La nuova economia del terrorismo
Grazia Perrone - 25-10-2004
La descrizione di scenari politici formulata da un economista è sempre istruttiva. Assetti, strategie, decisioni e cambiamenti ai quali, di solito, fa velo il fumo della politica e dell'ideologia (e spesso della retorica) si rivelano in una luce nuova e abbagliante. Il terrorismo non fa eccezione. Parlarne in termini esclusivamente politici significa entrare in un labirinto di distinguo, sottigliezze, sfumature che lasciano un senso di spossatezza e di impotenza. Ma se qualcuno prova a ricucire i fili economici che tengono insieme il terrore andandoli a ricercare dalla guerra francese in Indocina "intrecciarli" fino alla Guerra fredda e risalire, infine, fino ad Al Qaeda, cambia tutto. Cambia la percezione del mondo.

E ci si accorge che il problema fondamentalmente sono i soldi. Una marea di soldi, il 5% del Pil mondiale. Un bilancio illegale - per intenderci - che supera di due volte il PIL di un Paese tecnologicamente avanzato come la Gran Bretagna. Questa è quella che Loretta Napoleoni chiama la new economy del terrore: un'economia tesa al finanziamento del terrore che, a sua volta, punta a distruggere l'economia di uno Stato per sostituirvi la propria.

Seguendo queste dinamiche antiche (anche le crociate vengono lette come un processo di destabilizzazione economica mascherato da leadership religiosa) si scoprono tante cose. Per esempio perché venne impedito con direttive superiori all'Fbi di indagare ben prima dell'11 settembre sui movimenti finanziari delle società saudite. Perché e come gli Stati nazionali trafficano in droga per ricavare fondi neri per sovvenzionare gruppi di terroristi anti-terroristi. Come e dove si incontrano economia sana e di mercato ed economia deviata al punto da non poter sradicare la metastasi senza uccidere anche la cellula sana. Viene fuori, leggendo le cose con gli occhi di un economista, una nuova geopolitica che nulla ha a che fare con confini che non siano quelli che passano per le transizioni finanziarie. Questa non è politica, questa è la genesi.

La politica viene dopo poiché - come spiega l'Autrice - esiste un legame diretto tra il fenomeno della globalizzazione e la crescita esponenziale della nuova economia del terrorismo. È grazie al processo di deregolarizzazione dei mercati finanziari internazionali, avvenuto negli anni ’90, che i gruppi armati sono stati in grado di finanziarsi in più di un paese e di attivarsi globalmente. Con il crollo delle frontiere economiche, questi ultimi, hanno anche avuto la possibilità di legarsi ad organizzazioni criminali ed illegali formando un’economia propria il cui fatturato è pari a 1.500 miliardi di dollari annui, pari al 5% dell’economia mondiale. Nel libro, La nuova economia del terrorismo, Loretta Napoleoni - descrivendolo in dettaglio - definisce questo fenomeno la globalizzazione del terrorismo.

Si tratta dell’ultimo stadio evolutivo dell’economia del terrore le cui prime due fasi sono state: il terrorismo sponsorizzato dalla stato e la privatizzazione del terrorismo. Al Qaeda è l’esempio più illuminante della globalizzazione del terrorismo, si tratta infatti di una organizzazione armata trans-nazionale, in grado di finanziarsi internazionalmente ed operativa a livello globale.

L'errore principale compiuto dalle democrazie occidentali è stato quello di considerare - nel periodo compreso dal primo attacco al World Trade Center (1993 ) all’11 settembre del 2001 - il terrorismo islamico come un crimine nazionale, non come un attacco alla sicurezza dell’occidente, e cioè un fenomeno globale in evoluzione. Ramzi Jousef, l’ideatore del primo attacco al World Trade Center, è stato incriminato e processato come un criminale comune. Una volta catturato nel Pakistan ed estradato negli USA, l’indagine giudiziaria si è chiusa. Allo stesso tempo, per non inquinare le prove, le autorità giudiziarie hanno evitato di consultare e di collaborare con l’FBI e la CIA, che sono rimaste al di fuori degli interrogatori di Jousef e dei suoi complici. Così, importanti informazioni provenienti dalla polizia delle Filippine, che aveva decodificato il portatile di Jousef da dove emerse il Bojinka plot, il piano terrorista per far saltare in aria simultanemante una serie di jumbo jets americani, sono state archiviate. Lo stesso vale per l’origine dei finanziamenti di Jousef. Oggi sappiamo che non solo Ramzi Jousef aveva contatti con Al Qaeda ma si muoveva nella sua rete internazionale, usufruendo di aiuti e protezione.

Questo grave errore di valutazione ha dato ad organizzazioni armate islamiche l’opportunità di svilupparsi impunemente e senza controllo per quasi un decennio.

