Schiavo
Arturo Ghinelli - 10-04-2004
“Arturo, mi hanno chiamato schiavo! Per questo mi sono arrabbiato tanto e quando è entrata la prof mi ha trovato che urlavo” Mentre mi racconta, il suo volto scuro si illumina.E’ cresciuto da quando è arrivato quattro anni fa dalla Mauritania, ma il suo sguardo è rimasto ancora fiero come quello di un principe in esilio. Sono rimasto turbato,ma forse non dovrei. In un paese in cui un ministro della Repubblica chiama “Bingo Bongo”gli immigrati, perché meravigliarsi se un ragazzino di 13 anni si rivolge ad suo compagno di classe immigrato e per giunta negro, chiamandolo “schiavo”?
Eppure io sono preoccupato perché questo è successo in una scuola media di Modena, città in cui già l’anno scorso c’erano stati episodi di bullismo razzista nei confronti di studenti figli di immigrati.
Dopo che i giornali avevano dato notizia di quegli episodi, ci furono le esecrazioni del caso e poi non si fece più niente. Era evidente che prima o poi episodi analoghi sarebbero tornati ad accadere e la notizia di qualcuno di questi si sarebbe risaputa fuori dalle mura della scuola. Certo perché il primo problema da affrontare è proprio quello di tenere monitorato gli episodi di discriminazione a sfondo xenofobo o razziale che avvengono nella nostra realtà, per poter valutare con cognizione di causa la reale estensione del fenomeno. Ed evitare così di rimanere esterrefatti se la lapide che ricorda l’olocausto viene infranta, come è successo nei giorni scorsi nella città di Modena. Il gesto della lapide danneggiata, come ha detto il Sindaco,”…per ora, non ha un volto e non ha un nome. Non sappiamo se è un’offesa intenzionale e consapevole o se è il risultato - non meno colpevole - di una bravata notturna”.
Nell’episodio che denuncio io, l’autore dell’epiteto schiavo, ha un nome ed un volto, sicuramente è stato usato come un’offesa intenzionale, anche se non so fino a che punto consapevole. E qui sta l’altro problema da affrontare: c’è ancora tanto da fare perché i nostri ragazzini abbiano consapevolezza di sé e del proprio comportamento. Non c’è tanto bisogno di repressione quanto piuttosto di formazione. Coniugare insieme conoscenza ed educazione, è la formula vincente. Cosa sa quel bullo tredicenne degli schiavi? Cosa sa degli immigrati che vengono oggi in Italia? E’ a conoscenza del fatto che fino a 30/40 anni fa erano gli italiani ad emigrare verso il resto del mondo? E che in Louisiana venivano apostrofati con l’appellativo di”black dago” perché ritenuti simili ai negri*? A scuola ha avuto la possibilità di mettere in relazione questo fenomeno storico con l’esperienza dei propri familiari che, con tutta probabilità, sono emigrati a Modena dal sud dell’Italia? Anche nei confronti dei ragazzini figli di immigrati c’è ancora tanto da fare nella scuola italiana. Dall’ultima indagine ministeriale risulta un solo dato sicuro: gli studenti che non hanno la cittadinanza italiana vengono bocciati più degli italiani. Il 2% in più alle elementari e l’8% in più alle medie. Quindi mentre è certo che pagano di persona , con un maggior numero di bocciature, il fatto di essere stranieri , non si sa niente di come vivano il loro inserimento in una scuola, in cui si parla in una lingua diversa e soprattutto si studia con una lingua che non è la propria lingua madre e in cui, non solo gli insegnanti, ma anche i compagni sono pronti a farti pesare la tua diversità, anche perché tutti, italiani e immigrati, sono ancora in cerca di una propria identità. Anche su questo versante mancano indagini serie che offrano spunti di riflessione e di iniziativa, senza le quali,come diceva Primo Levi :è successo, uindi può succedere ancora.

*Gian Antonio Stella “L’orda.Quando eravamo noi gli albanesi” Rizzoli

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 docente    - 20-04-2004
formare i ragazzi e aiutarli a crescere... questo è il nostro dovere di educatori