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Un disastro mondiale la guerra di Bush
Aldo Quagliozzi - 17-11-2004
Joseph E. Stiglitz è stato premio Nobel per l'Economia nel 2001. Studioso prestato alla politica durante la prima presidenza Clinton, come capo dei consiglieri economici e, dal 1997 al 2000 vicepresidente della Banca Mondiale, è tornato a insegnare alla Columbia University.

Dopo le dimissioni dalla Banca Mondiale lei, fatto raro se non unico, si è preso l'agio di rimettere i panni di studioso e analizzare in modo critico le strategie che lei stesso aveva caldeggiato. Perché?

La tesi, che espongo ( … ), è che al centro di un'economia di successo c'è, sì, il mercato. Ma il mercato da solo non risolve tutti i problemi: ci vuole la politica, ci vuole il governo. E anche durante l'amministrazione Clinton non abbiamo mantenuto abbastanza questo equilibrio. Ecco perché, dopo la recessione, la ripresa economica ancora tarda.

In seno alla Banca Mondiale ha caldeggiato la cancellazione del debito ai paesi in via di sviluppo. La caldeggia tuttora?

Sì, soprattutto per i paesi più poveri. È difficile sostenere una crescita economica senza la cancellazione del debito. Ed è anche una questione morale: prendiamo i crediti concessi a Mobutu, in Congo. Si sapeva benissimo che i soldi finivano sui suoi conti personali in Svizzera, pure quei crediti servivano a comprare un alleato fedele durante la Guerra Fredda. È giusto che oggi sia il suo popolo a pagare per lui? Ora si parla di cancellazione del debito iracheno, ma a me sembra che ci siano paesi più poveri, come la Nigeria, che di questo hanno maggiore bisogno. Uno dei temi che mi stanno a cuore è questo: dopo la Guerra Fredda abbiamo avuto un'opportunità enorme di ridefinire le relazioni internazionali, anche economiche, sulla base di nuovi valori. Per quarant'anni era valso il principio "il nemico del mio nemico è mio amico", ed erano stati nostri amici governanti tremendi come Mobutu e Pinochet. Avevamo una possibilità: ridefinire l'ordine economico basandolo non sulla minaccia, ma sul sostegno alla crescita. E non l'abbiamo fatto.

Sotto questo profilo, l'Iraq cosa le dice?

Dimostra il pericolo insito nell'unilateralismo. È una colpa che ha radici già negli anni Novanta: nel '97-98, durante la crisi asiatica, noi impedimmo al Giappone di creare un Fondo monetario asiatico, come sponda ai paesi del Sud Est in crisi. Avevamo paura che crescesse, in quell'area, l'influenza giapponese a discapito della nostra. Con l'Iraq Bush ha portato questa logica alle conseguenze più devastanti.
Invece di un nuovo modello di realazioni internazionali negli ultimi anni gli Usa hanno esportato una nuova variante del rapporto tra mercato e politica: l'intreccio perverso tra controllori e controllati.

Lei accusa la Sec, l'organismo che ha il compito di salvaguardare i piccoli investitori, di "incompetenza e mancanza di impegno". E scende nel dettaglio dello scandalo scoppiato nei mesi successivi all'11 settembre intorno alla figura di Richard Grasso, il presidente della Borsa di New York. Perché è così significativo?

Grasso ha chiesto una gratifica di cinque milioni di dollari per aver rimesso rapidamente in funzione la Borsa dopo l'11 settembre. Cosa che rientrava nei suoi precisi doveri. E fatto particolarmente odioso se si pensa a tutti i vigili del fuoco e i poliziotti morti quel giorno, mentre erano in servizio. Fatto particolarmente sgradevole è quello dell'autoregolamentazione: la Borsa di New York non è solo un luogo di contrattazione, fa parte del sistema di autoregolamentazione del mercato azionario. Se alcune aziende e operatori contribuiscono a pagare lautamente il Presidente, cioè il regolatore, quali garanzie ci saranno sulla sua equità? Ecco una vicenda lampante, e particolarmente odiosa, di conflitto di interessi, dove un governo dovrebbe intervenire.

Tra i suoi obiettivi polemici, c'è il taglio delle tasse voluto da Bush. Perché?

Un taglio alle tasse ben progettato può sostenere la crescita economica. Ma bisogna tagliarle ai più disagiati, perché sono loro che, se aiutati, spendono. Così come spendono i pubblici servizi, scuole e sanità, se sono messi in condizione di poterlo fare, perché sono perennemente affamati di fondi. Questa amministrazione, invece, ha tagliato le tasse ai ricchi. Così non ha stimolato l'economia e ha aumentato il deficit. Noi avevamo cercato di massimizzare lo stimolo per dollaro, Bush l'ha fatto precipitare.

