Andrea Bagni sui mostri
Grazia Perrone - 05-04-2004
Il problema della valutazione della scuola in Italia è la mancanza di criteri chiari e condivisi e, di conseguenza, la impossibilità di un confronto tra le scuole. La sensazione che si ricava dalla nostra ricerca è che gli approcci docimologici INVaLSI – così come si stanno configurando - non siano congrui a ciò che la scuola è e, soprattutto, a ciò che nella scuola reale c'è. Ci sembra quindi importante definire non solo come valutare, ma, anche, cosa valutare. Ed è quello che cercheremo di fare coinvolgendo – per quanto ci sarà possibile – non solo esperti e pedagogisti ma anche – e soprattutto – coloro i quali sono (o saranno) chiamati a “somministrare” le prove proposte dal nascente Istituto Nazionale di Valutazione.

Ma, poiché siamo solo all’inizio di un lungo percorso di chiarificazione – anche dialettica – del nostro “fare scuola”, proponiamo alla cortese attenzione dei lettori un bell’intervento di Andrea Bagni formulato in occasione del Convegno organizzato – il 10 marzo 2000 – dalla Biblioteca del Mulino (ll problema della valutazione, della scuola e nella scuola) unitamente agli Atti del Convegno medesimo.

Un po' datato, forse, ma attualissimo.

Buona lettura.

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Che cosa è bene cercare di valutare (e che cosa no)

di Andrea Bagni

1. Com'è presente oggi - se è presente - nella scuola una pratica e una "cultura" della valutazione?
Si potrebbero raccontare molte storie di classi, molte storie di ragazze e ragazzi, almeno delle scuole superiori, che cominciano in prima con non poco entusiasmo e curiosità di scuola, in attesa di eventi forti, non banali - sia pure la mitica "okkupazione" dei ragazzi "grandi": una specie di rito di iniziazione, almeno nella mia scuola, per quanto vuoto ci possa apparire - e poi via via si spengono in classi che diventano sempre più passive quanto esperte del meccanismo e delle strategie per attraversarlo galleggiandovi sopra senza troppi drammi, senza troppe passioni. Brutte storie.

Io mi sono convinto che quello che spegne è molto spesso qualcosa che ha a che vedere con il rito, il ritmo, la ripetizione meccanica di un fare scuola segmentato, incasellato in un susseguirsi (ormai molto spesso per 36 ore settimanali) di campanelle e spiegazioni, e campanelle e interrogazioni, e poi altre spiegazioni e altre interrogazioni. Dare e avere, partita doppia della didattica, andata e ritorno dei contenuti; da pag. x a pag. x+y, studiare, risentire. E i ragazzi ne risentono difatti. Anche gli insegnanti, inseriti in questa specie di bizzarra catena di montaggio alla rovescia - gli "operatori" si alternano lungo la linea intorno ad un "prodotto" che resta fermo nella sua classe. Il sapere ha perduto la sua aureola e la sostituisce con il mega orologio della produzione in serie.

E poi da subito "accoglienza" e prove d'ingresso, pagellina di metà quadrimestre, valutazione per avviare al recupero, scrutini e poi altre pagelline e via così fino alla fine, quando si calcolano i crediti e i debiti (il "pagamento" dei quali anch'esso da verificare e certificare a più riprese nel corso dell'anno). Le riunioni di consiglio di classe che diventano tutte trasmettere giudizi e voti, tutte scrutini o prescrutini.
Insomma a me pare che nella scuola attuale agisca ormai una sorta di sottocultura ipervalutativa (che si accompagna bizzarramente - ma non poi tanto - ad un'altra sottocultura, quella del tradizionale "maternage" protettivo del "disagio" giovanile, quasi si potesse crescere senza incontrare ostacoli, misurarsi, assumere responsabilità, eternamente portati per mano, senza mai provare la propria autonomia…). Mania valutativa che si coniuga peraltro in modo assolutamente coerente con il carattere sempre più quantitativo, enciclopedico, esteso quanto superficiale, del sapere introdotto nella scuola. E di nuovo a questo modello accumulativo quantitativo misurativo, si è adeguato il tempo-scuola che ha teso sempre più ad estendersi nelle sperimentazioni degli ultimi anni, fino ad arrivare alle 40 ore fordiste dei professionali.

