Calligrafie
Marino Bocchi - 18-09-2004











































Vorrei partire da un anniversario. Un anno fa moriva Edward Said, professore di letteratura comparata presso la Columbia University, un grande intellettuale in senso gramsciano, in cui passione e ragione, impegno e intelligenza critica formavano un unicum indissolubile. Di Said, l’ultimo numero di Le monde diplomatique (settembre 2004) pubblica uno scritto sui rapporti tra arabo classico moderno e parlate dialettali che da quello derivano. E le reciproche influenze e rapporti, le tensioni e i superamenti, il tutto inserito nel contesto dei processi storici. La questione è appassionante se solo si consideri il ruolo, spesso trascurato, che le vicende linguistiche hanno nella definizione della cultura di un popolo, dei suoi diversi stili cognitivi e di comportamento, delle dispute sul concetto stesso di identità (univoca o plurima, statica o dinamica?). Come sempre in Said, il tema locale assume valenza universale e ci riguarda tutti. Ma un punto è quello che mi ha particolarmente colpito. E’ contenuto quasi in chiusura, laddove egli racconta di quella volta che, passaporto americano e cristiano palestinese, dunque meticcio per nascita e poi per scelta, tenne il suo primo discorso in arabo classico al Cairo, presso alcuni parenti. Ed essendo il suo eloquio stentato e faticoso, appunto un parente gli fece notare che era rimasto deluso dalla sua scarsa eloquenza. “Ma hai capito quello che dicevo?”, ho chiesto con voce flebile – la mia principale preoccupazione era quella di farmi capire bene su alcuni aspetti delicati di politica e di filosofia. “Sì, naturalmente”, mi ha risposto scrollando le spalle con indifferenza, “senza nessuna difficoltà, ma il tuo discorso non è stato abbastanza eloquente o retorico”.
Qualche paragrafo più sopra, Said aveva scritto che nei giorni dell’invasione statunitense in Afghanistan, sulla rete satellitare Al-Jazeera si potevano “seguire dibattiti e reportage introvabili sui media statunitensi. Quello che più colpiva, a prescindere dal contenuto di tali trasmissioni, era nonostante la complessità dei problemi affrontati, l’elevato livello di eloquenza che caratterizzava i partecipanti, alle prese con le peggiori difficoltà – anche le persone più repellenti, compreso Osama Bin Laden. Quest’ultimo parlava con una voce dolce, senza esitazioni, senza commettere il minimo errore, e anche questo ha il suo peso nell’influenza che egli esercita”.


Eleganza ed arabesco

Anche se parlano poco o male l’italiano, gli alunni arabi inseriti nelle nostre scuole sono quasi sempre bravissimi in matematica. Credo che esista una correlazione tra le loro performance in questa materia e la conoscenza che essi hanno dell’arabo classico scritto. Non tutti lo studiano e vi si esercitano. Dipende dal contesto familiare ed educativo in cui vivono. In molti casi però i genitori, quando possono, ne assicurano la trasmissione ai figli perché conservino un legame con il patrimonio culturale da cui provengono. Resta il fatto che “l’arabo suggerisce un’idea di astrazione quasi matematica…tutto è chiarezza, logica, sistema e astrazione. Ma è anche un bell’oggetto da ammirare nella sua forma scritta. Da ciò deriva anche il ruolo centrale e duraturo della calligrafia, un’arte combinatoria di estrema complessità, più vicina alla combinazione e all’arabesco che non alla esplicitazione del discorso” (Said). Di questa complessità ed eleganza, fatta di linee sinuose ed arabescate, di ordine grafico e pulizia, può fare quotidiana esperienza chiunque di noi abbia la fortuna di insegnare in una classe multietnica. Distratti dall’incuria e dalla fretta, corrotti nell’arte dello scrivere dall’insulso linguaggio abbreviato degli Sms, gli alunni italiani restano sempre un po’ stupefatti e attoniti dalla lenta, meticolosa, paziente opera di redazione dei corrispettivi termini arabi, da parte della loro compagna maghrebina.
Non mi ha sorpreso leggere sul Corriere della sera del 31 agosto che i corsi di calligrafia sono diffusi ormai ovunque e sono frequentati da migliaia di persone, fra cui molti insegnanti e studenti che desiderano riappropriarsi del corretto uso di carta e penna, per sfuggire alla dittatura di computer e telefonini. Il modernismo becero che informa le direttive e le circolari scolastiche, conduce alle conseguenze da regime totalitario ben riassunte dalle telecamere a circuito chiuso all’interno delle aule e alla sorveglianza elettronica. Appiattisce e livella, irreggimenta e controlla, riduce le differenze alla dimensione dell’unica norma socialmente accettata.


