità del tema, non solo l’attualità e la spettacolarità degli altri, ma anche il fatto che, dopo le aspre e a quanto pare vincenti polemiche dei senatori democratici Kennedy e Libermann contro la promozione repubblicana dei buoni-scuola, il tema scolastico è stato oggetto di appeasement e di scelte politiche bipartisan con l’appoggio democratico al piano governativo noto come “No child left behind”.
Date queste premesse la posizione democratica in merito è apparsa depotenziata. E’ stata limitata a una generica promessa di maggiori finanziamenti, in particolare per garantire i fondi per il progetto “No child left behind” in tutte le scuole, supportando l’istituzione di scuole più piccole, di scuole femminili centrate su matematica e scienze, e delle cosiddette scuole “charter”, con in più solo la richiesta dell’apertura del doposcuola per 3 milioni e mezzo di bambini.
Altro punto qualificante del piano democratico: garantire a ogni classe un “great teacher”, un superprofessore, implementando opportunità di aggiornamento e di sviluppo professionale, creando test più rigorosi per il reclutamento dei nuovi insegnanti, prevedendo stipendi più alti per i docenti con competenze extra e che eccellono nell’aiuto all’apprendimento degli allievi, assicurando procedure rapide per la rimozione dei docenti che non lavorano bene, ma prevenendo anche ogni arbitrio in merito (sic!).
Oggi in America 3 alunni su 10 non si laureano, rilevano i democratici, e tra ispanici, afroamericani e nativi la quota è uno su due. Kerry ed Edwards promettevano percorsi di laurea più abbordabili, più tutoraggio e più orientamento, la riduzione del numero di alunni per scuola, e il rafforzamento del curriculum dell’high school sicché gli alunni possano uscirne con un diploma più significativo.

La scuola di Bush

Al contrario Bush, a cui era stata offerta l’occasione di un progetto bipartisan sulla scuola, non poteva non farsi forte di questo fatto come una conquista del suo governo precedente ed una testimonianza di non faziosità. Ma è significativo che il capitolo sulla scuola nel suo programma si intitolasse “Costruire una forza lavoro altamente competente”. Mentre un altro capitolo era dedicato al problema della droga nella scuola e alla promessa di fondi per aiutare gli studenti a resistere alla tentazione di drogarsi e per aiutare i genitori ad intervenire.
Le promesse che ora Bush deve mantenere spaziano dalla prima infanzia all’università. La prima infanzia è considerata come decisiva per assicurare abitudini alla vita scolastica e per il successo scolastico. In merito l’idea è di rafforzare alcuni programmi dai titoli banali ma suggestivi come “Head start, grow smart” o “Reach out and read”. Il primo è un programma di educazione prescolastica concepita come parte di una cura pediatrica primaria (sic!), il secondo è centrato su competenze precoci di alfabetizzazione e di matematica per bimbi e famiglie. In quest’opera Bush pensa anche di coinvolgere “organizzazioni comunitarie o di fede”.
Per la scuola secondaria superiore l’obiettivo principale è implementare la valutazione delle competenze, soprattutto in alfabetizzazione e matematica, a cui andranno destinati 250 milioni di dollari.
Per il successo scolastico si pensa allo stanziamento di una serie di fondi: 200 milioni di dollari da devolversi agli stati per sostenere più ardite verifiche , 200 milioni di dollari annui per sostenere i progetti di alfabetizzazione, 269 milioni per espandere la partnership di formazione dei docenti di matematica e scienze, un incremento di 28 milioni di dollari per i corsi avanzati, 100 milioni di dollari per trasformare l’educazione professionale in un’educazione secondaria tecnica con un’offerta formativa che preveda come parte del curriculum quattro anni di lingua inglese, tre anni di matematica e scienze, e tre anni e mezzo di studi sociali.
Per gli insegnanti il programma di Bush promette un incentivo per gli stati e per le scuole volto a remunerare i docenti i cui alunni ottengono i risultati migliori. Promette di portare da 4.000 a 17.500 dollari il fondo per la restituzione dei prestiti utilizzati per l’alta qualificazione dei docenti in matematica, scienze e insegnamenti speciali. E promette di costruire un corpo di docenti aggiunti con compiti di assistenza o di supplenza, per il quale prevede uno stanziamento di 40 milioni di dollari.
