breve di cronaca
Sicilia, la scuola delle caste
La Repubblica - 14-02-2002
Mentre dal ministero vogliono darci a bere che un ragazzino di tredici anni e mezzo possa scegliere il percorso professionale della propria vita; che servano quattro anni nella fascia dell'obbligo a una scuola regionale professionale per formare un lavoratore (fornendo magari, nel contempo, alle imprese, giovani factotum a costo zero col sistema «dell'alternanza scuolalavoro»); che esistano ancora al mondo mestieri che possano essere insegnati a scuola in quattro anni più uno: cosa? Il sarto, l'ebanista, il tornitore, il fabbro, il doratore, il fresatore, come al tempo di De Amicis mentre la Moratti vuole farci credere che la sua spaccatura della scuola dell'obbligo in due, istruzione culturale e formazione professionale, crei davvero una «scuola professionalizzante», e non sia la spicciola malthusiana eliminazione su basi classiste (e di fatto anche razziste) dei giovani che portano disagi, di cui non sono responsabili, dalla società nella scuola mentre, insomma, cercano di propinarci favole di regime, qui in Sicilia sperimentiamo da subito con mano la realtà della scuola al tempo di Berlusconi.
L'assessore Granata, qualche giorno fa, con atto dovuto, ha decretato la parificazione al sistema pubblico di novanta istituti privati regionali. Scorrerne l'elenco offre la rassegna di noti diplomifici alternati con scuole confessionali. Ora, grazie al combinato disposto di parificazione più abolizione della commissione esterna agli esami di Stato, possiamo da subito essere certi positivamente di un paio di cose.
Primo, vi saranno, nella nostra repubblica, centinaia e poi col tempo migliaia di ragazzi che avranno più o meno comprato il loro diploma.

Secondo, vi saranno centinaia di ragazzi, e col tempo migliaia, che per tutto il loro curricolo scolastico mai si saranno confrontati, nemmeno all'esame finale di Stato, con una versione laica di quanto imparato in scuole religiose; che la versione laica di quanto appreso potranno puramente e semplicemente ignorarla per tutto il loro curricolo dal momento che nessuno mai, nemmeno all'esame finale, gliene chiederà seriamente di riferire in colloqui articolati (e non in test di valutazione nazionale tutti da ridere).
Al nocciolo di tutte le specifiche analisi, la realtà della scuola che si apre di fronte a noi è questa. Esisteranno i seguenti tipi di scuole tutte «pubbliche» e a composizione variabile: le scuole per gli asini ricchi che pagano il successo scolastico; le scuole regionali dell'«avviamento professionale» senza ritorno (nonostante le virtuali passerelle), per chi a tredici anni teme che non ce la farà; le private di qualità per oligarchi; le scuole confessionali; e infine quello che resta delle vecchie scuole pubbliche statali. Quale, tra queste scuole, il vaso di coccio tra i vasi di ferro, è facile capire.
Questo è il nostro regime. Come diceva Montanelli, c'è poco da fare, Berlusconi è una malattia della crescita che gli italiani debbono provare per vaccinarsene. E a scuola lo stiamo provando. Agiscono come se dovessero scrivere su una pagina bianca. Insofferenti di diritti, tradizioni, esperienze consolidate e della vasta opposizione silenziosa o clamorosa che monta nelle scuole.
Il punto non è semplicemente il degrado, la mortificazione e la dequalificazione cui si costringe, con una serie infinita di micro e macro provvedimenti, il mondo della scuola pubblica. Il punto è che questa frantumazione del sistema scolastico, in ordini differenziati per giovani variamente differenziati sotto il profilo sociale o culturale, di capacità e attitudini, di religione o ideologie, minaccia il carattere pubblico dell'istruzione nel suo spirito stesso. La separazione morattiana tra scuole distrugge il sistema pubblico ben oltre la distinzione privato statale, cattolico laico. Perché comporta la abrogazione del luogo civico di tutti, dove tanti diversi si incontrano da pari a pari a prescindere dalle condizioni di partenza. Basta fare un esempio elementare. In quanti altri luoghi che non siano la scuola, ragazzi di origini sociali e culturali lontanissime possono fare amicizia?
Le società hanno bisogno di luoghi civici dove ci si incontra da pari. E questi non sono e non possono essere né i luoghi dove si lavora né i luoghi dove si consuma. Altrimenti il patto sociale che le lega assieme si rompe. La differenza tra chi è democratico e chi non lo è, oggi, è proprio questa: chi non è democratico non teme il restringersi di questi spazi, il democratico vuole ampliarli. Dice un acuto sociologo americano: il pericolo delle nostre società non è tanto la mera disuguaglianza economica, quanto che questa porta alla compartimentazione, cioè alla scomparsa dei luoghi di incontro da pari a pari, quello che lui chiama «la ribellione delle élite» che si separano dal resto e cessano il loro ruolo di guida. E, come argomentava Hannah Arendt, è la condizione di cittadino che conferisce l'eguaglianza, non l'eguaglianza che crea il diritto di essere cittadino. Meno sono i luoghi di incontro da pari e pari, come la scuola pubblica nella sua unità, meno sono le occasioni che formano e realizzano la condizione di cittadino. In una parola: meno scuola pubblica unica, meno società.
Ed è stupefacente, in questo panorama, che la Chiesa, e quella parte di opinione pubblica che le è più legata, non veda bene il rischio costituito dal disegno morattiano. Essere lieti per i soldi statali dati alla scuola cattolica, considerarli il giusto guiderdone e star contenti e soddisfatti, è proprio di chi, come ha detto il vescovo Micciché, accetta il piatto di lenticchie. I cattolici hanno molto più bisogno di uno spazio scolastico aperto unico e di tutti, che di aver finanziati i loro ghetti religiosi. Non possono rinunciare alla scuola come comunità, come microsocietà, dove lanciare il loro messaggio e esercitare la loro testimonianza, sol perché tra i vari ghetti, alcuni dorati altri miserabili, i loro monoconfessionali ottengono un posto in prima fila. A meno di non cedere l'ecumenismo di parlare a tutti, per rifugiarsi in un ruolo da setta religiosa con le sue piazzeforti.
Maurizio Barbato

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