Imitazioni
Marino Bocchi - 03-10-2004


Fotografie
E’ accaduto in una scuola di Londra, qualche giorno fa. Dieci quindicenni hanno picchiato un loro compagno, spezzandogli il braccio e fotografando l’aggressione coi cellulari, quindi hanno spedito l’immagine per e-mail ai loro amici. Ridotta ad un trafiletto, la notizia è stata rubricata dai quotidiani come l’ennesimo episodio di bullismo. Declassata, di conseguenza, a fatto statistico rientrante in una generica categoria sociologica. E’ sfuggito il carattere specifico. Che non consiste tanto nella dinamica del pestaggio di gruppo quanto nel dettaglio del tutto insolito che ha accompagnato l’agguato: la sua spettacolarizzazione. Come i carnefici di Al Zarqawi o di Abu Ghraib questi adolescenti inglesi hanno sentito il bisogno di fissare la tortura in un’immagine. E di mandarla in giro.

Luna park
In un paesaggio dolce e disteso, fertile di polle di acqua termale dove si va a prendere i bagni, tra “prati ben rasati, paperelle a mollo, altalene per i pupi, caffetteria” si erge la sagoma di un gulag. Siamo nel centro geografico dell’Europa, nel sud della Lettonia. Qui, il miliardario Viliumas Malinauskas ha finanziato la costruzione del luna park. Si acquista il biglietto e poi ci si inoltra tra vialetti recinti “di filo spinato e torrette di controllo e cori militari sovietici arrangiati a disco-dance, oltre a un vagone ferroviario utilizzato per il trasporto coatto in Siberia. Pare che inizialmente si fosse pensato di caricare sul medesimo le mandrie dei turisti, con finti agenti del Kgb al seguito” (Repubblica, 18 agosto).

Voyeur
Mentre da un lato si riscrive la storia, espungendola o deformandola secondo circostanze o convenienze, dall’altro il voyeurismo riduce la realtà e la memoria a kolossal o bricolage postmoderno. La finzione è convincente allorché sembra vera, cioè più autentica del vero. Lo sguardo vuole la narcosi. Attingere dalla memoria come da un magazzino di volti, emozioni, stili o modelli, mescolarli alla rinfusa e ricavarne un tipo, un' abitudine o una moda, è un’operazione che si è imposta a partire dall’affermarsi della cultura di massa, quindi da almeno un secolo e mezzo, in seguito all’irrompere della morale e della norma borghesi. Ma oggi viviamo un salto qualitativo, una rottura antropologica: il passaggio da un atteggiamento imitativo che fa leva sulla memoria per ricavarne il patrimonio mitico del presente ad una manipolazione della memoria in funzione degli stili di consumo culturale del presente. La storia e la realtà con le sue tragedie ridotti ad un grande supermarket. Del primo periodo, lo strumento sono stati la scrittura, la letteratura in particolare e il libro in genere, con l’appendice tarda del cinema; del secondo le attuali tecnologie, a partire dalla televisione. Fino a Internet.


Bovarismo
Prima e dopo l’uscita di Madame Bovary si diffuse una psicosi che da Emma prese il nome. Il bovarismo “è riferito a quegli atteggiamenti che confondono fantasia e realtà, sogni a occhi aperti e fatti del mondo reale. L’accentuazione di questa tendenza può portare alla costruzione di una personalità fittizia e a un concetto di sé irreale e fantastico” (Umberto Galimberti, Dizionario di psicologia, Utet, 1992).
Anche Emma e i suoi lettori erano voyeurs ma il loro sguardo era ricamato sui libri, quelli che la signora Bovary leggeva da piccola, nel collegio delle suore. Fu proprio il pericolo della letteratura come fonte diseducativa, di comportamenti destabilizzanti e nocivi per la morale borghese, a costituire il vero, dichiarato, tema d’accusa nella requisitoria con cui il procuratore Ernest Pinard cercò di far condannare il romanzo. Ma Flaubert venne assolto perché il tribunale riconobbe che egli si era limitato a trascrivere la realtà. Che precede i libri che la raccontano. Dalla quale la letteratura attinge la storia e la trasforma in storie che trasfigura nel mito. Per questo è sempre innocente, a prescindere da ragioni di contenuto, di linguaggio o di stile.

Borges
Il bovarismo postmoderno fa a meno della realtà. Nell’inversione che si è prodotta, si può anzi sostenere che la precede e la crea. Finzione di un’altra finzione, all’infinito. Il grande e geniale anticipatore e profeta di questa tendenza è stato Borges, in cui ogni sogno ad occhi aperti rimanda ad altri sogni e il vuoto è riempito da parole che sono il predicato di un soggetto costituito da altre parole prive di ogni ancoraggio esterno. E l’imitazione successiva, tanto più è irripetibile e unica quanto più è identica alla precedente. Borges ha intravisto non un mondo trasformato nella biblioteca di Babele ma questa sostituirsi definitivamente a quello e soppiantarlo. Fino all’esito a cui stiamo assistendo, in cui il virtuale, lungi dall’essere rappresentazione mimetica del reale, lo ha inghiottito.


Pop-nazi
Sicché non sono del tutto d’accordo con l’analisi di Claudio Magris esposta in un bellissimo articolo uscito sul Corriere della sera il 27 settembre. Prendendo spunto dalle recenti elezioni regionali in Sassonia e Brandeburgo che hanno visto l’affermazione consistente dei partiti neonazisti e dopo aver giustamente sottolineato le cause economico-sociali all’origine di questo successo, Magris scrive che è diffusa fra gli adolescenti tedeschi una pop-cultura nazista “in cui rune nordiche e antichi dei germanici della guerra, immagini e simboli nazisti, la figura stessa di Hitler diventano abbigliamento, musica rock, stile di sbandata protesta e vita giovanile”.
Temo che Magris, affetto da troppo illuminismo, si illuda quando pensa che il fenomeno possa essere affrontato con la solita ricetta: più cultura, più informazione, più educazione, eccetera. Il tritacarne della cultura ridotta a consumo ha già fatto il suo corso. Del nazismo e delle sue tragedie, si è fatta tabula rasa non perché lo si insegni poco o male ma per la semplicissima ragione che il supermarket, anche scolastico, che ne commercializza il prodotto, la griffe, lo ha ridotto alla bellezza delle sue divise, o del sangue che versò. La stessa bellezza che deve aver affascinato i quindicenni picchiatori di Londra. Quel senso estetico che induce i militari americani a firmare con dediche e aforismi gentili le bombe che sganciano sui popoli da civilizzare, dall’alto dei cieli e avendo sotto gli occhi il quadrante di tanti puntini luminosi a indicare il bersaglio. Non c’e’ puzzo di morte né di vita. C’e’ solo uno sguardo sedotto e narcotizzato dalla fosforescenza di una luce artificiale che si accende e si spegne, insinuante e intermittente.

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