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Il Padrone e la bambina
Pierangelo Indolfi - 08-04-2004


di Lidia Ravera sull'Unità

Pochi resistono al viso paffuto di una bambina, alla frangetta, al sorriso rotondo, al vestitino rosa. È la sindrome del cucciolo. Una forma di tenerezza involontaria, inevitabile. Pochi non carezzano il gattino, il cagnolino. Nessuno detesta un pulcino. Che cosa materialmente si faccia, poi, perché i bambini vivano bene, per proteggere gli animaletti dall' inutile crudeltà dell'uomo, è un altro discorso.

Ma davanti all'immagine della fragilità, davanti alla grazia naturale dei principianti siamo tutti uguali. Tutti ugualmente commossi. Se, poi, al sorriso rotondo e al vestitino rosa corrisponde un destino già compiuto, un destino atroce e contronatura, come morire a tre anni, ammazzata dalle percosse, torturata, violentata, c'è da chiedersi, veramente, perché pubblicare quella fotografia. Perché pubblicare la fotografia del viso paffuto e della frangetta. A che cosa serve? A chi giova? Che cosa lenisce, che cosa ripara? Aggiunge orrore all'orrore. Eviterà che il crimine si ripeta? No, perché soltanto un essere perverso e malato uccide per il gusto di uccidere, infierisce su un innocente, su una creatura inerme che non ha ancora nessuno strumento per difendersi, nemmeno la forza fisica, nemmeno la parola.

Esasperare l'orrore può soltanto fomentare la malattia dei malati e tormentare i sani, fino a farli vergognare della loro stessa salute. Pubblicare, coma hanno fatto quasi tutti i quotidiani la fotografia di Maria, 48 ore dopo la sua morte, non eviterà altri analoghi crimini mostruosi. Completa forse l'informazione? Fornisce dettagli utili alle indagini? Racconta o spiega per chi vuole sapere o capire? No, sappiamo tutti come è fatta una bambina piccola, allegra come sono allegre le bambine piccole finchè qualcuno non le offende. Ce la potevamo immaginare, Maria, mentre spegne le candeline della sua torta di compleanno, accanto allo sguardo complice e divertito di un uomo adulto, che, forse, è il suo assassino, il vigliacco che ha approfittato della sua fragilità. Ce la potevamo immaginare, e forse non ne avevamo nessuna voglia, di immaginarcela.

Ma “Il giornale” l'ha sbattuta in prima pagina, ce l'ha messa sotto il naso. “La Repubblica” e “Il Corriere della Sera”, hanno cancellato gli occhi (e evitato la torta di compleanno) dietro un pudico gioco di quadrucci grigi. Hanno rinunciato a farci incontrare lo sguardo di Maria. Però non si sono avvalsi della facoltà di non pubblicare quell'immagine, l'immagine della bambina che sarebbe morta, che è morta, in un giorno così poco distante da quello della sua nascita. A che serve rendere il viso paffuto di Maria un po' meno riconoscibile, non è “una minore” assassina, come Erika De Nardo ai tempi del delitto di Novi Ligure, cui concedere un po' di anonimato, nella speranza che possa rifarsi una vita.

È una minore assassinata, una che la vita l'ha persa per sempre, una che non vivrà. Non era meglio, dopo aver pubblicato, come è giusto, la notizia, dati analisi e commento, astenersi dall'infierire sulla sensibilità dei lettori? Dice l'occhiello sopra la fotografia de “Il Giornale”: “Maria con il suo presunto carnefice”. Il carnefice le indica la torta, Maria protende la manina verso la panna, le candeline sono ancora accese. Era necessario? Sembra un grosso orso benevolo, il carnefice presunto. Maria è un nanetto di zucchero, con un mento volitivo e due attenti occhi neri. Sullo sfondo, la cucina: gli arredi della normalità, un rotolo di carta assorbente, un bicchiere, la lavastoviglie. Non era necessario, situare la morte in quella scenografia quotidiana. Non era necessario che la madre di Maria parlasse in televisione, che dicesse subito di voler fare un'altra bambina, bella come questa, come pare abbia detto e poi smentito. E che cos'è la maternità, un supermercato? Non era necessario dare fiato alle chiacchiere della vicina di casa cubana, che forse il presunto carnefice è il presunto amante della discutibile madre. Non sempre sono necessarie le chiacchiere e non sempre sono necessarie le telecamere, i riflettori accesi in faccia a vittime e carnefici, assassini e assassinati, madri e mogli, figli e cognati.

