L'ingaggio
TOMMASO DI FRANCESCO
Un soldato italiano, un giovane di 23 anni, è stato ucciso, molti altri sono stati feriti. Decine e decine sono i morti iracheni. La notte di Nassiriya s'illumina delle cannonate dei tank Centauro, i comandi militari chiamano, vogliono sapere che devono fare, non vorrebbero vedere - dicono - perdite «da nessuna parte». Dov'è la missione umanitaria di pace? I nostri soldati ormai sono sotto assedio, stretti dall'insorgenza di milizie sciite ormai appoggiate anche da quelle sunnite, e alternano autodifesa a attacchi, sortite e rastrellamenti. I raid aerei degli americani fanno capire che c'è l'occasione perché le truppe inviate dall'Italia siano ingaggiate, senza possibilità di ritorno, «finalmente» nella battaglia. Siamo sull'orlo dell'abisso, ben sapendo che nell'Iraq allargato Nassiriya è solo una cronaca dell'inferno generale, come dimostra l'uccisione ieri in un attentato del capo del consiglio provvisorio iracheno filoamericano, e dove la guerra preventiva di Bush è nel disastro, sotto accusa in patria rispetto ai suoi scopi dichiarati dopo la «scoperta» delle torture. Lì, a Nassiriya, i soldati italiani sono nel mirino e in piena guerra da mesi, dopo la strage del 12 novembre 2003 e la battaglia dei ponti del 6 aprile scorso. Ma il presidente del consiglio responsabile di averli inviati continua nella menzogna e ieri ha mandato a dire che loro, i soldati, «devono sentirsi orgogliosi». Non basta. Chiede il silenzio alla famiglia del soldato morto, così come ha già chiesto il silenzio per le famiglie degli ostaggi. Quel che bisogna fare infatti lo ha gridato disperata la famiglia dell'ucciso: «Dov'è la pace in Iraq? Portiamo via subito quei soldati». Dal governo e dalle forze della maggioranza l'unica risposta è un deserto di omertà. L'alta preoccupazione del Colle - a parole, da Roma - fa tutt'uno con la richiesta dei presidenti di camera e senato di evitare «strumentalizzazioni». Insomma, silenzio e ancora silenzio. E bavaglio alla verità.
Perché questo governo vorrebbe invece in questo momento doloroso una sorta di Giarabub, l'avamposto-fabbrica di eroi che nella Seconda guerra mondiale teneva alta la popolarità della guerra contro l'Inghilterra che avrebbe dovuto vedere la sua fine proprio da Giarabub, e dove i soldati non chiedevano pane ma «piombo per i loro moschetti» - così inventava la propaganda del regime fascista.
Ora sappiamo che le regole d'ingaggio dei militari sono misteriose perfino per i parlamentari, sappiamo comunque che non hanno né il mandato, né la forza di aprire un'offensiva vera e propria. Sono utili solo per il tiro al piccione. Bersaglio vivo da gettare sul piatto dell'alleanza del fronte dei volenterosi angloamericani che hanno avviato la guerra a tutti i costi e sul piatto della benevolenza di Bush.
Alziamo la voce, come fanno i familiari delle vittime italiane. Basta con l'inganno della missione umanitaria, lo chiede esplicitamente anche la non certo bolscevica assemblea dei vescovi italiani. Basta con l'attesa dell'ormai fatiscente passaggio di poteri del 30 giugno, una data mitologico-teatrale dell'agenda di guerra di chi - come Bush, Blair e Berlusconi - ha ripetuto in questi giorni che resterà in armi anche dopo quella data. Dicono per difendere la democrazia e l'Occidente minacciati dal terrorismo, non dicono per il petrolio. Come dimenticare, in queste ore, che l'Italia inviò le sue truppe al seguito dell'intervento militare americano ben prima di qualsiasi risoluzione dell'Onu?
