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Il minollo
Anna Pizzuti - 04-05-2004
Il minollo è l’animale che Troisi dice di essere, per entrare nell’Arca di Noè e salvarsi dal diluvio.
Di fronte al pericolo che incombe, lui non capisce perché agli animali venga offerta la salvezza ed a lui, uomo, no. Ma non rivendica né superiorità né differenza: si adatta, si inventa animale e, se il suono delle parole ha un senso, al di là del significato, la morbidezza fantastica del nome che dà a se stesso – animale fantastico – è lo specchio della morbidezza fantastica della sua anima.


Ho ancora negli occhi una strada leggermente in salita, lungo la quale si allontanavano, piangendo, i suoi amici, uscendo dalla casa dei genitori, a San Giorgio a Cremano quel pomeriggio di giugno.
E’ l’immagine di un dolore che ho condiviso, perché ho vissuto la morte di Troisi come una perdita personale.
E, come accade per tutte le perdite - sia che le persone che amiamo vadano via per sempre, sia che scompaiano dalla nostra vita per i casi che la vita crea - lungo il tempo che continua a scorrere, ritorna, ad ondate, la consapevolezza dell’ assenza e il senso acuto della mancanza.

Non sono i film, non sono le storie. E’ la gioia che mi dava la sua intelligenza deviante, lo sguardo decentrato rispetto all’esistenza: quella frammentata e minima di tutti i giorni – che è poi quella che ci ferisce di più – e quella che sentiamo di dover condividere, che desideriamo condividere con gli altri, o che agli altri ci accomuna.

La fresca leggerezza e l’ingenuità a volte felice, a volte dolorosa di chi, di fronte alla violenza, alla bruttezza, all’orrore di chi non prova orrore per se stesso e per i suoi simili, non fugge, non alza la voce o batte i pugni, ma fa della mitezza e della dolcezza scudo che protegge ed arma che penetra e che costringe a guardarsi ed a vedersi.

Non è il suo essere napoletano. Per quanto, solo in quella città poteva nascere, perché è in essa che convivono gli abissi della violenza e i cieli della dolcezza.

Napoletano il suo accento, ma ancora di più il tono della voce, le fratture, le perdite ed i ritorni: lo specchio della sua anima: non incerta o fragile, ma partecipe dell’incertezza e della fragilità che sono l’umanità.

E non costituisce certo una contraddizione il fatto che portasse l’impegnativo nome di Massimo lui che esprimeva tutta la forza dirompente dell’essere minimo. Forza che usava contro i luoghi comuni (il napoletano che può solo emigrare, non viaggiare) contro l’ossessione della velocità, dell’efficienza, dello scatto (il ritardo del quale chiede scusa, nel film della sua fragilità, dell’inadeguadezza che non è inettitudine, della sua divina pigrizia) contro il buon senso e l’acquiescenza e la normalità rozza e violenta (la lozione per i capelli presentata al gerarca calvo)

La poesia non è di chi la fa, ma di chi gli serve” è la sua rivendicazione, che ho fatto mia e cercato di trasmettere.

Non tanto perché la poesia fosse usata, ma perché diventasse bene “che serve”.

Come a me serviva lui.




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