Laicità
Emanuela Cerutti - 21-04-2001
La domanda è frequente, da parte degli alunni stranieri: “Perché è vacanza?”
Succede soprattutto a Pasqua, festa di difficile comprensione per religioni diverse e, forse, meno conosciuta e commercializzata del Natale (nonostante le uova da 5 milioni di cui si parla in televisione!):
La spiegazione è laboriosa e suscita sempre il tipico dubbio da “insufficienza di motivazione”, che più di un insegnante vive al riguardo.
Il rapporto scuola-religione non è né scontato, né chiarito in modo soddisfacente.
C’è un’abitudine, culturalmente e storicamente” innestata”, che fa acqua da più parti.
Aumenta il numero delle persone il cui tempo è scandito da altri ritmi e da altre ricorrenze, che si riconoscono in altri credo, che si adeguano a norme pubbliche lontanissime e riservano al privato le espressioni più sentite dalle proprie tradizioni.
Il differente trattamento balza sempre più all’occhio e, qualche volta, quasi lo si volesse giustificare, scappano frasi del tipo :” Se sono venuti qua prendono quello che trovano!” “ Certo che se mettiamo a disposizione le risorse e poi quelli mancano in massa per la festa dell’agnello!” “ La mensa non è un ristorante: il prosciutto fanno il piacere di mangiarlo!” “ Veramente da maleducati a portare i chador!” “Attività alternativa? Mettilo in fondo all’aula e lascia che faccia i compiti”.
A parte un’irrinunciabile questione di rispetto; a parte il mio personale non capire cosa ci sia di maleducato neppure nel tenere in classe il cappellino straurlo; a parte la convinzione che un modo seriamente alternativo di affrontare il discorso religioso eviterebbe una serie non piccola di “disagi”e permetterebbe aperture impensate, non credo si tratti di cattiveria: è semplicemente questione di confini.
Qualunque paletto, qualunque palizzata altro non è che una difesa, quindi l’espressione visibile di una paura: a volte utile e persino necessaria, a volte esagerata rispetto al valore del tesoro protetto, a volte finta, per l’orgoglioso non voler cedere un primato inesistente.
Smetterei di credere in Dio se a scuola venisse eliminato l’IRC? Mi sentirei tradito o abbandonato se, grazie alla flessibilità oraria, calendario interculturale e briciola di buon senso in mano, si introducessero giorni di vacanza diversificati? Rischierei un fallimento se non aprissi l’anno scolastico con la Messa, o le lezioni con le preghiere collettive?
Senza entrare nel merito della coerenza e delle scelte conseguenti. Senza chiedersi troppo che cosa vivano le famiglie a proposito di autonomia educativa o formativa e come mai tendano a delegare all’esterno anche la delicatissima sfera delle scelte personali. Senza citare gli infiniti dibattiti sul problema creazionismo-evoluzionismo che contrappongono insegnanti e catechisti, insegnanti e studenti, quando non capi d’istituto ( magari cattolici) e docenti (magari di filosofia).
Non amo abbattere tradizioni che fanno di gruppi umani un popolo, che rafforzano un’appartenenza non formale, ma mi chiedo se esistano realmente le condizioni per mantenerle vive all’interno di un contesto multiculturale ala ricerca di nuove regole di convivenza.
Penso alle vacanze scolastiche francesi, chiamate con i nomi delle stagioni, e mi tornano in mente le origini di tantissime feste “pagane”, radicate in quel rapporto uomo-natura, che sa di sfida, di avventura, di coraggio e di umiltà. Qualunque vestito gli abbiamo messo addosso, è il rapporto più autentico e più essenziale, in grado di accomunare gente delle contrade più lontane, riconoscendosi abitanti dello stesso pianeta , coinvolti in destini incrociati, che è possibile affrontare insieme.
Certo, è tutto da costruire e tutto terribilmente nelle nostre mani.
Grossa responsabilità.
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