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Il favoloso mondo del Pil e San Precario
L'Unità - 06-04-2004
di Furio Colombo


La storia è questa: se lavori di più, produci di più. Se produci di più aumenta il Pil (Prodotto interno lordo del Paese). Se aumenta il Pil, aumenta la competitività, che è la famosa e misteriosa cosa che, in un mondo dove la politica è guidata da Berlusconi e la Confindustria da D’Amato, ognuno si volta a chiedere a un altro. E coloro che hanno voluto e ottenuto responsabilità di comando si lamentano dello scarso e scadente lavoro degli altri senza alcuna intenzione di verificare il proprio. Anche agli occhi di chi non fosse fermamente prevenuto, come lo siamo noi, tutto ciò dice male di un modo di governare. Ma c’è di peggio. Sembra che manchi del tutto un rapporto realistico con i fatti della vita. Il mondo dei Paesi industriali (quello vero, non quello inventato da Berlusconi) mentre è alle prese con gravissimi problemi internazionali (il terrorismo) e umani (il disastro delle malattie e della fame nel resto del mondo) è in contraddizione aspra e continua con se stesso. Da un lato il capitale si disamora dei grandi investimenti sul territorio, delle grandi fabbriche, teme le concentrazioni del lavoro e cerca di evitare ciò che una volta si chiamava la “concertazione” (che non è solo un fatto italiano. Ai tempi della potente organizzazione sindacale americana ALF-CIO nessun politico e nessun imprenditore avrebbe mosso una foglia senza adeguate e approfondite consultazioni con i sindacati). L’industria, infatti, diventa finanza, il rapporto con il lavoro fisso e continuativo si fa indesiderato ed evanescente. L’importante non è la moltiplicazione del lavoro e del prodotto. L’importante è la moltiplicazione della ricchezza.
Dall’altra non c’è consesso imprenditoriale o riunione di politici più o meno esperti di economia, in cui non si faccia riferimento al lavoro (e al pensionamento) come se fossimo non al di qua del Novecento, ma a fine Ottocento, con le città-fabbriche, le case popolari, le colonie marine e montane per i figli dei dipendenti e i circoli del Dopolavoro. E allora si discute di età pensionabile da alzare ancora e poi ancora, mentre le città sono piene di cinquantenni esperti e in buona salute che sono stati “messi in libertà” e che si danno da fare ingegnosamente per trovare attività le più precarie possibili. E in giro non c’è persona giovane che abbia un contratto fisso.
Intanto la tecnologia rende disponibili metodi di produzione che richiedono sempre meno persone e sempre meno ore di lavoro umano. Intanto - ad ogni difficoltà di mercato o periodo di rallentamento - le superstiti aziende con fabbrica usano continuamente due percorsi di salvezza: la cassa integrazione e i periodi prolungati di non produzione, spesso camuffati da ferie.
Nel frattempo i costi delle risorse di energia subiscono dei balzi enormi, capaci di far saltare anche il più prudente bilancio. Difficile dire per colpa di chi. Ma certo non dei lavoratori. I sociologi sono costretti a dedicarsi allo studio del “che fare del tempo libero” in cui si affollano i giovani che lavorano troppo tardi, gli anziani che finiscono troppo presto, le donne di cui le aziende si sbarazzano alla prima gravidanza, e tutti i precari che attraversano la vita di lavoro tra vasti intervalli di non occupazione. Altri sociologi, intanto, si occupano del sorgere del fenomeno della persona-impresa, uno che fa tutto da solo e che assomiglia un po’ al primo Bob Dylan che suona la chitarra, soffia dentro l’armonica e intanto canta.

