Piccoli, soli. Se chiude u' culleggio
commento - 28-05-2004

Dieci anni di lavoro e aggiustamenti legislativi per arrivare all'abolizione degli «istituti socio-educativi destinati all'infanzia», istituzioni totali che avevano il compito di segregare i figli del disagio sociale. Saranno sostituiti da case-famiglia, comunità alloggio e simili

Iaia Vantaggiato sul Manifesto

Sono un milione e seicentomila gli adolescenti campani. Un cifra pari al 35% dell'intera popolazione regionale: in nessun'altra parte d'Italia è possibile registrare una percentuale così alta. Così che è facile dire che, sotto al Vesuvio, vive ancora il maggior numero di minori reclusi in istituto. Ma la storia è un po' più complicata e - perché no? - più ricca di piacevoli sorprese. E' il 1992 quando la Regione Campania definisce i servizi residenziali per i minori e tra questi contempla - oltre alle comunità alloggio e a quella cosiddette di tipo familiare - anche gli istituti di tipo educativo.

E ad andare «forte» - in una realtà che registra una sempre maggiore povertà - sono proprio questi ultimi. Dire «Figl'm va' u' culleggio» suona quasi come un proclama di riscatto sociale. Ma «u' culleggio» - negli anni tra il `92 e il `94 - non ci vanno solo i poveri. Il disagio dei genitori - camorristi, alcolisti, tossicodipendenti - colpisce i bambini. Tante le madri che vivono sulla strada, tanti i padri che si guadagnano la vita facendo i «femminielli».

Di fronte ad un'infanzia «in odor di criminalità» è sempre meglio correre ai ripari: il ricorso all'«istituto» diventa asse portante delle politiche assistenziali e la reclusione diventa un modo per congelare o isolare qualsiasi problema. Che scompare, diventa invisibile: così liberando la collettività intera da ogni peso o responsabilità. Perché alla vita dell'istituto ci pensa l'istituto. Che - in tutto e per tutto - è autoreferenziale: con i suoi medici, i suoi preti, i suoi insegnanti e - persino - il «suo» tempo libero. Libero da che, nessuno l'ha mai saputo.

E tuttavia, la delibera del 1992 qualche vantaggio l'ottiene: gli istituti già esistenti - per continuare ad esistere ed ottenere l'autorizzazione dalla Regione - devono attenersi al rispetto di alcune regole: un tetto di massimo quaranta ragazzi e il divieto d'ingresso - all'interno delle strutture - dei minori di tre anni.

Non sembri poca cosa perché è grazie a questi piccoli «aggiustamenti» che scompaiono gli edifici di grosse dimensioni, quelli coercitivi, quelli dalle ore cadenzate e uguali per tutti; quelli che a nessun ragazzo consentivano - una volta fuori - di avere una vita normale.

Ma siamo solo ai primi degli anni Novanta. Poi qualcosa cambia quasi all'improvviso. Non si dilungano in chiacchiere, Maddalena Poerio e Angelo Visconti - dirigenti dell'assessorato alle politiche sociali della Regione Campania - che preferiscono mostrarci carte e dati: dopo solo un paio d'anni dalla delibera del `92 sarebbero precipitosamente calate le richieste per l'internamento negli istituti e proporzionalmente aumentate quelle per l'affido dei minori a «comunità alloggio» e di tipo familiare.

E' del 2000, la legge quadro che riordina il sistema e che attribuisce ai comuni la funzione di autorizzare il funzionamento dei servizi residenziali e semiresidenziali. A stabilire i requisiti è ancora la Regione che - a sua volta - si attiene ai requisiti già stabiliti dal governo. Ma il motore che muove l'intero meccanismo è una potente locomotiva umana che brucia - manco fosse carbone - solidarietà, affetto, competenza e professionalità.