Per l’educazione post secondaria la promessa ruota intorno all’aumento dei finanziamenti per borse di studio o comunque lavori parauniversitari o per la restituzione dei prestiti d’onore.
L’ultimo paragrafo del programma scolastico repubblicano è dedicato all’educazione lungo tutto l’arco della vita e all’apprendistato, riformando l’apprendistato al fine di raddoppiare il numero degli apprendisti, eliminando le restrizioni degli studenti a part-time nell’accesso ai sussidi federali, permettendo che i prestiti servano anche a frequentare i corsi brevi, definendo programmi per la certificazione di competenze e di crediti scolastici, premiando coloro che si laureano in anticipo, aumentando il numero degli studenti che fanno uso dell’e-learning, incrementando l’alfabetizzazione degli adulti, finanziando i lavoratori sia per corsi che servano al rientro al lavoro, ma anche per soluzioni organizzative come la cura dei figli o i trasporti.

Un’America e l’altra

Ma se la scuola non è stato un tema molto dibattuto lo spaccato degli Stati Uniti che è uscito da queste elezioni alle soglie della società della conoscenza ha un rilievo eccezionale sul piano della cultura perchè mette in luce in maniera netta due culture diverse che caratterizzano la società americana. Per questo il voto merita una riflessione anche su un sito dove si parla di scuola.
Si è parlato molto di un voto che ha spezzato i vecchi gruppi elettorali, prevalentemente e forse troppo frettolosamente catalogati intorno alle razze ( neri e ispanici democratici, bianchi e anglosassoni repubblicani), alle religioni (cattolici democratici, protestanti repubblicani), alle classi sociali (operai democratici, classe media repubblicana).
Ma ha messo in luce un’altra divisione: quella tra città e campagna. Mai come in questa elezione l’attributo di Grand Ole Party del partito repubblicano, con le sue radici “western”, è apparso azzeccato. Come la Grand Ole Opry, tempio della musica country, che sta a Nashville nel Tennessee. Sul sito della catena televisiva Cnn, i voti erano siglati Dem e Gop, anzichè Dem e Rep e ha avuto una splendida intuizione chi ha detto che il country ha battuto il rock, che si era mobilitato per Kerry.
E’ stato soprattutto il “vecchio West”, più che la cosiddetta “Bible belt” collocata un po’ più a Est, che ha determinato la vittoria di Bush. Non si tratta di stati popolosi, ma sono molti, 19 su 31 presi dal candidato repubblicano, e in questi fa impressione lo scarto tra presidente e sfidante, che è altissimo: 60, 70 e anche 80% a favore di Bush. Ci sono stati come l’Utah e il Nebraska dove Bush vince in tutte le contee, o come i due Dakota, il Montana, l’Arizona dove Kerry vince solo nelle riserve indiane o nelle contee abitate da maggioranze ispanofone lungo la frontiera messicana.
In nessuno dei 20 stati dove vince Kerry vi sono scarti simili. Tranne che in uno: il Dipartimento di Columbia, vale a dire la capitale, Washington. Qui Bush deve sentirsi un po’ accerchiato: Kerry ha ben il 90%. Allo stesso modo Kerry vince in quasi tutte le capitali di stato, sia degli stati aggiudicati ai democratici che a quelli repubblicani, compresa Austin capitale della patria texana di Bush. Fanno eccezione solo poche capitali dell’ovest come, ad esempio, Salt Lake City nello Utah, mormona e da sempre repubblicana. Tra le tante cose dette a proposito dei partiti americani se ne potrebbe dedurre una definizione del Partito Democratico come partito del pubblico impiego, cosa non peregrina se si pensa all’alta sindacalizzazione del pubblico impiego americano e all’inclinazione dei sindacati per i democratici.
