RITORNO A DON LORENZO MILANI. A 50 ANNI DAL SUO ESILIO.
A 50 anni dal suo esilio torna di attualità don Lorenzo Milani. Una circostanza che verrà ricordata attraverso iniziative diffuse su tutto il territorio nazionale e tra cui si segnala la terza edizione de La marcia di Barbiana, a metà maggio, a cui hanno dato la loro adesione molte sigle sindacali e culturali. Ma ci siamo anche noi di Scuolaoggi, con un convegno che abbiamo promosso con il liceo Berchet che vanta tra i suoi alunni lo stesso "priore", e il Comune di Vicchio, il prossimo 12 maggio presso la Sala Barozzi dell'Istituto dei ciechi
di via Vivaio a Milano.
Fa da tema del convegno una frase di Lettera a una professoressa:
"Non tutti gli esseri umani nascono eguali. Se poi crescendo non sono, tocca a noi rimediare".
Un messaggio che riteniamo oggi più che mai significativo e attuale. Tornare a don Milani può significare ricominciare a ragionare su quel che deve essere la scuola. Un'operazione culturale importante soprattutto in un tempo come questo in cui il "priore" viene tirato per i capelli per giustificare le posizioni più ambigue e superficiali. Per questo Scuolaoggi ripropone un ripensamento sul messaggio di don Milani. E lo fa sin da ora pubblicando un'intervista di Susanna Cressari a Tullio De Mauro.
Un maestro che ci aiuta a rileggere l'esperienza del "priore".
Professor De Mauro, quando sentì parlare per la prima volta di Don Milani?
Ho incontrato alcune volte padre Ernesto Balducci a Roma già nei primi anni sessanta, ma non ricordo di aver sentito da lui il nome di don Lorenzo Milani. Il primo a farmene il nome, a mia memoria, fu mio fratello Mauro. Era giornalista a Palermo e le carambole accademiche avevano portato a Palermo anche me, a insegnare Glottologia. Un giorno mio fratello mi chiese se conoscevo anch'io uno strano prete (disse così) che stava in un paese sperduto di montagna e di cui gli parlavano in continuazione due suoi colleghi giornalisti che, come lui, seguivano i processi di mafia. I due amici, che si chiamavano Mario Cartoni e Giorgio Pecorini, gli raccontavano che appena potevano si mettevano in macchina e da Milano o Firenze salivano nel paese sperduto a incontrare lo strano prete che, tra tutti i giornalisti, parlava solo con loro due e cacciava via gli altri. Mio fratello insisteva: dovresti andarlo a conoscere, si occupa di cose di cui anche tu ti interessi. Dico tutto questo anche a mia vergogna: avevo finito da poco e pubblicato un libro sulla storia linguistica dell'Italia unita e, per ricostruire le vicende linguistiche di questo nostro paese, mi ero accorto che bisognava partire dalla scuola o, meglio, dalla mancata scolarità (anche oggi qualcuno non vede quanto è evidente e forte questo nesso, specie in Italia). Così ero sprofondato nella ricerca e sistemazione sui dati della mancata scolarità e dell'analfabetismo. Tra 1958 e 1962 avevo messo insieme dati (allora dispersissimi) su questi fenomeni: esattamente quello che già aveva fatto anni prima don Lorenzo in "Esperienze pastorali". Ma del libro allora non sapevo niente. E nemmeno sapevo che nelle conclusioni del mio lavoro (la disparità del possesso della lingua comune come fattore nascosto e decisivo di disparità sociale) ero stato preceduto non solo da Ascoli, Croce e soprattutto, in termini generali, Gramsci (autori che invece conoscevo e di cui avevo fatto tesoro), ma da don Lorenzo e con tutta la forza e la nettezza che gli era propria: "E' la lingua che ci fa eguali". Anche dei due giornalisti allora conoscevo solo, attraverso mio fratello, i nomi e la passione.
Poi però conobbe e si interessò a questa esperienza?
Lo "strano prete" cominciai a conoscerlo meglio, di nome, durante il processo a lui e a "Rinascita". Poi, nella primavera del 1968, mi arrivò un librino bianco mandatomi da amici fiorentini: "Lettera a una professoressa". Fu una scossa intellettuale ed emotiva per me come per tanti. Don Lorenzo era morto. Entrai in contatto con la madre, che era incerta se e dove pubblicare le lettere private del figlio: pensava a Laterza. Con Vito Laterza ricordo che una sera leggemmo i dattiloscritti delle lettere, con emozione. Ma intanto Donato Barbone che lavorava alla Mondadori ci precedette. Alice Milani ci comunicò la diversa destinazione editoriale. Recensii il volume mondadoriano in "Paese sera". Diventai amico di Giorgio Pecorini e Mario Cartoni. Don Milani diventò un punto di riferimento essenziale per noi che ci occupavamo non solo di linguistica, ma di educazione linguistica e di scuola.
E' mai stato a Barbiana?