Ma che cos'è la famiglia, un circo equestre, con le foche ammaestrate dal video e le vedettes del dolore? Se vogliamo ingozzarci di emozioni forti possiamo andare al cinema, o, eventualmente, sintonizzarci, in televisione, sugli sceneggiati in sei serate, “Amanti e segreti”, “Sospetti”... Ci sono tante belle bambine lì, che piangono e muoiono o vedono il padre morire e la mamma finire carcerata. Ma sono piccole attrici, protagoniste di piccole grandi storie ben inventate, inventate allo scopo di provocare emozioni in chi le guarda. Apertamente, igienicamente. Con tanto di catarsi finale, perché è dai tempi dei Greci che il popolo si diverte con la tragedia. Se vogliamo provare a provare commozione, strazio, indignazione, paura, e poi soddisfazione, scarico della tensione, pace e ordine e infine sonno, affidiamoci agli sceneggiatori (ce n'è di davvero bravi, anche se nessuno li conosce), non cerchiamo gli ingredienti del melodramma sui giornali, all'ora del telegiornale. Purtroppo la realtà ce ne offre parecchi di spunti per provare orrore, ma si vorrebbe che chi gestisce l'informazione fosse un po' più sobrio di chi è pagato per farci piangere davanti alla televisione.

Il dolore, quello vero, vorrebbe un po' di silenzio. Che una madre col cuore straziato possa stare nascosta nell'ombra, che non debba recitare il copione di Cogne promettendo gravidanze riparatrici per l'angioletto salito in Cielo, che al padre siano risparmiate le chiacchiere, che non diventi una sorta di rituale collettivo il dibattito sulla disgrazia, con le vittime che si sistemano in posizione “talk-show” e emettono dichiarazioni memorabili, e tutti che applaudono e si esercitano nell'esecrazione e cercano così di combattere questa gigantesca nuvola nera di indifferenza che grava su di noi. Sulla nostra epoca. Sulla nostra fetta di occidente.

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 P.I.    - 09-04-2004
Dal Manifesto del 9 aprile

La passione di Maria
STEFANIA GIORGI

C'è una duplice, inquietante coincidenza nel calvario di Maria, uccisa in modo bestiale alla soglia dei tre anni. Con la passione di Cristo, celebrata in questi giorni dai Sepolcri alla Resurrezione, dai paramenti viola del lutto fino alla celebrazione gioiosa della pasqua. Ma anche con i giorni del furore mediatico per quella passione raccontata da Mel Gibson. Passione necrofila, poiché celebra cupamente l'onnipotenza della morte sulla vita e non il messaggio dirompente della resurrezione, del trionfo della vita sulla morte. Passione sadica, poiché mostra il martirio della carne al ralenti, l'indulgenza sulle sevizie. Primo snuff movie religioso della storia del cinema. La stessa passione necrofila e sadica che i nostri media - il Corriere della sera in testa - hanno riservato alla piccola Maria. Sevizie reali in vita, sevizie da «cronaca vera» in morte. Insistenza e voyeurismo sui particolari più crudi che ancora attendono la conferma degli inquirenti, costruzione di teoremi familiari che adombrano la complicità materna con l'assassino. Una donna lombrosianamente descritta dal Messaggero - «alta, un fisico e un'espressione normali» - e accomunata a un'altra grande madre colpevole, Anna Maria Franzoni, poiché come lei avrebbe dichiarato alla morte della bambina: voglio subito un altro figlio.

Nei giorni della passione di Cristo, la cattolica Italia (pronta a difendere i diritti dei non-nati) fa ulteriore scempio di quella bambina, ne espone oscenamente il corpo. Tranne poche eccezioni, sulle prime pagine dei giornali di ieri eccoci servito un bel pugno nello stomaco, con la foto di Maria ritratta vicino alla grande torta di compleanno. Accanto, l'uomo indagato per il suo omicidio. Foto scattate dalla vicina di casa, che accusa la madre se non di connivenza di accondiscendenza con l'«amico di famiglia» indagato, e passate chissà come e perché alla stampa, senza l'autorizzazione dei genitori. Uno shock per il padre che ne chiede il sequestro e uno shock per chiunque abbia ancora a cuore quello che ostinatamente definiamo umanità.

La scelta, ipocrita, è quella di «ritoccare» leggermente il viso di Maria, un'ombra grigia che non copre l'impudicizia della scelta. Tra chi vela e chi disvela può accadere di tutto: che risulti protetto il volto del presunto carnefice e non quello della vittima (Il Messaggero), che sotto l'«orrore su un angelo di due anni» troneggi l'immagine di «questi giorni di passione»: un soldato delle forze d'occupazione in Iraq che tiene «paternamente» tra le braccia una bambina irachena (Il Tempo).

E' scioccante non solo (ri)scoprire l'orrore in casa, (ri)sentire le litanie degli Esperti, ma soprattutto il sadismo mediatico che lo duplica. In barba alla carta di Treviso, alla legge sulla privacy, ma, sopra tutto, oscurando quel sentimento di pietas che, di fronte all'orrore indicibile, dovrebbe farci arretrare, tacere, riflettere. Sul perché bambine e bambini siano sempre più «cose», merce di scambio fra adulti che concedono loro sempre meno spazio - reale - di amore, pazienza e cura.