2. Come intervengono sulla scuola reale la nuova cultura della valutazione, il nuovo esame di stato, le tipologie di verifica strutturate o semistrutturate?
Male, a mio parere, intervengono.
Il nuovo esame (connotato peraltro dal desiderio illegittimo di riformare, a partire dalla fine tutta la didattica degli ultimi anni), a me pare segnali un'ansia di razionalizzazione, oggettivazione e tecnicizzazione della didattica, che rischia fortemente (magari animata da tutt'altre intenzioni) di aggravare i problemi della scuola piuttosto che risolverli. Andando in cerca di una misurabilità universale delle conoscenze (e competenze e capacità), si rischia in realtà di rendere la scuola reale ancora più segmentata e sezionata, meccanica e burocratica. (Per di più il nuovo esame arriva ad attribuire punteggi anche ad attività extrascolastiche, del tempo libero, propensioni etiche ed estetiche, volontariato, che hanno valore a condizione di restare gratuite, di non diventare un qualche "credito").

Vero che nella pratica di scuola tradizionale, quei caratteri da macchina intensa di distribuzione dei voti - su modello forte classicamente versativo: i ragazzi e le ragazze visti come vasi vuoti da riempire di sapere di cui si tratta poi di misurare il contenuto trattenuto e restituito dopo un certo tempo - si sposano spesso con l'oscurità dei processi: scarsa trasparenza dei criteri, incomprensibilità retorica dei giudizi, soggettivismi vari. Vero anche che affidare tutto alla creatività del fare scuola, può ricacciare il discorso in derive impalpabili e spiritualeggianti, incapaci di offrire veri strumenti di lettura e intervento. E tuttavia pensare di poter ricondurre anche solo l'essenziale del fare scuola a qualcosa di oggettivamente misurabile e certificabile, magari incentivando la segmentazione dei processi didattici in moduli, componibili e comparabili a piacere, verificati in ingresso e in uscita e certificati in un qualche libretto personale, rischia di cancellare quella parte della complessità della scuola che sfugge allo schema; rischia di svalorizzare quella ricchezza di variabili (certo difficile da formalizzare) che interviene nei processi d'apprendimento; di ridurla a soggettivismo, caso, entropia del processo. Non rilevabile con gli strumenti tecnici selezionati, dunque irrilevante. Al massimo limite probabilistico dei risultati programmati.

La discussione attuale sull'esame di stato mostra con evidenza, mi pare, l'obiettivo della ricerca metodologica di afferrare la complessità dei processi d'apprendimento moltiplicando e raffinando le verifiche strutturate, semistrutturate o a risposta singola ma con parametri certi di valutazione. Occorre porsi all'altezza di questa ricerca e non banalizzarla. Ma per riconoscere che al suo fondo opera un approccio al sapere che non esce dalla forma stretta della domanda-risposta, giusto o sbagliato, A o B; e mi sembrano leciti molti dubbi sulla capacità di queste procedure di riconoscere le sfumature, gli stili personali e creativi dell'apprendimento, tanto più che si propone autorevolmente di ridurre drasticamente i tempi di risposta (quaranta minuti circa per una trentina di test, giudicati ancora troppo pochi).
Mi pare l'obiettivo essenziale sia allontanare il più possibile gli insegnanti nella loro concreta singolarità - sesso, storia, personalità - dalla valutazione, che dovrebbe farsi da sola, come distaccata registrazione di prestazioni predefinite. Agli insegnanti casomai, dato che la terza prova è formulata dalle singole commissioni, il compito di farsi raffinati esperti di docimologia, esperti di un altro sapere ancora, oppure limitarsi ad applicarlo, ma con la didattica dell'ultimo anno che finirebbe per essere tutto addestramento all'esame…

