Il contesto che aiuta a crescere
Rolando A. Borzetti - 10-09-2004
Invio da Rivista del Volontariato numero 8-9/2004
Mensile di informazione a cura della FIVOL Fondazione Italiana per il Volontariato. Bellissima.


Intervista a Lucia De Anna, docente di Pedagogia Speciale e direttore del Dipartimento di Scienza della formazione dell’attività motoria e dello sport all’Iusm, Istituto universitario di scienze motorie.

Qual è secondo lei la funzione della scuola rispetto l’attivazione di processi d’integrazione, e la riforma Moratti assolve a tale compito?

«La scuola deve venire incontro ai bisogni speciali dei diversi, che possono essere riferiti ad una situazione di disabilità o di diversa cultura, di diversa mentalità o di svantaggio socio culturale. Mi sembra che la riforma Moratti non abbia costruito niente per venire incontro a queste diversità: il modello proposto dalla riforma non tiene conto delle differenze, delle diversità.
La mia preoccupazione è che la riforma vada nella direzione di dare risposte su misura, che poi è anche il discorso di fondo della Moratti: la scuola su misura. Ebbene, secondo me la scuola su misura può avere anche dei rischi, perché questo presuppone che io debba dare risposta direttamente alla persona, senza creare un contesto educativo, senza lavorare sul contesto. Lavoro sulle persone, mi concentro sul singolo, che sono comunque cose importanti, ma credo che la scuola debba partire essenzialmente dalla costruzione del contesto, per poi dare eventualmente risposte anche al singolo».

In che misura l’educazione avviene tramite il contesto?

«L’apprendimento è qualcosa che si sviluppa nella relazione, e la relazione deve avvenire non tra pari nel gruppi, ma tra chi sa e chi non sa. Se non si crea un contesto che aiuta ad apprendere, che aiuta a costruire le relazioni, che aiuta la comunicazione, che motiva all’apprendimento, l’insegnate crea tante scatole chiuse che non interagiscono tra di loro, e quindi non crea integrazione».

Quali dovrebbero essere le strategie che la scuola mette in atto al fine di creare integrazione?

«Le risposte sono ad affrontare sul piano metodologico didattico, soprattutto nella scuola secondaria, che è sempre stata più carente rispetto alla primaria. Infatti nella scuola secondaria la competenza metodologica didattica è scavalcata dal disciplinarismo: il contenuto prende il sopravvento sul modo in cui si insegnano, si pensa che basta sapere per insegnare, e questo non è vero. Proprio perché ci troviamo di fronte ad una diversa capacità di apprendere, perché i soggetti sono diversi, ci sono anche diverse modalità di apprendere. Quindi l’insegnante (ovviamente insieme alla scuola) deve costruire un insegnamento individualizzato, ma non individuale, ossia deve proporre i saperi con la consapevolezza che ci sono diverse possibilità di modalità di apprendimento. Deve cioè costruire delle situazioni che mettano le persone nella condizione di apprendere secondo le proprie capacità e conoscenze, e non secondo le proprie mancanze».

In quali tappe ciò dovrebbe avvenire?

«L’insegnante deve prima di tutto avere un quadro di conoscenza preciso delle situazioni che si trovo di fronte, e poi su questo costruire e organizzare il proprio lavoro didattico. Bisogna costruire degli apprendimenti in modo che tutti siano messi nella stessa condizione di poterlo fare. L’insegnante deve costruire il saper in modo che l’altro apprenda. Questo in parte si riesce già a fare in molte scuole elementari e materne, molto meno dalla scuola media in poi».

E il fatto che questo processo avvenga maggiormente alle elementari piuttosto che dalle medie in poi, è dovuto forse al fatto che la maestra sta più tempo con l’alunno anziché il professore?

«Questo è un altro punto che la riforma Moratti ha sottovaluto: il tempo pieno come tempo utile e necessario all’integrazione. Esistono tempi diversi nell’apprendimento, c’è chi ha bisogno di tempi più lunghi o chi ha bisogno di maggiori riflessioni. Il tempo pieno assolve anche a questo compito: rispettare i tempi di tutti».

Sintetizziamo i limiti della riforma

«La riforma è troppo legata a standard individuali. Il rischio è che quando si entra in un percorso difficilmente se ne esce: le classi di livello, che la riforma introduce, nascono in funzione delle mancanze degli alunni e non delle potenzialità, che invece sono dimenticate. Manca l’input a lavorare più sui contesti formativi, un contesto che conosca i soggetti nella propria individualità, quindi anche con modalità diverse di apprendere. E infine c’è la mancanza di un intervento pedagogico didattico, ossia non c’è riferimento alle strategie che l’insegnante debba mettere in atto per venire incontro ai bisogni di tutti e di ciascuno».


