I platani
Silvia Zetto Cassano - 08-11-2004
Riflessioni dopo l'assemblea nazionale del MCE

C’era un posto, alla periferia della mia città. Si chiamava campo – campo San Giacomo – perché era uno spazio attorno alla chiesa. Non era granché, aveva alcune panchine, una fontanella, neanche il lusso di un prato o delle aiuole. Era un posto povero, in un rione da poveri, asfalto e panchine dure e brutte, di cemento, assediate da automobili parcheggiate. Però c’erano dei grandi alberi, non molti, ma alti ed eleganti come lo sono i platani. I pensionati dei cantieri, i rari bambini sfuggiti alla televisione si contentavano.
Pochi giorni fa sono arrivati i camion e le motoseghe. Come scrisse il poeta “dov’era l’ombra or sé la quercia spande”, al posto dei platani c’è un’assenza percepita con inquietudine anche da chi, quegli alberi li guardava soltanto, passando. Com’è possibile? Che avete fatto? scrivono i cittadini al quotidiano locale, scrivono al sindaco (da loro stessi eletto) e lui si irrita, lo volevate il parcheggio, vi lamentavate del traffico impossibile, c’è una regolare delibera, i documenti sono tutti a posto. Ma non ce l’avevi detto che avrebbero tagliato gli alberi, ribattono i cittadini. Noi vi avevamo avvertito, scrivono quei quattro gatti dei verdi, degli ambientalisti, quegli scocciatori ecologici. Non avete mosso un dito, neanche uno straccio di forma su una petizione, in fondo mi serve un posto per l’auto, dicevate, non diventerò più matto a cercar posteggio, il parking sotterraneo è giusto.
E’ adesso? Adesso i platani non ci sono più, è troppo tardi. Campo San Giacomo non c’è più, è uno dei tanti non-luoghi.
Qualcuno si sta già adattando, il parking serve sul serio, dicono, ci aggiusteremo, ci hanno promesso delle panchine moderne e l’erbetta e le aiuole con le begonie, il campo sarà bello anche così. E’ la modernità, qualcosa bisogna pur sacrificare. Dipende da cosa. L’ombra dei platani era bella, quella bellezza uccisa manca a tutti, anche ai più insensibili, quelli che non badano agli uccellini e ai giochi d’ombra del sole tra le foglie. Non è vero che i cespuglietti tisici che le ditte di giardinaggio pianteranno saranno in grado di riparare il danno di una bellezza costruita in anni e anni, come quella dei grandi alberi.
Solo la bellezza rende intelleggibile il mondo” ha detto un poeta. Anche i poeti, come i grandi alberi, sono poco compatibili con la modernità. Pochi li frequentano. Ma quando la poesia non c’è, quando la bellezza è sparita, manca perfino a chi non ci faceva caso. Quelli che ci facevano caso, pensano, desolati “Metterò gerani sul mio davanzale, cambierò rione, cercherò una casa con un orticello davanti, hanno vinto loro, vincono i più forti, i più furbi, farò anch’io come loro”.