Credo che (ferma restando la possibilità di intrecciare prove diverse, per pratiche e apprendimenti diversi) la complessità dei percorsi di scuola chieda invece più implicazione delle e degli insegnanti; un ruolo più consapevole e collettivo delle soggettività; l'assumersi la responsabilità del "dare misura" all'interno di una relazione che interroga tutti, profondamente, e non può risolversi in una funzione tecnica la cui obiettività distaccata espellerebbe troppe risonanze personali, dubbi, domande, passioni, dell'apprendimento.
A mio parere si tratta di domandarsi se non esista un altro paradigma conoscitivo (e dunque operativo) per la specifica complessità della scuola. Se non sia altro lo sguardo con cui guardare alla formazione, altri gli strumenti da adoperare per gestirla. Ad esempio a partire dal bisogno di liberare e arricchire le pratiche di scuola che già esistono (disperse, ma anche potenzialmente disseminate) come luogo di ricerca viva di sapere, dotato di senso personale e collettivo. Esperienze di costruzione (non trasmissione) di conoscenze condivise, "contrattate" nei significati come in una sorta di mediazione culturale fra il presapere, la rete concettuale con la quale ragazzi e ragazze sempre già interpretano il mondo, e i nuovi codici e contenuti - tradizione di un'altra generazione, peraltro abbastanza in crisi di certezze e orientamenti - che con essa devono dialogare, se l'insegnamento vuole sviluppare davvero capacità di lettura e sistemi simbolici giovanili, non restando un altro sapere tutto già compiuto e formalizzato, estraneo e buono per le interrogazioni.
Insomma occorre avere consapevolezza che la zona più profonda dei processi d'apprendimento avviene in una sorta di campo magnetico relazionale della ricerca, che è bene rendere il più possibile ricco, trasparente, produttivo di materiali, contagioso e aperto al confronto.
È anche questa forse la via per un possibile "controllo diffuso" della qualità della scuola (fondata sull'autonomia dei soggetti che la "abitano") non tanto a partire da un sistema di valutazione, attraverso un vaglio uniforme e standardizzato delle prestazioni - come se di prestazioni e servizi e soddisfazione dei clienti si trattasse - ma, per così dire, per contatto orizzontale e verticale: attraversamento delle scuole ad opera di una riflessione sui saperi e sulle forme della didattica alta ma non altra; circolazione e scambio di ricerca e pratiche concrete di scuola. Come in una sorta di "centro reticolare" della politica scolastica.

3. Da dove partire allora per ripensare la scuola?
Forse non sarebbe male cominciare da una giusta dose di buon senso (parafrasando Bettelheim, pensare ad una scuola solo quasi perfetta...).
Ci sono sicuramente aspetti del processo didattico rilevabili in termini quantitativi e dunque facilmente misurabili (vedi molte prove di carattere esecutivo, verifiche del possesso di conoscenze "puntuali" eccetera). Importanti. Conoscenze senza le quali nessuna competenza si può esplicare, nessun lavoro creativo si può costruire, emancipandosi dalla tendenza (pure diffusa da noi) alle improvvisazioni. Alcune domande delle prove d'esame dell'anno scorso (ad esempio riguardo la lettura del testo poetico) erano senz'altro di questo tipo. Altre no. Altre chiedevano interpretazioni: un dialogo con i testi e che non si lascia ridurre interamente a misurazione oggettiva, impersonale, al riparo dalla soggettività. Forse, in generale, si può sostenere che più è elevata la prova e la prestazione richiesta (più complesse le conoscenze, competenze, capacità implicate), più sfugge all'attribuzione oggettiva di punteggi, più mette in campo una valutazione che è a sua volta interpretazione, interazione, ascolto, partecipazione. (Ma bisognerebbe ragionare sulla oggettività anche delle prove più strutturate: è significativo, a suo modo, il caso raccontato da Luisa Ribolzi in un convegno del CIDI: un bambino mette il cucchiaino non nella tazza da tè, ma nella scarpa e dunque fallisce la prova; poi il giorno dopo una maestra ha la curiosità di domandare il perché di quell'errore clamoroso e il bambino risponde sereno che lì faceva più ridere... le vie dell'intelligenza sono "meno finite" di quel che si crede).