Solo anni dopo, nel 1972 o 1973, sono salito a Barbiana quando con Umberto Eco e il regista Piero Nelli (e la presenza attiva di Fabiano Fabiani e Enzo Golino, allora funzionari RAI) abbiamo fatto un ciclo di trasmissioni televisive, "Parlare, leggere, scrivere", che culminavano proprio nella e con l'esperienza di don Milani. Negli anni sono poi tornato più volte a Barbiana e a Vicchio per ricorrenze e convegni su don Milani e, ovviamente, a Pisa e a Firenze. Ho potuto conoscere la madre, Alice, ed Elena Polacco, la sorella, personalità eccezionali, e poi molti degli alunni di don Lorenzo. E sempre (lo confesso) entro con grande emozione nelle povere stanze della scuola.
Don Lorenzo Milani scelse la scuola come leva fondamentale della sua attività. E ancora oggi don Milani viene ricordato essenzialmente più come "maestro" che come "prete". Quali sono le radici, i valori fondanti di questa sorta di "fondamentalismo scolastico" che oggi sembra perduto?
Io sono un "fondamentalista scolastico". Ho citato prima Graziadio Isaia Ascoli, ma su questo punto occorre aggiungere i nomi di almeno altri due padri della nostra patria, che troppo spesso li ricorda solo per appenderli al muro in una cornice: Alessandro Manzoni e Francesco De Sanctis. E ancora: non solo Gramsci, ma anche Giuseppe Lombardo Radice, il grande pedagogista, e Benedetto Croce. C'è una vera "internazionale" in materia. John Dewey, Célestin Freinet, Vykotskij. Sono tutti "fondamentalisti", tutte persone convinte che la parità linguistica e culturale e dunque una democrazia sostanziale una società la conquisti solo se sa darsi un sistema scolastico che garantisca le pari opportunità e un cammino eguale a tutte e tutti. Arrivarono loro, arriviamo noi per vie diverse a questa stessa conclusione: éducation d'abord. Lingua materna, matematica, geografia dei popoli, storia, grandi lingue straniere per tutte e tutti. Il resto, per citare il Vangelo, "vi sarà dato in appresso": il resto, cioè una società non solo con elezioni periodiche, ma autenticamente democratica, di cittadine e cittadini liberi, capaci di intendere e di volere, di scegliere a ragioni vedute. So bene: a parte i proclami, le classi dirigenti italiane non condividono questo che lei chiama "fondamentalismo scolastico". E si vede. Vie diverse, ho detto: per don Milani la via fu quella del Vangelo, della percezione della vacuità di una "Parola" che non fosse comprensibile a causa della povertà culturale e linguistica dei destinatari. Per noi che don Milani chiamava "liberalacci miscredenti" la via è stata spesso diversa, ma la conclusione è la stessa.
Nel 1987 padre Ernesto Balducci dice ricordando il confratello: "Il mondo di don Milani è un mondo finito".
Nel 1955 Pier Paolo Pasolini, giovane e poco noto poeta e scrittore, in una straordinaria intervista riscoperta qualche anno fa da Laura Betti, e il giovane prete di Calenzano Lorenzo Milani, individuano e denunziano precocemente i guasti ineluttabili di un'ondata di consumismo di cui allora potevano vedersi appena le prime increspature. E votano le loro vite a combattere questi guasti. Il consumismo ha dilagato, ha travolto ethos pubblico, tradizioni, regimi. E continua, creando drammi in ogni paese, dall'Africa al Sud-America, dagli USA alla Russia. Le forme della miseria sono nuove, inattese, suasive, stordenti su scale che Pasolini e don Lorenzo non potevano conoscere, ma solo temere. Il "brave new world" è intorno a noi e pare oggi vincente. In questo senso, sì, in mezzo secolo non solo l'Italia ma il mondo intero è cambiato. Ma se il malanno è quello individuato allora da Pasolini e Milani, la risposta non può essere altra, se ne saremo capaci, che "sortirne tutti insieme": una politica di promozione della solidarietà tra eguali, una scuola che dia, ai ragazzi e lungo tutta la vita, le risorse conoscitive per non farsi turlupinare dal riccazzo di turno o dai suoi scagnozzi.
Don Milani sente il bisogno non solo di fare scuola ma di proporre ai suoi ragazzi un nuovo tipo di scuola, sia sotto il profilo del metodo che dei contenuti. Quali ne erano le caratteristiche? E i limiti?
Attraverso uno studio severo, una dedizione piena al crescere imparando insieme (e l'"insieme" importava tanto quanto l'imparare) don Milani portava ragazze e ragazzi ad aprire gli occhi sul mondo intero che li circondava, sulla storia, e a farsi "critici dell'informazione". Ogni momento della scuola era subordinato a questo obiettivo del raggiungimento di un sapere alto, perfino sofisticato, e critico, consapevole, operoso. Limiti? La sordità burocratica, il menefreghismo, le spinte consumistiche di gran parte della società circostante, la disinformazione di un giornalismo mediocre e panzarottaro.
Prima di "Lettera a una professoressa" si parlava di Don Milani, era conosciuto nel mondo scolastico?
