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Tra bugie, censure, epurazioni l'Italia ai tempi del Cavaliere
Repubblica - 16-10-2004

Esce "Regime", libro di Gomez e Travaglio sullo stato della informazione durante il governo Berlusconi

di CURZIO MALTESE

Nella versione brechtiana della Turandot l´imperatore della Cina mantiene uno stuolo di servi intellettuali, i Tui, che hanno il compito di spiegare al popolo la bontà delle sue dispotiche leggi. I cortigiani sono zelanti ma troppe cose assurde accadono per escogitare ogni volta una spiegazione, così l´imperatore indice un concorso fra i Tui per trovare la risposta definitiva a tutti i dubbi del popolo. Vince questa: «La risposta giusta è non farsi la domanda».
Nell´Italia del piccolo Cesare di Arcore gli intellettuali hanno liquidato più o meno allo stesso modo il dibattito sul regime mediatico. Molti, in Italia e soprattutto all´estero, si sono chiesti se è ancora democrazia un sistema dove il capo del governo possiede o controlla il novanta per cento dell´informazione televisiva e la metà dei giornali. La risposta è stata che non bisognava porsi la domanda. Guai a parlare di regime, sia pure in forma dubitativa. S´incorre nelle ire dei nostri mandarini di corte, che a conti fatti sono la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani, nei secoli fedeli al potere. D´altra parte dove sono i manganelli? Dov´è il confino? I manganelli però ci sono. Metaforici ma sempre dolorosi. Quanto al confino, vale la pena di leggersi il lungo elenco di epurati dal berlusconismo che compare in «Regime», l´ultimo libro di Peter Gomez e Marco Travaglio.
E´ un libro, un´inchiesta e forse meglio una requisitoria sulla censura ai tempi di Berlusconi. Non ci sono scoop ma una serie di casi noti e meno noti, un quadro generale terrificante che spiega la penosa classifica dell´Italia nelle classifiche internazionali della libertà d´informazione (cinquantatreesimo posto su 166), all´inseguimento di una mezza dozzina di paesi africani. Il capitolo più triste di «Regime» è forse quello dedicato a Enzo Biagi, il più amato e stimato giornalista della storia Rai, liquidato per aver osato intervistare ne Il Fatto due carneadi anti berlusconiani come Roberto Benigni e Indro Montanelli. Avvilisce il modo vile e ipocrita con cui la tv di Stato liquida con un tratto di penna quarant´anni di lavoro e di grande giornalismo. Angustia la miseria culturale e umana del plotone di esecuzione che prepara la censura a Biagi, con un sovrappiù di livorosa invidia. In prima fila c´è naturalmente Giuliano Ferrara, che si segnalerà anche nella caccia a Ferruccio de Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera, accusato di confezionare un «giornale canaglia», ovvero indipendente.
In tanto squallore, non mancano tuttavia le occasioni di puro divertimento. E´ esilarante il racconto della censura subita a Domenica In da Paolo Rossi, colpevole di aver tradotto un brano di Tucidide vecchio di duemilacinquecento anni ma considerato allusivo del conflitto d´interessi gravante sull´impresario al governo. Sono ritratti comici, più o meno volontariamente, anche quelli dedicati dagli autori all´eterno Bruno Vespa («Tre regimi e un maggiordomo»), alla leggendaria Anna La Rosa e all´incommensurabile Mensurati, conduttore di Radio Anch´io. Tre intervistatori da riporto che si vantano di essere lottizzati ed esibiscono con fierezza un servilismo elevato a metodo («Qui tutti i politici si trovano a loro agio»), scambiandolo per imparzialità. Come sono comici i mezzobusti chini del Tg1, il macchiettistico direttore Mimun, i consiglieri d´amministrazione Rai, fra i quali spicca per coraggio quel Marcello Veneziani che all´ultima puntata di Sciuscià aveva promesso rivoluzioni se avessero chiuso il programma di Santoro e poi si è precipitato sulla poltrona libera. Sono figurine da regimetto, più che figuri da regime. Si meritano il padrone che hanno e viceversa.
Non si può non concordare con le conclusioni di Beppe Grillo, censurato storico, nella post fazione: «I grandi personaggi, anche nel male, ti fanno i complimenti in pubblico e poi te lo mettono in quel posto in privato, a tempo debito. A freddo. Sono i mediocri, gli ometti che cadono nella trappola delle epurazioni, delle censure sfacciate e brutali, addirittura preannunciate dalla Bulgaria. Sono i poveracci, che si sentono deboli e insicuri. I Grandi Comunicatori che, alla terza volta che vanno in televisione, fanno scappare la gente perché non ne può più. Lasciamoli fare, si stanno auto eliminando da soli. Dopo bisognerà occuparsi delle scorie che avranno lasciato...».