E il voto di Kerry è ben localizzato dentro alcune ben caratterizzate continuità territoriali: a parte le Hawaii, Kerry prende gli stati della costa occidentale, quelli del New England e quelli intorno ai Grandi Laghi. Gli stati più industrializzati, con grandi concentrazioni metropolitane e con più alta densità. Ma le cartine colorate di rosso (repubblicani) e di blu (democratici) che hanno costituito lo sfondo degli studi televisivi in questi giorni rendono poco il senso della divisione che ha attraversato il paese in questa contesa. Servono di più a questo scopo le cartine che suddividono gli Stati Uniti in contee. Se si confronta una di queste cartine con una foto satellitare notturna degli Stati Uniti (lo ha fatto un sito americano) non si ha difficoltà vedere la coincidenza quasi piena del voto di Kerry con gli ammassi di luce degli agglomerati urbani e quella di Bush con le parti più scure e con un’oscurità ancor maggiore oltre quella linea immaginaria, un po’ più a ovest del corso del Missisippi, che da sud a nord taglia in due il paese e che unisce Houston, Dallas, Oklahoma City, Wichita, Omaha e Minneapolis, quasi fossero ancora gli ultimi avamposti prima della grande e deserta prateria del Far West.
Dalle cartine del voto per contea scopriamo dunque due cose. La prima è che Kerry vince in quasi tutte le grandi città e soprattutto nei grandi agglomerati metropolitani: non solo a New York, Boston, Chicago, Milwaukee, Minneapolis, Detroit, Los Angeles, San Francisco, Seattle, che sono negli stati attribuiti ai democratici, ma anche a Cleveland e Akron nell’Ohio e nelle città del sud come Atlanta, New Orleans, Miami, Savannah, Richmond, Memphis, Nashville, a Saint Louis, a Kansas City, nelle texane Dallas e San Antonio, a Denver e persino nella peccaminosa Las Vegas. Tra grandi aree metropolitane solo Phoenix, Houston e Cincinnati sono le uniche eccezioni a favore dei repubblicani
Ma non appena si esce dalle città, anche negli stati aggiudicati a Kerry, e questa è la seconda scoperta, il voto cambia e progressivamente, inizia a prevalere Bush. Questo non avviene nel New England vero e proprio perchè lì il territorio è stretto, ma basta vedere il voto delle contee del più ampio stato di New York o della Pennsylvania o dell’entroterra californiano per accorgersene.

Cosmopolitismo o tradizionalismo.

Due Americhe dunque. Una è quella moderna, cosmopolita della Grande Mela, aperta e, se non pacifista, non disponibile a uno stato di guerra e di paura permanente, sufficientemente consapevole dei rischi ma anche dei vantaggi o almeno della inevitabilità della multiculturalità.
L’altra è quella più tradizionalista in cerca di una identità che trova nel suo presente, ma soprattutto nel suo passato, incurante del fatto che a stadi successivi questo passato ha proceduto a sempre ulteriori integrazioni. Per cui oggi questo tradizionalismo ingloba l’afroamericano che non inglobava cinquant’anni fa, l’ispanico che non inglobava vent’anni fa, l’italiano o l’ebreo che non inglobava cento anni fa. Li ingloba e ne è anche condivisa, a certi livelli, con sorpresa dei commentatori che denunciano l’abbandono di Kerry da parte di afroamericani e ispanofoni.
E’ una identità che come spesso succede si caratterizza per negazione. Ha bisogno di un nemico. Ieri era “l’impero del male” sovietico, oggi è il terrorismo, a cui assimila tutti i fenomeni di conflitto violento in una improbabile internazionale del terrore, che fa tesoro di approssimazioni e sospetti per tutto ciò che è diverso.
E’ dai tempi della Guerra di Secessione che l’America non registrava una simile diversità e così marcata territorialmente. Anche allora tra le due Americhe non c’era solo la questione della schiavitù. C’era una diversa mentalità. In realtà allora si scontrarono coloro che prevedevano per gli Stati Uniti un futuro essenzialmente agricolo e chi prevedeva uno sviluppo industriale. Industriali contro piantatori, “ferrovieri” contro “battellieri”, l’asse commerciale S. Francisco-Chicago-NewYork contro l’asse commerciale S. Francisco-St. Louis-New Orleans. Il Nord e la California erano per la via industriale e il Sud era per la via agricola. Il West, unico vasto e spopolato territorio, non ancora assurto alla dignità di stato, era praticamente neutrale.