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Ma i nostri esperti di economia, neanche tutti berlusconiani, ma tutti evidentemente “in residence” in un sereno edificio con vista sul passato, immaginano masse lavoratrici che bisogna tenere a bada se no non lavorano abbastanza, se no non producono in maniera adeguata, se no non invadono con la loro produzione i mercati avidi di consumo e non raggiungono le folle ansiose di comprare nuovi prodotti, nuovi gadgets, nuova moda, nuova merce premio per il loro impegno di bravi consumatori. I nostri esperti di economia immaginano - rasserenati - non più un conflitto di classi o un distacco fra ricchezza e povertà, fra coloro che hanno e moltiplicano (perché questo è il genio dell’economia finanziaria) e coloro che non ce la fanno. Immaginano vasti segmenti di popolo che funzionano a staffetta: una parte di noi è inquadrata in immense imprese che pretendono molto da noi, perché ci danno molto, dal medico alla mensa, dalle case ad affitto bloccato alle gite aziendali, e in cambio, giustamente, ci chiedono una, due settimane in più di lavoro per far crescere finalmente il PIL, per ora decurtato dalla pigrizia. Non fate caso al dettaglio: questo lavoro in più va fatto gentilmente e gratis per amore del Pil, una sorta di “oro alla patria” donato da volonterosi lavoratori. Questo popolo che lavora (quasi ininterrottamente in bene organizzati stabilimenti alla “Tempi moderni” che non si fermano mai), passa poi il testimone a una immensa folla di compratori, grande come quella dei lavoratori chiusi in fabbrica per tempi lunghissimi (altrimenti il Pil ne soffre). Questa folla provvede a smaltire la vasta produzione della volonterosa parte produttrice di noi, smaltisce auto e orologi, borse da viaggio e computer, mobili per la stanza dei ragazzi e gazebo per i giardini, oggetti di squisito design e pellicceria. E pazientemente si mette in coda per essere consigliato dalle agenzie “Viaggi e vacanze”. Questa folla ha il dilemma del dove andare, se convenga di più spendere tutte le vacanze in un solo delizioso luogo o se invece sia meglio alternare mare e montagna, galoppo e sci invernale, la scelta, anche un po’ angosciante fra crociera ed esplorazione, fra città d’arte e picchi da scalare.
La disputa sul taglio delle vacanze, l’aumento delle ore, della produttività e, alla fine, come si usa dire in ogni convegno che si rispetti, della “competitività del sistema Italia”, avviene alacremente, fra teorici e politici (di solito tutti seguono la trovata del politico Berlusconi di buttar lì l’argomento perché altrimenti si fa caso al suo malgoverno). Avviene mentre, per esempio, ti dicono che il buco dell’Alitalia è insanabile e che tagli giganteschi del personale sono inevitabili per salvare la “compagnia di bandiera”. Ecco, occupiamoci per un momento di Alitalia. Sono decenni che giro il mondo e posso testimoniare che l’Alitalia e il suo personale costituiscono un insieme produttivo infinitamente migliore di buona parte della concorrenza (ma quella concorrenza, anche la più forte, come TWA o Pan American, è già sparita da tempo). Vediamo. Ore di lavoro? Non risulta che quelli dell’Alitalia lavorassero un minuto di meno di tutti i colleghi del mondo, Air Singapore inclusa. Ferie? Non un giorno di riposo di più di quello stabilito dai regolamenti internazionali per il personale aereo e dalle ferie di tutte le altre compagnie concorrenti. Produttività? Da passeggero (dunque da compratore) non ne ho mai riscontrata di più alta né di migliore su alcuna altra linea aerea.
Lo testimonia, del resto, il successo molto grande dell’Alitalia sul percorso più competitivo, il Roma-Milano-New York. Il numero dei passeggeri americani è sempre stato molto alto. Niente di tutto ciò ha tenuto l’Alitalia lontana dal rischio in cui ora si trova, chiudere o ridurre o licenziare. Adesso è inutile concludere che è tutta colpa del management (o dei vari manager politici che si sono susseguiti, in quest’ultima fase, sotto la guida della accorta e parsimoniosa Lega Nord).
E’ inutile perché il punto è un altro. Il punto è che nessuna delle ricette del premier iperattivo ed esperto solo di calcio e di varietà, e nessuna delle prescrizioni da convegno dei grandi esperti ha a che fare con il dramma dell’Alitalia. E quando quel dramma si sarà compiuto, e migliaia di persone che hanno lavorato benissimo, hanno prodotto moltissimo e non hanno mai fatto un giorno di ferie in più, saranno “lasciate libere”, tutto il corteo dei licenziati entrerà nel convegno senza fine sull’età pensionabile. Dove li metteremo, per essere sicuri che - con il loro peso aggiunto (benché involontario) - non destabilizzino il futuro delle nostre pensioni e soprattutto delle pensioni dei più giovani? In che senso li riguarda quel drammatico spostamento da 60 a 62 anni dell’età pensionabile, visto che di Alitalia e di Parmalat ce ne sono a centinaia e sono tutte ansiose di “snellire”, di “ritrovare competitività”, di portare (si dice ogni volta e in ogni Paese) la produttività al livello degli altri Paesi?