E' il decreto ministeriale 308 del 2002 che finalmente sancisce l'abolizione degli istituti socio-educativi destinati all'infanzia. A loro posto - dice la legge - sorgeranno case famiglia, comunità di dimensione familiare, comunità alloggio, gruppi appartamento e comunità di pronta e transitoria accoglienza. Le denominazioni cambiano da regione a regione ma minime risultano le differenze. Ma per ora siamo in Campania. Nelle case famiglia - le uniche nelle quali possano essere ospitati bambini di età non superiore ai sei anni - è necessaria la presenza di una coppia che in quella casa risieda. Sposata o non sposata, eterosessuale o omosessuale che sia. Una coppia, comunque, che decida di farsi carico - a titolo gratuito o con un limitatissimo contributo statale pari a un quasi mai puntuale rimborso spese - di una piccola tribù di bambini bisognosi. Di affetto, cure, vaccinazioni, cibo, lenzuola profumate e - se scappa - pure qualche lezione di danza.

E che la danza non vi sembri nota stonata. Capitiamo a Napoli nel pieno dell'emergenza rifiuti. I dati fornitici dall'assessorato li abbiamo già analizzati in mattinata ma Poerio e Visconti non ci mollano. «Devi capire. E per capire dobbiamo andare dove i soldi non ci sono per davvero». Destinazione Poggiorale, quartiere Luzzatti: con noi, un autista che fa finta di brontolare ma che - in realtà - per accompagnarci ha rinunciato al suo giorno libero. Alla faccia del lassismo meridionale.

Fatichiamo a trovare la piazza, i rifiuti nascondono Napoli ma alla fine arriviamo. Il condominio è immenso, sembra Napoli dentro un'altra Napoli. E il citofono non ci aiuta. Poi, all'improvviso, un rumore di piedi scalpitanti alle nostre spalle: ci voltiamo, è un attimo, sono un esercito. O almeno così ci appaiono. Hanno dai tre ai sei anni e sono solo la più piccola parte dell'intero reggimento che vive a casa della signora Liliana Pagano nonché di suo marito e dei suoi tre figli. Liliana ci accoglie sorridendo: «Non vi aspettavo più», dice tentando inutilmente di togliersi il grembiule al quale si aggrappa con tenacia un grappolo di bambini. Di tutti è fiera allo stesso modo ma è dalla più piccola - undici mesi - che ci porta con orgoglio. «In quindici giorni è tanto cresciuta che la madre - quando l'ha vista - manco l'ha riconosciuta». Perché, le chiediamo, i genitori possono venire a trovare i bambini? «Sempre, anzi `devono' perché è con i genitori che i bambini devono tornare. Noi possiamo solo aiutarli nei momenti di maggiore difficoltà». La casa è grande, luminosa. Una cinquenne sinuosa danza nel suo tutù. Ogni stanza ha solo due letti, il sole entra dappertutto e la signora Angela ha chiesto al comune un commodato d'uso per il terreno abbandonato davanti a casa sua: «Ci pensate? Un bellissimo campo giochi per i bambini del quartieri». Intanto, confessa, a casa nostra c'è un bambino in più rispetto a quelli previsti dalla legge: «Ma erano tre fratelli, non mi ha fatto il cuore di dividerli. E il tribunale mi ha dato il permesso». Intorno a noi solo cumuli di immondizie e una bambina bionda che danza in tutù.

Nel suo lavoro, la signora Liliana è aiutata - oltre che dalla figlia - da una equipe di psicologi, medici e pediatri. E dall'assessorato alle politiche sociali della regione campana ora diretto da Adriana Buffardi. Nelle parole della signora Liliana, c'è il senso di una intera pratica politica: laddove un bambino o una bambina sono in difficoltà, lì il primo intervento va fatto sulla famiglia. Solo dopo, si può pensare ad un eventuale affido. Solo dopo infine, si può pensare all'adozione: e solo se dovesse essere accertato lo stato di abbandono.

Ma il nostro autista non demorde e - a fine giornata - ci porta (naturalmente in contromano) alla comunità di accoglienza di tipo familiare per minori «Casa Irene». Niente tutù, un'altra età, un'altra storia.


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