Oggi la divisione geografica, stato più, stato meno, è quasi la stessa. Ma le parti sono rovesciate. i repubblicani non più partito del Nord e delle città, ma del Sud e dell’Ovest e i democratici non più partito del Sud e delle campagne, ma del Nord e delle città. Ma il Nord e la California sono non più maggioranza dell’Unione.
Sarebbe però anacronistico concepire in termini tradizionali questa divisione tra città e campagna. L’America del duemila non è l’Europa dell’ottocento, non si tratta dell’arretratezza economica. Né tanto meno si tratta dell’arretratezza culturale: scuola e mass-media sono ovunque. Né il West di oggi è quello dei pionieri e degli indiani.
Ciò che non è ovunque è la quotidianità delle convivenze e dei conflitti che generano i problemi ma anche la cultura per affrontarli. Non solo la guerra in Iraq o il terrorismo, ma la nuova immigrazione, la delinquenza, i diversi comportamenti sessuali.
E’ ovunque invece la paura, che gli stessi conflitti generano e a cui l’11 settembre ha dato una materialità spettacolare. Paradossalmente il collegio di Manhattan dove è avvenuto l’attacco vota contro Bush, ma la più sperduta e lontana località del West gli dà percentuali bulgare.
E questa paura è tanto più ingovernabile razionalmente quanto più è distante dalla quotidianità reale. La metodologia del “problem solving” che proprio gli americani pretendono di avere inventato mostra proprio qui i suoi limiti. Dove il problema non c’è perché non è ancora arrivato, dove se ne è solo sentito parlare o lo si è visto in tv, dove si ha solo paura che arrivi, non si cerca di risolverlo. Si cerca di evitarlo, di prevenirlo.
Perché stupirsi dunque che la cultura della guerra preventiva abbia presa proprio laddove il problema è, appunto, prevenire? Certo in un’America rurale che noi conosciamo solo attraverso il film western lo stereotipo della soluzione dei problemi può essere il John Wayne di “Sentieri selvaggi”. Ma questa ne è l’espressione culturale, enfatizzata dalle origini texane di Bush, non la causa.
E non è una novità americana: è così che è nato il nazismo in Germania. Non dalle classi sociali più toccate dalla crisi, ma da quelle che temevano che prima o poi sarebbe toccato anche a loro: c’è tutta una teoria sulla fascistizzazione dell’Europa tra le due guerre, come controrivoluzione preventiva, appunto.
Allo stesso modo c’entrano solo fino a un certo punto i predicatori televisivi delle chiese protestanti, che certo sono espressione del “movimento” pro-Bush, ne dinamizzano la scena, magari ne costituiscono i leader locali, ma da soli non farebbero egemonia.
Certo nell’America profonda è anche possibile che l’estrema autonomia si traduca in poteri locali, amministrativi ma anche ideologici, più forti e assoluti di quanto non sia il potere centrale. Anche in questo caso il cinema ce ne ha offerto gli stereotipi da “E l’uomo creò Satana” a “Foootloose”. Ma è riduttivo pensare a tutti gli Stati Uniti come a una grande “Bible Belt”. La “Bible Belt” è nel Middle West. Non spiega né il voto democratico della sudista Little Rock, nè il voto repubblicano delle campagne della Pennsylvania, dove forse i centri agricoli sono meno delle città satelliti di Filadelfia e di Pittsburgh. Per continuare a dirla col cinema credo che oltre alle sacche di ignoranza e di fondamentalismo religioso, oltre alle sacche dei manipolati dall’allarmismo televisivo, e di quelli ingozzati dai troppi western visti, oltre ai droghieri o agli agricoltori insofferenti delle tasse, senza dimenticare i petrolieri, l’elettore che ha fatto vincere Bush assomigli più che al reverendo fondamentalista di “Footloose”, al giovane coscritto dell’Oklahoma di “Hair”, che solo transitando per New York scopre “l’altra America” degli hippies renitenti alla leva del Vietnam.