Ritiriamo subito le truppe, come ha fatto, con coraggio - questo è il punto - Zapatero, il primo ministro di un paese che ha pagato un prezzo ben più alto. E' l'unico vero ingaggio che dobbiamo percorrere e verso il quale ci sentiamo impegnati. Solo il ritiro e quindi la solitudine degli Stati uniti sono davvero capaci di preparare un prossimo e più reale sostegno ad una soluzione negoziale e di pace per il futuro dell'Iraq, per una presenza delle Nazioni unite credibile agli occhi di tutti gli irachene e finalmente non subalterna alla guerra e alle sue logiche.
Altre regole di ingaggio?
MATTEO BARTOCCI
I militari italiani a Nassiriya sono in condizione di «difendersi in modo adeguato» nella ormai evidente situazione di guerra in Iraq? E una guerra che continua a uccidere anche i nostri soldati (come dimostra la morte del 23enne Vanzan) è compatibile con la nostra Costituzione, che all'articolo 11 la ripudia espressamente? Se a questa seconda domanda il ministro della difesa Martino risponde che quella in Iraq è ancora una «missione di pace, perché noi non spariamo addosso alla gente», certo la situazione dei soldati angoscia profondamente i comandi militari di «Antica Babilonia». In sostanza, ci si chiede da più parti se le regole di ingaggio (in gergo «Roe») previste per il nostro contingente vadano cambiate o meno. Ma se cambiassero, non significherebbe certificare che si tratta di un'operazione diversa da quella autorizzata dal parlamento? Sono questioni non certo secondarie, soprattutto in una settimana decisiva per il futuro dell'Iraq e della presenza italiana. Ciampi ha raccolto le preoccupazioni dei militari e ha voluto verificare di persona tanto le regole di ingaggio che la situazione del contingente a Nassiriya, convocando a Castelporziano il ministro Martino e il capo di stato maggiore, l'ammiraglio Giampaolo Di Paola. Almeno per il momento sembra che le regole di ingaggio di «Antica Babilonia» non saranno cambiate, conterrebbero già la «duttilità» richiesta dai generali sul campo. Lo affermano a chiare lettere uno dopo l'altro sia Martino che Di Paola, oltre al responsabile del comando operativo interforze generale Filiberto Cecchi.
I soldati italiani in sostanza sono agli ordini degli inglesi. E le loro regole di ingaggio prevedono di rispondere al fuoco solo per autodifesa e con un «uso proporzionato e graduale della forza, esercitato al livello più basso possibile». L'impiego effettivo delle armi è contenuto in una direttiva ministeriale e nel conseguente «ordine di operazioni» (secretati). Per fare un esempio, i soldati non possono rispondere con i cannoni dei Centauro a chi gli spara con dei fucili. «Né possono attaccare per primi, se non di fronte a una 'minaccia evidente'», spiega il gen. Carlo Cabigiosu, ex consigliere militare dell'ambasciata italiana a Baghdad. Tuttavia l'uso delle armi è consentito anche di fronte a un «intento ostile», aggiunge Cabigiosu, una precisazione forse sufficiente a soddisfare le angosce dei soldati sul campo. In ogni caso, di fronte a un dubbio o a una situazione imprevista, i comandanti sul terreno devono consultare la propria catena di comando, se necessario fino a Roma. Insomma, i militari italiani in Iraq si sentono con le mani legate e, a quanto sembra, stanno tentando in tutti i modi di liberarsele. Una richiesta che i falchi interni al governo e alla maggioranza (come il ministro della giustizia Castelli e Gustavo Selva di An) non esiterebbero ad esaudire. Al di là delle smentite ufficiali, infatti, le pressioni dei militari sui vertici politici sono altissime, la drammatica situazione sul campo richiede decisioni e responsabilità certe. Il caos della gestione politica è evidente.
Una cosa sembra certa: autodifesa e proporzionalità nell'uso della forza non sono in discussione. E cambiare le regole di ingaggio vorrebbe dire certificare l'illegittimità della presenza italiana, azzerandone il già esilissimo contenuto umanitario. Un certificato che il governo non vorrebbe stilare, tanto meno prima dell'infuocato dibattito parlamentare di giovedì. In cambio, quindi, per ora i militari hanno ottenuto un notevole rafforzamento dei mezzi blindati e delle armi in loro dotazione.