Il tempio della Montagna Fiorita

L’arte dello scrivere è un’arte di difesa. Luogo privilegiato della propria personalità. Luogo segreto. Da condividere con pochi, fidati destinatari. Lo Hunan è una sperduta regione meridionale della Cina dove sorge il tempio della Montagna Fiorita, dedicato a due sorelle morte più di mille anni fa. Da secoli, le contadine del villaggio di Shanjianxu, venerano gli spiriti delle due sorelle “portando al tempio rotoli di carta di riso in cui confidano i loro segreti e formulano dei desideri; non di rado quello di suicidarsi” (Repubblica, 29 agosto). La lingua con cui quelle preghiere sono scritte, “nessun uomo è mai riuscito a leggerle perché… non sono in cinese ma in Nushu, forse l’unica lingua al mondo creata da donne per comunicare solo fra loro”. In esse si raccontano storie di sopraffazione, di violenze, di matrimoni imposti, di feroci umiliazioni patite. A differenza di Federico Rampini, l’autore di questo articolo così raro e prezioso in tempi di massificazione informativa come il nostro, sono convinto che un idioma analogo si nasconda dovunque esista il dolore. Me lo dicono i diari delle mie alunne. Più in generale me lo suggeriscono le donne di Cecenia, costrette da un ordine infernale che le dilania, ammazzandogli i padri, i fratelli, i figli, a trasformarsi in disperate carnefici, in automi narcotizzati da una fede religiosa divenuta feroce e assassina. In antichi manoscritti dell’Inquisizione conservati negli archivi, si leggono tracce di una scrittura simile, personale e segreta, coltivata da donne magiche e sapienti, destinate al rogo.


Miriam

Miriam era una giovane donna elegante e bella, probabilmente un’attrice, senz’altro colta e intelligente. Era la compagna di Edward Pierce, il leggendario autore de La grande rapina al trenodel 1855, raccontata da Michael Chrichton Chissà com’era la calligrafia di Miriam, nella puritana Inghilterra di Vittoria e di Jack lo squartatore. Quelle come lei erano trattate alla stregua di sgualdrine, in un’epoca sessuofobica in cui i ricchi maschi borghesi dell’impero più grande della storia andavano a puttane, si ammalavano di sifilide ed erano convinti che il rapporto con una vergine avrebbe potuto guarirli. Il giorno in cui Pierce, terminato il processo che lo condannava, uscì dal tribunale, fu Miriam, travestiva come una vecchia prostituta stracciona, a passargli con un bacio la chiave delle manette ottenuta dai poliziotti che aveva corrotto. Mai più nulla di seppe né di lei né del suo uomo. A proposito di scrittura e scritture e calligrafie, il romanzo di Chrichton, che è costruito su documenti d’archivio, ci racconta di un’altra lingua segreta: quella dei malfattori. Composta da un gergo a volte originale e di geniale invenzione, che i benpensanti, i poliziotti e i giudici non capivano. Sovente mi piace leggere e sentire il gergo dei miei alunni, creato per difendersi, come tutte le scritture di confine.


Sylvia e Adrienne

Sylvia e Adrienne gestivano due librerie nella stessa strada di Parigi, Rue de l’Odéon, sulla Rive Gauche. Quella di Sylvia Beach ha un nome che racchiude il significato di un’epoca: Shakespeare and Company. Nelle librerie, poste l’una di fronte all’altra, passarono in quegli anni, dal ‘20 al ’40 grandi intellettuali, scrittori, poeti, il meglio dell’avanguardia letteraria. Walter Benjamin ebbe da Adrienne l’ultimo aiuto economico prima di tentare il passaggio in Spagna, nella speranza di trovare un imbarco per l’America dal Portogallo. Ma in Spagna, individuato in quanto ebreo e braccato dai nazisti, concluse la sua esistenza con il suicidio. Fu in Shakespeare and Company che Sylvia conobbe James Joyce, a cui nessun editore voleva pubblicare l’Ulysses. Perché la puritana Inghilterra e la bigotta America, con le loro associazioni per la repressione del vizio, ritenevano l’opera oscena e blasfema. Fu Sylvia che ne fu l’editrice, organizzandone la stampa, la distribuzione, la ricerca dei finanziamenti; fu lei ad occuparsi di sbrigare la corrispondenza indirizzata a Joyce, ne fu l’assistente, la manager e la segretaria. Insomma fu lei a rendere possibile il miracolo di una lingua nuova, ermetica, magmatica e luciferina. Ancora una volte, dunque, fu una donna a sposare una lingua, a darle speranza e futuro. E a custodirla, quando andava tenuta nascosta agli sguardi di chi avrebbe voluto sopprimerla.




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