Quello che è certo è che dopo questo voto, che ha visto perdere il cosmopolitismo e vincere il tradizionalismo, il soldato americano che “esporta la democrazia nel mondo” , con buona pace del Maurizio Ferrara di turno, sembra avere sempre meno a che spartire col soldato che nel ’45 distribuiva tavolette di cioccolato e sigarette dalla torretta del suo Sherman e che sembrò così sorprendentemente generoso e cosmopolita ai nostri genitori o ai nostri nonni a loro volta così provinciali.


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 Aldo Quagliozzi    - 18-11-2004
Or che il ventre molle e debordante dell’America opulenta ha emanato il suo spaventevole borborigma con un incontrovertibile risultato elettorale per il piccolo Bush, or che la colomba di quel governo ha deciso di prendere il volo umiliata come fu allorquando, come un imbonitore di strada qualunque, cercò di vendere la sua falsa mercanzia al mondo intero attonito, a chi mai potrà essere indirizzata la lettera che Thimoty Garton Ash indirizzò ai ‘ Cari amici americani, così vinceremo il male ‘ nel giorno della triste ricorrenza del terzo anniversario delle Torri gemelle?
Scriveva allora Ash, sorretto come tanti da una speranza di cambiamento che l’America si preparasse quasi a celebrare:

“ Amici americani, non abbiamo dimenticato. Non dimenticheremo mai. Tutti sappiamo dove eravamo nel momento in cui apprendemmo degli attacchi contro le Twin Towers.
A darmi per prima la notizia fu una donna francese. Ricordo le sue parole balbettate di smarrimento e immediata solidarietà.
Quella solidarietà tra Europa ed America, le torri gemelle dell´Occidente storico, durò 3 mesi, il tempo di costringere al Qaeda alla ritirata in Afghanistan.
Ma che fine ha fatto tre anni dopo l´11 settembre? Non è andata perduta per sempre, è in attesa di emergere. È in attesa dell´America che le consentirà di riemergere. Quell´America che diede nuova prova del suo grande cuore dopo l´11 settembre.
( … ) Un recente sondaggio internazionale mostra che gran parte del mondo auspica in larga misura la vittoria di Kerry.
Se qualche americano ipotizza che ciò vada a detrimento del candidato democratico, se i cittadini Usa giudicano negativo il fatto che il leader del loro paese goda di popolarità all´estero, posso solo concluderne che lo shock degli attacchi dell´11 settembre li ha portati a non ragionare più. È un risultato che Osama bin Laden, se ancora è vivo, festeggerà ( … ).
La grande disputa interna all´occidente non riguarda il fine, bensì i mezzi. Non si discute il se, ma il come sconfiggere il male umano che ha fatto mostra di sé a New York l´11 settembre 2001, negli attentati di Madrid l´11 marzo 2004 e nella strage degli innocenti a Beslan la settimana scorsa.
( … ) Tre anni dopo, l´occidente è diviso a grandi linee in due fazioni: metà degli americani e circa quattro quinti degli europei contro un quinto circa degli europei schierato con l´altra metà degli americani. In questo caso la maggioranza è nel giusto.
Permettetemi tuttavia, da europeo, una forte autocritica. A volte non basta essere intelligenti, acuti, colti, tolleranti, ragionevoli e comprensivi. A volte, se dobbiamo difendere la tolleranza, la ragione, la cultura e la comprensione, dobbiamo essere fieri, militanti e pronti ad una lotta sanguinosa. Dobbiamo combattere.
Nella guerra al terrorismo l´amministrazione Bush ha tenuto una condotta energica, un aggettivo che il presidente ama ripetere e esaltare. Ma non una condotta saggia.