Ci sono analogie impressionanti con le politiche dell'attuale governo italiano.

… un anno fa, tutti pensavano che si trattasse di un problema americano. Poi, dopo Enron da noi, ecco scoppiare in Europa i casi Vivendi e Parmalat. Bush purtroppo dà un pessimo esempio. La famiglia media americana dal 2000 ha perso 1.500 dollari annui di reddito e ha visto crescere il costo delle assicurazioni sanitarie del 50% . Sta peggio, è più povera. E così sarà nei paesi che ci imitano.

Da un punto di vista economico, la guerra in Iraq per gli Usa si sta dimostrando un buon affare?

È difficile per chiunque capire perché siamo lì. Armi di distruzione di massa non ce n'erano, con evidenza. Non è stato dimostrato il legame tra Saddam Hussein e Al Qaeda. Alcuni pensavano che essere lì garantisse l'accesso al petrolio. Se questo era il problema, il prezzo del petrolio è salito in modo esorbitante. È un disastro. E nuoce, a ruota, all'economia mondiale. “

( L’intervista è apparsa sul quotidiano l'Unità del giorno 11 settembre 2004, terzo anniversario della tragedia delle Torri gemelle )


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 A.Q.    - 18-11-2004
Appena prima della trionfale rielezione di George Bush alla Casa Bianca Robert Reich aveva concesso ad un settimanale economico-finanziario italiano una lunghissima intervista che l’articolista aveva titolato ‘ L’America deve riscoprire le virtù della solidarietà ‘.
Robert Reich è stato responsabile, negli anni che furono di Clinton, del dicastero americano del lavoro. Ultimata la sua esperienza politica è ritornato ad insegnare economia alla ‘ Brandeis University ‘ di Boston.
In quella intervista Reich, tra le altre cose estremamente allarmanti della politica di Bush, premiata elettoralmente dagli americani, asseriva:

“ In America l’80 per cento della popolazione vive un momento difficilissimo. Non riesce più a comprare nulla, a sostenere i costi del college per i figli né della sanità.
( … ) … in America cinquanta milioni di cittadini sono tuttora privi di assistenza sanitaria. E’ una situazione che qui in Europa faticate perfino a comprendere e che qualsiasi amministrazione decente dovrà sanare.
Poi servirà una contro-riforma fiscale elaborata in modo progressivo che sovverta l’attuale situazione regressiva.
Vede, in America ci sono delle persone ricchissime ad un livello che non si riesce neanche ad immaginare. E’ necessario che siano loro a finanziare la sanità, i programmi per i più poveri e svantaggiati, le facilitazioni per gli anziani e simili misure.
A prendersi carico, almeno in una certa misura, delle necessità della maggior parte dei loro concittadini, anziché continuare a vivere indisturbati nella loro torre di privilegio, pagando poche tasse e sfruttando i più poveri.
E’ necessario, giusto e urgente capovolgere questa situazione. ( … ) Fare la guerra è stato un errore, non c’era nessuna minaccia di Saddam contro l’America né affiliazioni con Bin Laden né armi di distruzione.
Non a caso George padre aveva evitato di infilarsi in una trappola del genere. George W., il figlio, lo sapeva pure lui.
Ma è un bugiardo. La sua malafede è evidente dall’intera gestione del dopo 11 settembre: su quell’evento drammatico ha costruito l’intera sua presidenza.
Nel nostro paese si deve parlare della guerra, al presidente fa comodo distrarre l’opinione pubblica per non parlare dell’economia, che invece è il punto più dolente.
( … ) I consumatori sono in difficoltà già da molto tempo. La catastrofe del debito privato è sotto gli occhi di tutti. Ora oltretutto si sta esaurendo la spinta propulsiva che ha avuto l’ondata di rifinanziamenti sui mutui immobiliari degli ultimi due anni, quelli dei tassi favorevoli.
Mancano i soldi nella tasche degli americani, i salari non crescono, e intanto i prezzi di cibo ed energia aumentano ben più dell’inflazione.
L’unico mercato che reggeva era quello immobiliare, ma ho paura che stia per crollare visto che era sostenuto dai tassi bassi, un’epoca che sta tramontando. ( … ) “

L’autore della rilettura, Bradfrod DeLong, insegna economia all’università della California di Berkeley.