A trarne beneficio immediato è stato sicuramente il Pakistan (che l'Autrice definisce Stato-guscio) che ha dapprima capitalizzato sulla jihad anti-sovietica in Afghanistan e ne è uscito come una potenza nucleare di primo piano in Asia. All’indomani della guerra in Afghanistan ha utilizzato la rete dei Mujaheedin per portare avanti il suo sogno espansionistico, si pensi solo alla situazione nel Kashimir, dove si combatte da anni o a quella nella valle della fergana, un importantissimo crocevia delle Repubbliche del centro Asia. È proprio grazie ai finanziamenti sauditi, che non si sono mai esauriti, che il Pakistan è diventato una potenza atomica, allo stesso tempo, fu grazie al ladrocinio degli approvvigionamenti destinati ai Mujaheedin che il Pakistan ha creato il più grosso arsenale di armi nel centro Asia, un arsenale che ha poi utilizzato per sostenere l’insurrezione islamica nei paesi limitrofi.
Per quanto riguarda l’ISI, i servizi segreti pakistani hanno avuto un ruolo di primo piano nel finanziamento della guerra afgana, facendo da tramite tra i due maggiori sponsors, la CIA ed i Sauditi. A guerra finita, l’ISI ha continuato a svolgere un ruolo analogo nelle regioni dell’Asia centrale e nel Caucaso. Dobbiamo all’ISI, per esempio la decisione di creare ed addestrare un gruppo di terroristi islamici che furono inviati in Cecenia, tra i quali c’era Kattab, uno dei principali luogotenenti di Osama bin Laden durante la guerra in Afghanistan.

Né bisogna dimenticare - nell'analisi dei fatti che scuotono il mondo - i forti (e provati) legami tra bin Laden ed alcuni membri della casa reale saudita che risalgono ai tempi della jihad anti-sovietica. Membri dell’elite saudita, tra i quali il ministro degli interni ed il ministro del credo islamico, sono aperti sostenitori del ruolo dei gruppi armati islamici nel mondo mussulmano. C’è poi il ruolo dell’Ulema, il consiglio dei religiosi, la più alta autorità religiosa del paese, che gioca a favore di bin Laden. Per comprendere queste connivenze, che possono sembrare contraddittorie, bisogna tener presente l’ambiguità saudita nei confronti della politica estera degli USA ed in particolare del ruolo che Israele ricopre nel Medio Oriente. Da una parte, la casa reale saudita sostiene economicamente organizzazioni come Hamas considerate gruppi terroristi dagli USA e da Israele, che conducono attacchi contro Israele; finanzia la proselitizzazione del credo Wahhabita nei paesi mussulmani e si è fatta promotrice di istituti caritatevoli che alimentano l’insurrezione islamica nel mondo mussulmano; dall’altra cerca di giocare il ruolo di super-alleato degli USA nel Medio Oriente, appoggiando decisioni apertamente miranti al consolidamento dell’egemonia americana nel golfo.

È all’interno di questa dicotomia che si inseriscono le connivenze tra Osama bin Laden con alcuni membri della famiglia reale.

Connivenze e complicità facilitate dal fatto che i due sistemi - quello capitalista occidentale e la nuova economia del terrorismo - sono interconnessi ma, allo stesso tempo, si trovano in uno stato di tensione e di antagonismo crescente. Basti pensare che la moneta di scambio utilizzata all’interno del sistema economico del terrore è lo stesso - il dollaro americano - di quello occidentale e che l’offerta di denaro annuale, cioè lo stock di nuova moneta prodotto ogni anno a fronte della domanda annuale, ha la stessa provenienza. Ogni anno, infatti, due terzi dell’offerta di dollari statunitense emessa sul mercato dalla Riserva Federale esce dal circuito monetario americano illegalmente e va ad alimentare l’economia del terrore, del crimine e dell’illegalità. La vera questione - ipotizza la Napoleoni - è la tensione crescente fra un sistema capitalista occidentale dominante e una nazione islamica popolosa e "rampante" al cui interno una nuova classe di mercanti e finanzieri scopre che le possibilità di sviluppo ulteriore sono bloccate o scoraggiate. [1]

Poco o nulla, però, si è fatto sul fronte della lotta contro il finanziamento dei gruppi del terrore islamico, sia per quanto riguarda i finanziamenti legali, quelli cioè derivanti da opere di carità o da donazioni, sia sul piano dei proventi di attività illegali, quali, ad esempio, il traffico della droga. I motivi sono evidenti, si è voluto favorire la scelta della guerra, affrontare il ‘nemico’ sui campi di battaglia invece di seguire la pista del denaro pulito e sporco.

