breve di cronaca
La riforma della signora gentile
L'Unità - 08-02-2002
La riforma della signora gentile

di Enzo Siciliano

Il ministro Moratti è una signora gentile, ma non è Giovanni Gentile.
Eppure il Presidente del Consiglio, giorni fa, in una delle consuete televendite che accompagnano la pubblicità ai decreti leggi decisi dal governo, ha paragonato la riforma della scuola firmata da Letizia Moratti a quella firmata da Giovanni Gentile.
Gentile si era laureato alla Scuola Normale di Pisa, con una tesi su Rosmini e Gioberti: la storia d’Italia, la natura intellettuale del Risorgimento, le componenti spirituali e laiche che l’avevano nutrito furono per lui fino da studente il chiodo fisso. Si trovò a Napoli nel 1903 con Croce, nel dare il via ai fascicoli della «Critica» per il rinnovamento culturale del paese, avendo in mente sia un’idea educativa per le masse popolari, sia l’elaborazione di una filosofia dove la natura delle cose, assorbita alla mente umana, faceva del pensiero l’elemento determinante della vita e della conoscenza.
Agli occhi di qualcuno tutto questo potrà anche contare meno di una virgola. Ma il fatto è che Gentile aveva pubblicato tra l’altro nel 1913 e nel 1914 i due volumi del «Sommario di pedagogia come scienza filosofica», e, una volta nominato da Mussolini ministro della Pubblica Istruzione nel 1922, impiegò venti mesi per mettere a punto la riforma scolastica sulla quale il sistema educativo italiano si regge bene o male ancora oggi; quindi si dimise.
Comunque, il presidente Berlusconi ci dice che la riforma Moratti vale quella di Gentile. Eppure il ministro Moratti per siglare la propria ci ha impiegato soltanto sei mesi, persino dopo lo stop di una quindicina di giorni che alcuni colleghi di governo le hanno imposto. Senza neppure un «Sommario di pedagogia» alle spalle, Letizia Moratti ha dimostrato casomai d’essere la Wilma Rudolph delle riforme scolastiche. Venendo al merito, poi, Gentile offrì al fascismo una riforma che scavalcava gli stessi presupposti su cui il regime sembrava nascere. Il fascismo delle prime ore si poteva permettere di dare il via a una scuola dove era affermato sia il principio della gratuità per tutti sia l’obbligo scolastico, a secondo dei luoghi, fino al quattordicesismo anno di età - esteso quest’obbligo ai ciechi e ai sordomuti, e partendo la scuola materna di tre anni dai tre anni di età del bambino.
Veniva abolito l’obbligo dell’esame di ingresso alle elementari, e il bambino era indirizzato a una consapevolezza sempre più chiara di sé, libero nel coltivare tutte le inclinazioni e tutti gli interessi possibili. Per l’Italia degli anni Venti quell’idea dell’obbligo doveva vincere la più grave piaga sociale del paese: l’analfabetismo. Nato in Sicilia, Gentile sapeva benissimo quali rovesci di sangue l’analfabetismo portasse con sé. Per questo, i principi che plasmavano la riforma del 1924 prevedevano un corso di studi che portasse lo studente a vedere le cose con i propri occhi, a pensare con la propria mente. Per quanto se ne voglia dire male, la riforma Gentile puntava a una scuola per i cittadini. L’antifascismo nacque infatti negli istituti riformati da Gentile. Al titolo di laurea venne tolto il valore di titolo professionale, e questo per allontanare dall’insegnamento del professore e dalla preparazione dello studente la «carriera» come scopo unico. Con i rischi vistosi di un analfabetismo di ritorno, basta la reintroduzione dell’assillo professionale e di carriera per far voltare all’indietro le lancette dell’orologio nella scuola italiana. Nella famosa scuola delle tre «i», ipotizzata in campagna elettorale dalla CdL, se non si fa carriera non si è nessuno: e gli esami a singhiozzo ogni due anni, unica modernità visibile del decreto Moratti, cosa andranno mai a selezionare se non i «discoli e fannulloni, signora mia» dai «non discoli e non fannulloni»?
Ci tocca ripetere con il filosofo di Castelvetrano usato dal fascismo che non c’è libertà scolastica, nell’insegnamento e nell’apprendimento, senza una morale della responsabilità e del disinteresse nei fini educativi. È quello che sosteneva Kant. Ma la signora Moratti, nella corsa fatta in sei mesi verso il suo disegno di legge, avrà avuto il tempo di leggere Kant?


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