“ Nel secondo trimestre del 2004, il deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti ha raggiunto il 5,7 per cento del pil. Eppure il valore del dollaro rimane relativamente alto: meno del 20 per cento al di sotto della sua punta più alta nel 2001 e, in termini reali, più del 10 per cento al di sopra della prima metà degli anni novanta.
Negli ultimi cinque anni, man mano che il deficit della bilancia commerciale saliva, gli economisti di tutto il mondo facevano a gara nel prevedere il disastro: gli utili sui capitali investiti negli Stati Uniti sono piuttosto bassi, perciò a un certo punto – probabilmente tutti insieme – i detentori di titoli in dollari si renderanno conto che il rischio di una grossa perdita di valore non è adeguatamente compensato.
Appena gli investitori cominceranno a vendere i loro titoli in dollari ci sarà una fuga generale, e il valore del dollaro crollerà scatenando la prima grande crisi economica mondiale del ventunesimo secolo.
Fred Bergsten dell'Institute for international economics definisce questa situazione "un disastro in fieri". Quanto dovrà scendere ancora il dollaro? La prima regola empirica basata sui precedenti storici ci dice che scenderà del 10 per cento per ogni punto percentuale di deficit insostenibile rispetto al pil. La seconda regola è che le valute in declino tendono a schizzare verso l'alto: quando si sta per toccare il fondo, le persone che speculano sulle valute di tutto il mondo cercano di ottenere un sostanzioso premio di rischio per timore che il crollo della valuta scateni qualcosa di peggio. Quando arriverà questo crollo e questa crisi del dollaro? "Presto", assicura Bergsten. Ma probabilmente si sbaglia.
Rudiger Dornbusch diceva che le situazioni insostenibili durano più a lungo di quanto possano immaginare gli economisti che credono nella razionalità e nell'equilibrio del mercato. E poi tendono a precipitare più rapidamente di quanto chiunque possa pensare. A suo avviso, la sopravvalutazione di una moneta attraversa cinque fasi. Nella prima, gli speculatori a breve termine che cercano profitti più alti, o quelli eccessivamente preoccupati per la sicurezza, spingono il valore di una valuta a livelli insostenibili.
Nella seconda, quelli che seguono le tendenze continuano a comprare perché negli ultimi tempi i profitti sono stati alti, determinando così un livello e una durata della sopravvalutazione che gli economisti ortodossi non sono in grado di spiegare.
Nella terza, gli economisti più intelligenti, stupiti da questa durata, sviluppano teorie sul perché le cose stanno andando diversamente, e ipotizzano che forse stavolta la sopravvalutazione sarà sostenibile.
Nella quarta, gli speculatori al rialzo, incoraggiati dalle teorie sulla "nuova economia" che giustificano i profitti straordinariamente alti degli ultimi tempi, continuano a comprare e mantengono alta la valuta ancora per un po' di tempo a dispetto dei princìpi fondamentali dell'economia.
Nella quinta, le risorse degli acquirenti entusiasti e degli investitori che seguono le tendenze si esauriscono, producendo un crollo.
Negli ultimi sei mesi, il ciclo del dollaro è entrato nella sua terza fase. Louis Uchitelle del New York Times cita l'intelligente commento di Catherine Mann sul "rapporto d'interdipendenza tra gli Stati Uniti e i loro partner commerciali", che potrebbe "durare ancora un po' di tempo", perché "gli Usa e i loro principali partner hanno interesse a mantenere lo status quo".
Il Giappone, la Cina e altri paesi dell'Asia orientale la cui economia si basa sulle esportazioni sono interessati a mantenere il valore del dollaro relativamente alto, e le loro banche centrali hanno accumulato quasi due trilioni di titoli in dollari. Il governo cinese considera il rischio di perdite di capitale sui suoi titoli in dollari meno importante della necessità di mantenere una situazione di piena occupazione nelle città industriali della costa, come Shanghai.
Dopotutto, gli oligarchi comunisti al potere si sono ormai abituati a condurre uno stile di vita confortevole: non vogliono certo che la disoccupazione di massa e i disordini nelle città mettano a rischio la loro posizione.
Ma se gli speculatori internazionali cominciano a sentire il profumo dei profitti quasi inevitabili che trarrebbero da un declino del dollaro, tutte le banche centrali asiatiche messe insieme non riusciranno a mantenere alta la valuta americana. Solo la Federal reserve può farlo – ed è molto improbabile che la banca centrale statunitense sacrifichi i posti di lavoro degli americani sull'altare di un dollaro forte.
L'atterraggio potrebbe tuttavia essere morbido, che sia lento o veloce: durante l'ultimo grande ciclo del dollaro, dal 1985 al 1987, la nostra valuta è scesa del 40 per cento senza mai causare panico, gravi bancarotte o la richiesta da parte degli investitori di un grosso premio di rischio per compensarli di aver conservato titoli in una valuta in declino.
Ma la regola empirica che possiamo dedurre dalla storia è che le probabilità di un atterraggio veloce e duro hanno ormai superato il 25 per cento, e continuano ad aumentare.”