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 FIVOL    - 10-09-2004
L'intervista completa:


Il contesto che aiuta a crescere

Intervista a Lucia De Anna, docente di Pedagogia Speciale e direttore del Dipartimento di Scienza della formazione dell'attività motoria e dello sport all'Iusm, Istituto universitario di scienze motorie.

Qual è secondo lei la funzione della scuola rispetto l'attivazione di processi d'integrazione, e la riforma Moratti assolve a tale compito?

«La scuola deve venire incontro ai bisogni speciali dei diversi, che possono essere riferiti ad una situazione di disabilità o di diversa cultura, di diversa mentalità o di svantaggio socio culturale. Mi sembra che la riforma Moratti non abbia costruito niente per venire incontro a queste diversità: il modello proposto dalla riforma non tiene conto delle differenze, delle diversità.
La mia preoccupazione è che la riforma vada nella direzione di dare risposte su misura, che poi è anche il discorso di fondo della Moratti: la scuola su misura. Ebbene, secondo me la scuola su misura può avere anche dei rischi, perché questo presuppone che io debba dare risposta direttamente alla persona, senza creare un contesto educativo, senza lavorare sul contesto. Lavoro sulle persone, mi concentro sul singolo, che sono comunque cose importanti, ma credo che la scuola debba partire essenzialmente dalla costruzione del contesto, per poi dare eventualmente risposte anche al singolo».

In che misura l'educazione avviene tramite il contesto?
«L'apprendimento è qualcosa che si sviluppa nella relazione, e la relazione deve avvenire non tra pari nel gruppi, ma tra chi sa e chi non sa. Se non si crea un contesto che aiuta ad apprendere, che aiuta a costruire le relazioni, che aiuta la comunicazione, che motiva all'apprendimento, l'insegnate crea tante scatole chiuse che non interagiscono tra di loro, e quindi non crea integrazione».

Quali dovrebbero essere le strategie che la scuola mette in atto al fine di creare integrazione?

«Le risposte sono ad affrontare sul piano metodologico didattico, soprattutto nella scuola secondaria, che è sempre stata più carente rispetto alla primaria. Infatti nella scuola secondaria la competenza metodologica didattica è scavalcata dal disciplinarismo: il contenuto prende il sopravvento sul modo in cui si insegnano, si pensa che basta sapere per insegnare, e questo non è vero. Proprio perché ci troviamo di fronte ad una diversa capacità di apprendere, perché i soggetti sono diversi, ci sono anche diverse modalità di apprendere. Quindi l'insegnante (ovviamente insieme alla scuola) deve costruire un insegnamento individualizzato, ma non individuale, ossia deve proporre i saperi con la consapevolezza che ci sono diverse possibilità di modalità di apprendimento. Deve cioè costruire delle situazioni che mettano le persone nella condizione di apprendere secondo le proprie capacità e conoscenze, e non secondo le proprie mancanze».

In quali tappe ciò dovrebbe avvenire?

«L'insegnante deve prima di tutto avere un quadro di conoscenza preciso delle situazioni che si trovo di fronte, e poi su questo costruire e organizzare il proprio lavoro didattico. Bisogna costruire degli apprendimenti in modo che tutti siano messi nella stessa condizione di poterlo fare. L'insegnante deve costruire il saper in modo che l'altro apprenda. Questo in parte si riesce già a fare in molte scuole elementari e materne, molto meno dalla scuola media in poi».

E il fatto che questo processo avvenga maggiormente alle elementari piuttosto che dalle medie in poi, è dovuto forse al fatto che la maestra sta più tempo con l'alunno anziché il professore?

«Questo è un altro punto che la riforma Moratti ha sottovaluto: il tempo pieno come tempo utile e necessario all'integrazione. Esistono tempi diversi nell'apprendimento, c'è chi ha bisogno di tempi più lunghi o chi ha bisogno di maggiori riflessioni. Il tempo pieno assolve anche a questo compito: rispettare i tempi di tutti».
Sintetizziamo i limiti della riforma
«La riforma è troppo legata a standard individuali. Il rischio è che quando si entra in un percorso difficilmente se ne esce: le classi di livello, che la riforma introduce, nascono in funzione delle mancanze degli alunni e non delle potenzialità, che invece sono dimenticate. Manca l'input a lavorare più sui contesti formativi, un contesto che conosca i soggetti nella propria individualità, quindi anche con modalità diverse di apprendere. E infine c'è la mancanza di un intervento pedagogico didattico, ossia non c'è riferimento alle strategie che l'insegnante debba mettere in atto per venire incontro ai bisogni di tutti e di ciascuno».