L´appoggio incondizionato ad Ariel Sharon nel conflitto israelo-palestinese e la scelta di Washington di entrare in guerra contro l´Iraq adducendo a motivo la ricerca di armi di distruzione di massa inesistenti, con una preparazione assolutamente insufficiente all´occupazione post-bellica, due politiche folli, hanno alienato ovunque l´opinione pubblica moderata musulmana, hanno messo l´Europa contro l´America, intensificato la minaccia terroristica nei confronti di noi tutti e reso gli Usa più invisi che mai in quasi ogni angolo del mondo.
Per vincere questa battaglia insieme, come abbiamo fatto per due guerre mondiali e per la guerra fredda, dobbiamo essere sia energici che saggi. Significa ammettere che questa è una guerra che la guerra non può vincere. Ovviamente la forza militare serve, ma l´amministrazione Bush sopravvaluta ampiamente la misura in cui la schiacciante superiorità militare degli Usa può contribuire alla vittoria.
Dato che ha in mano un martello gigantesco, Washington tende a vedere tutti i problemi sotto forma di chiodo.
Purtroppo il terrorismo non è un chiodo. È più simile ad un fungo sotterraneo che si diffonde invisibile per chilometri per poi rispuntare all´improvviso in un luogo diverso.
Mi allarma il livello di militarizzazione assunto dalla retorica politica negli Usa nei tre anni successivi alla Pearl Harbor di questo secolo. Troppo spesso il paese pare indulgere nel compiacimento dell´eroe ritto in tutta la sua statura, ma anche in tutta la sua solitudine, come Gary Cooper in Mezzogiorno di Fuoco.
Ma, come disse Churchill, c´è solo una cosa peggiore del combattere una guerra con degli alleati, ed è combatterla senza di loro.
Il terrorismo non ha mai scusanti, ma spesso ha delle spiegazioni. Le spiegazioni indicano delle cause.
Se mai avremo un´opportunità di vincere questa guerra sarà solo affrontando le cause economiche e politiche del terrorismo, al pari del terrorismo in sé.
Non esiste solo il "terrore" o il "terrorismo". Ci sono vari terrorismi, tra loro assai differenti. Quello che i terroristi ceceni hanno fatto ai bambini della scuola numero 1 di Beslan è una delle azioni più malvagie che un essere umano possa compiere contro un suo simile.
Riflettere sulle cause politiche (come ad esempio la brutalità e stupidità della politica russa nei confronti della Cecenia nell´ultimo decennio) e su come sia possibile eliminarle, non è un atteggiamento debole o conciliante, come ribadiscono i demagoghi della destra americana.
È semplice buon senso: quel genere di buon senso che gli Usa hanno dimostrato incoraggiando i negoziati politici con i rappresentanti dell´esercito di liberazione del Kosovo, dell´esercito di liberazione nazionale albanese-macedone e dell´Irish Republican Army, i quali utilizzavano tutti il terrorismo per realizzare i loro limitati obiettivi politici.
Analogamente, non c´è giustificazione all´omicidio di civili israeliani innocenti per mano di terroristi suicidi palestinesi. Nessuna. Mai. Ma i loro atti hanno delle cause e se vogliamo vincere la guerra contro il terrorismo dobbiamo eliminare queste cause. Dobbiamo essere energici, ma anche saggi. Attualmente l´Europa ha bisogno di un po´ di vigore in più, l´America di un po´ più di saggezza.
Quindi, amici americani, siamo nella stessa barca e noi europei guardiamo a voi. Non abbiamo dimenticato; non dimenticheremo mai. La solidarietà europea nei confronti degli Usa dopo gli attacchi dell´11 settembre fu spontanea e immensa. È stata sciupata, e la colpa giace su entrambe le sponde dell´Atlantico.
Dopo tre anni, non sono certo al cento per cento di chi stia vincendo la più recente battaglia per difendere la nostra imperfetta ma preziosa libertà.
Abbiamo ottenuto qualche successo, ma Osama Bin Laden, se è ancora vivo, avrà anch´egli motivo di festeggiare - soprattutto per aver provocato la reazione esagerata, goffa e disastrosa degli americani in Iraq.
Non ho dubbi tuttavia che alla fine saremo noi a vincere, se collaboreremo, combinando saggezza e vigore. Mostrateci il volto di quell´altra America e noi vi saremo accanto. “