Una valutazione seria insomma avviene in una relazione non banalizzata, in un contesto vivo e nella circolarità dei processi (aldilà della linea del programmare, applicare, verificare quantità di conoscenze trasmesse-depositate, per poi tornare indietro a colmare eventuali lacune, recuperare e ripartire in avanti). Può essere assai più utile, invece che inseguire il sogno di una forma standard "scientifica" della valutazione (tale da rendere insignificanti e intercambiabili i soggetti che la agiscono), rendere sempre più colta ed efficace la relazione intersoggettiva fra quegli attori: tutto sommato di gran lunga la garanzia più forte contro il rischio del soggettivismo e dell'arbitrarietà. Ma occorrerebbe credo, avere più fiducia nella scuola - negli insegnanti, in presidi e direttori, nei ragazzi e nelle ragazze - di quanta fin qui si sia mostrata.
Sarebbe utile ragionare intorno ad altre categorie concettuali, più biologiche che fisiche in un certo senso, più storico-culturali che scientistiche-riduzionistiche; fondate sulla circolarità oltre che sui percorsi lineari, sulla "apertura" del tempo più che sulle catene delle relazioni di causa-effetto.
Pensare alla scuola come costruzione di mappe in rapporto a territori che non cessano di essere altra cosa dalle carte per il fatto di essere attraversati con ipotesi di lavoro; come intreccio di immaginazione e rigore, di una ricerca che va oltre, sperimenta territori nuovi e si alimenta anche di imprevisti, e poi di una riflessione che seleziona e sistema certi risultati integrandoli nel proprio ordine simbolico. Sarebbe utile riconoscere i procedimenti "stocastici", capaci di contenere il caso e il caos nel consolidamento di un processo evolutivo, come una delle forme anche scolastiche dell'apprendimento.
E poi bisognerebbe radicalmente pensare al fare scuola come ricerca di significato, costruzione aperta di un sapere condiviso, piuttosto che trasmissione di contenuti o addestramento a prestazioni (peraltro sempre più mobili e flessibili nella società del lavoro postfordista): l'aspetto relazionale della didattica non costituendo una sorta di "gradevole ambiente" delle procedure scolastiche, ma il luogo prezioso delle domande con cui dialoga la costruzione dell'apprendimento, la definizione oggi di uno statuto e di un senso, per ragazze e ragazzi, del sapere.
Alla fine potrebbe essere il racconto molto più della classificazione la forma di valutazione adeguata alla complessità del fare scuola. Un racconto che tenga dentro la dimensione del tempo, la specificità della scuola, i suoi confini e la sua apertura: apertura ai processi che avvengono all'interno e intorno alle aule scolastiche; agli eventi che segnano le biografie come le forme di conoscenza e pensiero giovanili. Un racconto che ha ovviamente un narratore (e regista) responsabile della storia, in una rete collettiva di lavoro: ma narratore interno, protagonista del gioco che conduce, non controllore onnisciente e onnipotente dei processi, di cui determinare tutti gli input, verificare tutti gli output, per regolare fasi ritmi ed esiti, al fine di eliminare radicalmente caso e imprevisti. Certo la narrazione non ha molto a che vedere con la ricerca di Domenici o Vertecchi e non risolve i problemi di standard e oggettività. Anzi non li accetta nemmeno come domande legittime. Però ha il merito di assomigliare fortemente alla vita della scuola, alla forma dei discorsi che si fanno, alla realtà della valutazione che l'attraversa. Ha i suoi limiti, ovviamente, ma ha anche senso.
Mentre i sogni di onnipotenza (tipici della cultura occidentale) falliscono spesso. Generando mostri.

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