Non ero il solo a ignorare nei primi anni sessanta "Esperienze pastorali" nei suoi contenuti educativi. Cito due libri di grande spessore scritti da una geniale pedagogista di matrice cattolica, Maria Teresa Gentile: "Immagine e parola nella formazione dell'uomo", del 1965, e "Educazione linguistica e crisi di libertà", del 1966. Due libri straordinariamente consonanti con le analisi e la proposta educativa di don Milani. Ma di don Milani non si fa ancora nessuna menzione. Certo don Milani era noto a un altro grande maestro, Mario Lodi, che era venuto in contatto con lui (attraverso Giorgio Pecorini) e a lui aveva dato più di un suggerimento tecnico. Ma non direi che don Lorenzo fosse popolare nemmeno nel Movimento di Cooperazione Educativa. Posso raccontare un episodio. Nel 1965 e 1966 avevo cominciato a scrivere, incitato da Maria Corda Costa, alcuni articoli sulle condizioni dell'insegnamento linguistico in Italia. Erano idee non lontane da quelle del Movimento e così nella primavera 1968 fui invitato a un seminario nazionale del Movimento a Urbino. Trascinai con me un allora mio alunno, il più bravo di quegli anni, Raffaele Simone. Allora e poi ho sempre cercato di non allevare linguisti puri, ma linguisti contaminati, corrotti dall'impegno educativo nella scuola e nella società, come Raffaele Simone ha saputo mostrare forse più d'ogni altro. A Urbino spiegai tra quali fratture linguistiche e culturali si svolgeva il lavoro della scuola in Italia, dissi che l'insegnamento grammaticale tradizionale non serviva a sviluppare le capacità di comprensione e di uso effettivo della lingua e conclusi, infine, che fare educazione linguistica in un modo o nell'altro significava fare politica a favore o contro le classi dominanti, a favore o contro i deprivati. Successe un parapiglia. Per difendermi, dovettero scendere in campo Mario Lodi e Bruno Ciari, che ancora non conoscevo: i bravissimi maestri erano ancora protesi verso l'idea che le tecniche didattiche fossero un valore in sè, del tutto neutro. Che c'entrava la politica? No, don Milani ancora non era arrivato.
Ricorda la richiesta dei ragazzi alla fine della "Lettera a una professoressa"? Chiedevano una sorta di risposta in termini di ascolto e di confronto da parte di qualcuno del mondo della scuola. La scrisse mai nessuno?
Negli anni sessanta più della metà delle ragazze e dei ragazzi non raggiungeva la licenza media dell'obbligo e più della metà della popolazione adulta era priva di ogni titolo di istruzione, anche la semplice licenza elementare. La nostra scuola in questi anni ha fatto un lavoro enorme per farci risalire la china. Non ha trovato se non pochi e rari appoggi, questo ne ha limitato fortemente l'azione. Ma nella sostanza specie la scuola elementare e quella dell'infanzia hanno scritto nei fatti la risposta positiva alle richieste di don Lorenzo e dei ragazzi della scuola. Il da fare resta enorme, ma la risposta c'è stata e come, ed è stata quella giusta, fatta di cose.
Quando decise di scendere a Firenze, per trascorrere gli ultimi giorni di vita in casa della madre, don Milani chiuse chiesa e scuola dicendo "La scuola non deve andare avanti". Era quindi la sua una esperienza esemplare e irripetibile?
Sì e no. Don Milani sapeva bene quanto era ed è difficile essere come lui e quindi trovare qualcuno che potesse continuare a fare di Barbiana quel che Barbiana stava diventando: un punto di riferimento mondiale delle teorie e pratiche educative, come ha scritto Maria Corda Costa nell'Enciclopedia del Novecento, edita dall'Istituto dell'Enciclopedia Italiana una decina d'anni fa. Chiudere la ditta era l'unica soluzione praticabile. Ma dopo poco tempo le continuazioni si sono moltiplicate in Italia e nel vasto mondo: dalla Scuola 725 dell'Acquedotto Felice di don Roberto Sardelli a tante straordinarie esperienze che la bolsa intellettualità italiana ha largamente ignorato e aggiungerei: per fortuna. Pensi solo a Marco Rossi Doria e agli altri "maestri di strada" di Palermo e di Napoli. O alle scuole dell'infanzia, da Scandicci a Reggio Emilia; e al lavoro straordinario dell'intera scuola elementare italiana, che nel 1992 era tra le migliori del mondo e che, nel 2000, ha ulteriormente migliorato i suoi punteggi. Decine di migliaia di maestre e maestri, migliaia di insegnanti di scuola media inferiore, moltissimi insegnanti degli istituti tecnici e professionali, perfino alcuni insegnanti di liceo e di università hanno cambiato modo di insegnare scossi dall'insegnamento di don Lorenzo.
Che cosa è ancora valido e attuale nell'esperienza scolastica di Barbiana?
Il "fondamentalismo scolastico" con le sue motivazioni etiche e politiche e l'aver mostrato come bisogna cercare di essere per potere sperare di insegnare qualcosa a bambine, bambini, ragazze e ragazzi. E' difficile, ma forse non impossibile.
si sta tornando a grandi passi indietro, soprattutto abbassando il livello culturale, cioè di capacità critica, dei giovani, per farne "servi ubbidienti". Diciamoci come, scambiamoci idee.