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Mentre scrivo, noto la copertina dell’ultimo “New Yorker”, forse il più importante settimanale culturale americano. Non sempre dedica la copertina all’anteprima di un grande film o di un grande romanzo. Nell’edizione datata Marzo 29, il titolo di apertura è: “Il mistero dei posti di lavoro scomparsi”. La storia è questa: scompaiono a New York o a San Francisco e ricompaiono a Bombay, a New Delhi, a Madras, a Calcutta. Molti uffici statali americani, come il grande complesso pensionistico detto “Social Security”, che si occupa delle pensioni di decine di milioni di americani, ti dà un numero verde, per trattare tutte le pratiche. L’idea è di scoraggiare il contatto personale e gli uffici pieni di gente che aspetta e di impiegati che li fanno aspettare (e che costano). Fai il numero verde e ti rispondono da Bombay o da Calcutta, bravi a lavorare con i computer, un po’ disorientati sulla pronuncia e sulle espressioni colloquiali dei pensionati americani che vorrebbero sapere e capire. Nel frattempo, il pletorico sistema detto “Social Security” si è snellito da non credere, tanto che hanno potuto vendere anche l’immenso palazzo che ospitava i servizi, a Washington. Gli ex funzionari americani - intanto - sono diventati alacri precari, un giorno qui e un giorno là. Certo, con questo modo di lavorare ottieni più giornate lavorative (a compenso dimezzato e senza assistenza medica) e forse cresce anche il Pil.
Per questo, un gruppo di giovani e meno giovani milanesi che non riescono ad agganciare un lavoro continuativo, hanno creato un club di San Precario. Mi aspetto un convegno di esperti economici e di politici intorno al concetto e al futuro di San Precario. Qual è la loro giusta età pensionabile? Quando dovrebbero mettersi in ferie? Ma se avessero due lavori precari invece di uno, a parte un arrotondamento di stipendio e un problema di salute, il Pil salirebbe? E diventeremmo finalmente competitivi con gli altri Paesi? E perché, invece non sospendiamo per un giorno l’infinita discussione sull’età pensionabile di un mondo che è già in pensione, e sul futuro delle pensioni di giovani che non sono al lavoro e che a quarant’anni non hanno versato mai contributi, e sulla produttività e la giusta quantità di ferie di persone che prima (prima, non adesso) stavano all’Alitalia e alla Parmalat, e ci dedichiamo al mondo reale?
Quel mondo - proprio noi dobbiamo ricordarlo? - è un mondo capitalista. Come dimostra la dura e continua contestazione del settimanale finanziario The Economist a Berlusconi, quel mondo non apprezza le bugie, dà poco valore alle fanfaronate, scredita i venditori di parole, diffida di chi annuncia solennemente cose che non può fare, firma falsi contratti con elettori disorientati da un ferreo controllo delle informazioni, non tollera, e anzi condanna, il falso in bilancio. In ciascun giorno del suo governo Berlusconi, viola tutte le regole di un capitalismo normale. E’ vero che vi sono molte persone come lui (dalla Enron a Parmalat) per le strade di un capitalismo avariato del mondo. Ma nessuno di loro è al governo, e alcuni sono in prigione.
Resta una perplessità. Perché tanti rispettabili economisti corrono a raccogliere il bastone dove lui lo tira, senza domandarsi se ha senso discutere accanitamente su fatti e dati che non sono veri? Un esempio per tutti. Non è un giorno di ferie in più o in meno che fa la reputazione di un Paese, ma è la fiducia che quel Paese sa ispirare, a cominciare da chi lo governa. La nostra immagine mondiale, adesso, oscilla fra Berlusconi e Totò Cuffaro. Sarà un giorno di ferie in più o in meno o personaggi così che rendono impossibile la nostra credibilità, la nostra rispettabilità, la fiducia che ispiriamo e dunque la nostra ripresa?

Segnalato da Pierangelo Indolfi

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