Così facendo si è commesso un ulteriore errore di valutazione di cui noi pagheremo le conseguenze per molti anni. A detta delle Nazioni Unite il patrimonio di Al Qaeda è pressochè intatto, dall’11 settembre ad oggi nel mondo si sono congelati soltanto 150 milioni di dollari che andavano ad alimentare la rete del terrore islamico.

Di più.

Secondo ambienti miltari britannici «L'invasione dell'Iraq ha potenziato il reclutamento jihadista e intensificato le motivazioni di al Qaeda per progettare operazioni terroristiche».

A scrivere quella che per molti ambienti potrebbe suonare ormai un'ovvietà è il prestigioso International Institute for Strategic Studies di Londra. L'istituto è arrivato a questa e ad altre conclusioni dopo aver analizzato il fenomeno della guerra in Iraq basandosi su documenti forniti da autorità militari e servizi segreti. Nel dossier pubblicato in questi giorni, è chiaramente indicato che almeno un migliaio di combattenti jihadisti dall'estero si sono infiltrati nel Paese arabo occupato dalle truppe della coalizione. Questi miliziani, che sarebbero solo una frazione dei combattenti affiliati ad al Qaeda, si sono uniti ai ribelli baathisti - fedeli all'ex dittatore Saddam Hussein - e probabilmente anche alle frange combattenti sciite. L'équipe di Londra ha inoltre appurato che la rete di al Qaeda può contare su 18mila affiliati operanti in almeno 60 Paesi. «Un network di network», continua la studio, galvanizzato dall'invasione statunitense e che vede nei marines un obiettivo quasi «iconico» fuori dai confini americani. Le basi dell'organizzazione con Osama bin Laden al suo vertice ha perso le basi d'addestramento in Afghanistan, ma ora si rafforza recuperano «forze locali». Il dossier inoltre demolisce le ipotesi del commando americano, secondo il quale il flusso di jihadisti in Iraq ha concentrato un alto numero di terroristi nella "killing zone", poiché in ogni caso costituiscono «una frazione minuscola» della potenza di al Qaeda. Il direttore dell'istituto, John Chipman, ha affermato che «il risultato dello sforzo internazionale guidato dagli Usa per portare stabilità al Paese è ancora lontano mentre la forza militare più potente del mondo lotta contro un'insorgenza dalle mille facce».

Infine, il monito degli esperti militari: l'uso di riservisti poco addestrati o addestrati male non potrà sostituire militari di provata professionalità, altrimenti potranno accadere nuovamente episodi terribili come quelli delle torture nella prigione di Abu Ghraib.

Ciò che il mondo non ha ancora compreso - scrive l'Autrice nella prefazione - è che questo "nemico" che ci ostiniamo a combattere con le armi tradizionali (...)"è il prodotto delle politiche di dominio adottate dai governi occidentali e dai loro alleati - le oligarchie politiche del Medio Oriente e dell'Asia - e che la sopravvivenza finanziaria del terrorismo è strettamente intrecciata a quella dei nostri sistemi economici (...)".

Il terrorismo globale - in ultima analisi - nasce (e si legittima) in parte dalla percezione delle ingiustizie sociali patite dai reietti del terzo e quarto mondo ma prolifera e si sviluppa grazie ad una rete di connivenze e di complicità esistenti nel cuore stesso dell'Occidente "evoluto". Queste complicità sono capillari e molteplici estendendosi fino agli inviolabili bastioni del capitalismo occidentale, quali Wall Street, la City di Londra, la cittadella finanziaria di Hong Kong ... senza disdegnare l'oscuro, ed imperscrutabile, mondo degli hawaba arabi e dell'Asia meridionale in ossequio al vecchio, ma sempre valido, adagio: tanti pochi fanno assai.

E' un fenomeno globale al quale la risposta armata di Bush & Co si rivelerà - alla lunga - controproducente.


[1] Siamo di fronte - ancora una volta - alla rappresentazione dinamica della società divisa in tre classi distinte e contrapposte (e non due ... come postulato dal dogma marxista). La prima che prevale sulle altre; la seconda che vuole spodestarla e ... una terza che sfrutta quest'ultima (e le sue aspirazioni sociali) per conquistare il potere. E' una teoria sociologica formulata - per la prima volta - da Peter Kropotkin nel libro "La grande rivoluzione" (praticamente introvabile in Italia poiché l'unica edizione, in italiano dall'originale in francese, risale al 1911) e ripresa - negli anni '50 - dal gruppo francese Socialisme ou Barbarie (in Italia sarà fatta propria, sul finire degli anni '60, da un gruppo di giovani studenti che daranno vita ai GAF: Gruppi Anarchici Federati) che mi riservo di esplicitare in dettaglio.



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