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 Pierangelo    - 16-10-2004
da l'Unità online - 16.10.2004

Il regime come anestesia
di Antonio Padellaro

Il fatto che il direttore di un grande quotidiano venga pesantemente e ripetutamente minacciato dagli avvocati del presidente del Consiglio; il fatto che i cronisti di quel grande quotidiano vengano definiti dai suddetti legali «mele marce» perché scrivono sulle vicende del plurinquisito presidente del Consiglio; il fatto che pochi mesi dopo quello stesso direttore venga accompagnato al portone del grande quotidiano, salutato dalla manifesta soddisfazione del plurinquisito premier. Tutti questi fatti messi insieme avrebbero sicuramente suscitato una qualche apprezzabile reazione in un qualsiasi paese appena normale: a cominciare, per esempio, dal quel Botswana che ci precede, con altre 43 o 44 nazioni nella classifica che misura il grado di civilità e progresso sul pianeta. Forse, però, una spiegazione del perché l’Italia sia così tristemente scivolata alla casella 45 sta proprio nel fatto che in Italia, invece, non è successo assolutamente nulla; e che, anzi, la notizia della defenestrazione di quel direttore è stata giudicata una non notizia dalla quasi totalità degli altri organi di informazione, e dunque rapidamente trasferita in archivio. Ricordate «Alice nel paese delle Meraviglie»? «Se ognuno s’impicciasse dei fatti suoi», disse la Duchessa quasi ringhiando «il mondo girerebbe molto più svelto!».

Per fortuna c’è sempre qualcuno che s’impiccia, e le tristi circostanze che hanno accompagnato le dimissioni di Ferruccio de Bortoli dalla direzione del “Corriere della sera”, il 29 maggio del 2003, vengono ora riproposte nel libro «Regime» di Peter Gomez e Marco Travaglio. Regime è parola a cui siamo particolarmente affezionati perché è stata coniata su queste stesse pagine quando l’Italia di Silvio Berlusconi ha cominciato a prendere forma e contenuti. Abbiamo scritto regime quando Enzo Biagi è stato espulso dalla Rai, per aver permesso a Roberto Benigni di ridere sul futuro presidente del Consiglio. Lo scandaloso episodio avveniva nel programma “Il fatto”, giudicato il migliore del secolo da una giuria Rai e cancellato anch’esso con un tratto di penna. Abbiamo scritto regime quando con il diktat ducesco dettato dalla Bulgaria, Berlusconi accusava di «uso criminoso della televisione pubblica» Biagi, Santoro e Luttazzi; o quando la censura ha tagliato dal video lo spettacolo di Sabina Guzzanti e il teatro di Paolo Rossi.

Abbiamo scritto regime quando a Massimo Fini scippano un programma perché, come gli spiega il direttore di RaiDue, Marano «c’è una persona che ha fatto lo stronzo in modo vergognoso»: uno stronzo a cui, però, bisogna ubbidire per forza. Abbiamo scritto regime quando le dimissioni di de Bortoli ci sono apparse brutte, strane, preoccupanti, e non certo per mancanza di rispetto nei confronti del nuovo direttore Stefano Folli. Abbiamo scritto regime quando Lucia Annunziata, strattonata per mesi da un Cda supino alla linea del presidente-padrone, è stata costretta a lasciare la presidenza della Rai non potendo più esercitare il ruolo di garanzia assegnatole dai presidenti delle Camere.

In questi tre anni abbiamo gridato regime, regime e ancora regime esattamente come lo gridano oggi Gomez e Travaglio raccontandoci perché colpendo Enzo Biagi e tutti gli altri il regime berlusconiano abbia desertificato la tv e intimidito la libera informazione. Ci è stato risposto (non da Berlusconi che non ha mai nascosto la mano) che se parlavamo di regime eravamo un po’ irresponsabili e un po’ squilibrati, significando la parola regime fine della democrazia e di ogni libertà. Mentre in Italia, fino a prova contraria, i cittadini votano, il Parlamento legifera, le edicole sono colme di testate di diverso orientamento, infinita è la scelta dei canali televisivi. Ci è stato detto, anche a sinistra: se dite che c’è il regime allora perché non ve ne andate in montagna a fare la resistenza? (obiezione stravagante perché sarebbe come chiedere a Pera, Ferrara, Feltri, e ai fervidi sostenitori della guerra di civiltà di andare, per coerenza, a combattere in Iraq con le truppe americane). A costoro aveva comunque già risposto Indro Montanelli spiegando che «oggi, per instaurare un regime, non c’è più bisogno di una marcia su Roma né di un incendio del Reichstag, né di un golpe sul palazzo d’inverno. Bastano i cosiddetti mezzi di comunicazione di massa: e fra essi, sovrana e irresistibile, la televisione».

Montanelli aveva colto il punto: chi controlla l’informazione televisiva, controlla la democrazia; ma una democrazia sotto controllo (televisivo) non è un regime? Un regime pieno di facce da operetta, battute da caserma, capelli tinti o trapiantati, sospeso tra Caligola e la Freedonia dei fratelli Marx. Tragico se festeggia sbracato sulle macerie della Costituzione. Feroce quando decide cosa i cittadini devono o non devono sapere o vedere. Un regime ormai generalmente subìto e accettato in un misto di anestesia condivisa e rassegnazione ragionata. C’è una risposta per tutto. Biagi aveva stufato. Luttazzi ha esagerato. Santoro era un fazioso. Con la satira la Guzzanti ha fatto i soldi. E poi: la Rai è sempre stata lottizzata e, ai suoi tempi, l’Ulivo ha fatto anche peggio. Come dice la Duchessa, sarebbe meglio se ciascuno s’impicciasse dei fatti suoi. (Per la cronaca: mentre de Bortoli non è più direttore del “Corriere”, l’avvocato Previti che lo minacciava per lettera è sempre al suo posto: esercita il potere con efficenza e discrezione, ed è tra i principali artefici del condono vergogna sulle aree protette).