L’idea di scuola che avevamo era come quei platani. C’è voluto tanto tempo a farla crescere, e la fatica e la pazienza dei nostri antenati. La scuola che hanno costruito non era perfetta, aveva rami secchi e parassiti a minacciarla, ma con sapienti potature, ed efficaci antidoti al veleno dei bruchi avrebbe potuto vivere ancora. Di quella che hanno messo al suo posto non ci si può contentare i nessun modo. Non si può avere la pazienza di aggiustarla, di sistemarci quattro fioretti destinati ad appassire in mezzo allo smog. Dobbiamo dire no, e si deve capirlo bene, perché sappiamo che quel che sta succedendo è un danno irreparabile. C’è ancora tempo?
La stupida potenza da cavallette di chi ama distruggere ci paralizza e fa allargare il senso della sconfitta finché diventa contagio e azzera la stessa speranza. Alcuni stanno pensando alle aule-aiuole e a come fare a sopravvivere. Molti di noi sono stanchi, hanno tanti anni, come i vecchietti di campo San Giacomo vorrebbero avere il tempo del riposo dopo aver lavorato tutta la vita. La nostra memoria a volte vacilla, e a volte ci sembra che i nipotini ascoltino i nostri ricordi solo per buona educazione, anzi, alcuni non hanno proprio intenzione di star a sentire le nostre vecchie storie. Ciò che possiamo dir loro è che, invece, senza la memoria del passato non c’è futuro. Che non siamo i primi né gli unici a dover assistere agli sfaceli. Che, quella volta, non eravamo affatto sicuri di come sarebbe andata a finire, quando scavavamo la buca per l’albero e ci sporcavamo le mani per piantarlo. Che mentre sudavamo c’erano, anche allora, tanti giocherelloni che ci prendevano in giro, e tanti pigroni incapaci si darci una mano neanche per spostare la terra con la carriola.
Adesso siamo ancora in campo, siamo andati all’assemblea nazionale di Orvieto, ci siamo guardati in giro e vi abbiamo visti, c’eravate anche voi, che non eravate neanche nati quando piantavamo l’albero. Ci avete ascoltati con pazienza o forse con rispetto o forse con ammirazione. Siete stati bravi e pazienti, non ci avete tolto la parola, ma mi sarebbe piaciuto lo aveste fatto – parliamo sempre troppo, si sa – e ci aveste detto va bene, abbiamo capito, adesso stateci a sentire, non vi preoccupate, avremo cura del vostro albero, terremo l’essenziale, ma ci aggiungeremo ciò che a noi piace, ciò che a noi serve, non vi date troppa pena se taglieremo qualche ramo, siete stati bravi, avete fatto in modo che avesse radici solide e abbastanza salute da esser capace di dare nuovi germogli.
Quando sono tornata a casa, lo stesso giorno – il primo novembre – ho letto un articolo in cui Mario Pirani commenta con ansia e dolore l’abbattimento in atto di un altro grande albero, quello dell’antifascismo. La potente motosega del revisionismo storico è lo strumento che molti stanno usando senza scrupoli. Nella seconda parte dell’articolo Mario Pirani cita Croce, riportando alcune frasi tratte dai suoi diari. Al senso di liberazione provato alla caduta di Mussolini segue, a pochi mesi di distanza un’altra sensazione, di altro segno, il pensiero che “tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo in qua costruito politicamente e moralmente è distrutto, irrimediabilmente. Sopravvivono nei nostri cuori le forze ideali con le quali dobbiamo affrontare il difficile avvenire”. E difficile davvero lo era, quell’ipotesi di avvenire, nel 1943. Croce, mentre scriveva, non lo sapeva ancora che quelle forze ideali ce l’avrebbero fatta, che il paese sarebbe andato avanti grazie al coraggio e ai sacrifici di pochi, ma non così pochi da non essere capaci di regalarci, qualche anno dopo, la Costituzione, il bel platano robusto che ha permesso a un’Italia devastata e sconfitta di rimettersi in piedi e vivere ancora. Le forze che ora la minacciano e l’assediano sono le stesse che minacciano la scuola. Alla loro potenza, al loro gusto per la devastazione, non c’è altra scelta che contrapporre la rimessa in campo di forze ideali analoghe a quelle in cui sperava Croce, e altri con lui, in quei tempi bui. Solo grazie ad esse anche noi possiamo affrontare il difficile avvenire che si prospetta. Non possono che essere forze giovani e non smemorate, è questa la nostra speranza, abbiamo passato la nostra vita nelle aule scolastiche per questo.
Non siamo gli unici, noi del Mce, a difendere i grandi alberi. Il pensarlo sarebbe devastante; dobbiamo saper sperare che non sia così, e avere l’intelligenza di raccordarsi con chi guarda in una direzione simile alla nostra. Non ci sarà difficile - visto che nel nostro movimento il colore delle gonne e delle collane ha la meglio sulle tinte scure delle giacche e cravatte che monopolizzano tutti i luoghi del potere - far prevalere il modello di Penelope la tessitrice che ebbe fede nel ritorno forse più di quella che sostenne il vagabondo Ulisse. I Proci che ci circondano non smettono di ingozzarsi e di divorare; noi però non possiamo assumere l’idea che sarà sempre così, irreversibilmente. Resisteremo, sarà meno difficile se sapremo vedere che altri, in altre isole, stanno facendo la stessa cosa. Sarà più efficace se sapremo, come, mi pare, disse un papa, badare più a ciò che ci unisce che a ciò che di differenzia, almeno in questa fase di emergenza storica.

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