Povera valutazione
Chiara Carabelli - 02-04-2004
La valutazione elimina la diversità e perde risorse e valore

La valutazione degli apprendimenti è senza dubbio elemento essenziale del fare scuola ed è quindi innegabile che, volendo monitorare il livello di competenza raggiunto dagli alunni finalizzato a valutare la qualità del sistema istruzione, questo aspetto debba essere centrale.

L’integrazione egli alunni disabili nelle scuole di ogni ordine e grado se da una parte sancisce il diritto alla formazione di ogni cittadino, indipendentemente dalle condizioni di salute di ciascuno, dall’altra non può essere svincolata dall’idea di fondo secondo la quale la presenza in classe di un alunno diversamente abile costringe ad una riorganizzazione complessiva del sistema di insegnamento apprendimento che deve poter avere una positiva ricaduta sull’intero gruppo, senza la quale l’idea stessa di integrazione perde di significato.

Il modello italiano è stato negli anni riconosciuto come all’avanguardia in Europa e nel mondo proprio perché non si limita a fornire agli alunni disabili un contesto stimolante e favorente la crescita dei singoli, ma ha determinato la crescita della riflessione pedagogica e didattica degli operatori coinvolti.

Una valutazione che limita lo sguardo al risultato di apprendimenti considerati indicatori del sistema istruzione, penalizza non solo gli alunni disabili che da questo sistema vengono esclusi perché “non conformi”, ma penalizza in modo ancor più pesante l’intervento docente che ha promosso il raggiungimento di quei risultati.

Il personale docente impegnato in classi in cui sono inseriti alunni disabili deve riorganizzare il proprio impianto didattico per renderlo capace di rispondere a bisogni “speciali”. Ciò, è innegabile, comporta un sforzo non indifferente di rilettura del proprio ruolo e del proprio modo di porsi, dovendo fornire a tutti gli alunni idonei strumenti di crescita culturale, professionale, tecnica ecc…

Eliminare gli alunni disabili dal sistema di valutazione, come prevede l’INVALSI, sottende che i docenti sono legittimati a “non darsi pena” per costruire percorsi didattici fruibili anche dagli alunni meno capaci, sollecitando invece la rincorsa al successo scolastico solo per gli alunni non certificati; ciò porta con sé che il percorso fin qui realizzato nella ricerca di soluzioni didattiche diversificate, attente ai bisogni educativi di tutti, venga svuotata di significato e relegata, nella migliore delle ipotesi, alle buone prassi di singoli docenti illuminati, la cui luce però non è destinata a brillare nel firmamento della scuola italiana.

Nel progetto Pilota 3 per la rilevazione delle attività svolte dalle istituzioni scolastiche, le sezioni relative all’integrazione si limitano a verificare che all’interno dell’Istituto sia presente il gruppo di lavoro per l’integrazione, gli altri items al capitolo INTEGRAZIONE e DIDATTICA sono relativi ai livelli di apprendimento e alla loro conformità con il Progetto Pilota 3, agli extracomunitari o agli stranieri in genere.

Nessun accenno nello strumento di analisi dello stato dell’ arte della scuola Italiana, e del servizio scolastico reso agli utenti in particolare, viene riconosciuto necessario dagli autori alle procedure per l’integrazione degli alunni disabili.

Non c’è quindi alcuna differenza tra un Istituto in cui un alunno disabile trascorre un elevato monte ore scolastico al di fuori dell’aula, in rapporto 1/1 con il docente di sostegno o in piccolo gruppo con altri alunni disabili, dall’Istituto nel quale si effettua una riorganizzazione complessiva dell’impianto organizzativo per facilitare l’integrazione degli alunni disabili (classi aperte, laboratori, organizzazione oraria individualizzata in coerenza con il Progetto Vita di ciascuno, ecc…), né alcun cenno viene richiesto per quanto attiene alle strategie didattiche funzionali all’integrazione degli alunni disabili e che quindi dovrebbero essere adottate dal consiglio di classe (metodo cooperativo, tutoring ecc…)

Se è pur vero che le scelte didattiche che troverebbero la loro motivazione originaria nella presenza in classe di un alunno diversamente abile sono in realtà efficaci anche in assenza di questi ultimi- e quindi potrebbero essere giudicate di per sé come non indicative -, è comunque innegabile che le per poter integrare una scuola deve prima “fare spazio” perché colui o colei che lo occuperà possa sentirsi accolto, rispettato, supportato. Di tutte le iniziative che a questo sono legate e che i singoli Istituti dovrebbero poter mettere in campo non c’è traccia nel questionario, non si rileva nulla sulla capacità di un Istituto di progettare, di mettersi in rete, né tanto meno della banale ma non semplice procedura per l’assegnazione di docente di sostegno o di attribuzione del gruppo classe di riferimento, nodi di non scarso rilevo nel bilancio complessivo.

Elementi su cui mi sembra indispensabile individuare indicatori di qualità oltre a quelli qui accennati, sono:

1. iniziative legate all’accoglienza

2. formazione classi (criteri non solo numerici, come quelli considerati invece nel questionario)attività di rete:

3. raccordi con le ASL per la formulazione e la verifica del PEI

4. raccordi tra le istituzioni scolastiche nei momenti di passaggio (materna/ elementare; elementare/ scuola media di primo grado; scuola media di primo rado/ scuola media di secondo grado)

5. raccordi con le famiglie (partecipazione alla elaborazione e alla verifica del PEI; organizzazione di attività integrate)

6. raccordi con gli enti locali (progetti per le autonomie e per l’integrazione sociale e lavorativa)


7. raccordi con gli uffici per il collocamento mirato (per le scuole medie di secondo grado).

Lavorare su tutto questo comporta energie e impegno, che gli Istituti italiani spesso svolgono in assenza di reali finanziamenti, quindi facendo riferimento all’alta professionalità degli operatori coinvolti, ma che non sono in nessun modo considerati elementi chiave nella costruzione della qualità dell’intero sistema scolastico.





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 Giuseppe Terruzzi    - 04-04-2004
Quel che proponi nell' "articolo" sul sistema di valutazione INValSI rispecchia la tua posizione di fondo sul problema dell'integrazione. Ma evidenzia una questione che non riguarda solo i disabili, perchè coinvolge tutte le diversità. E la questione è quella del metro di valutazione: può essere unico e identico per tutti?
Il metro, per principio, deve essere unico, universale, tale per cui chi vuol comparare le proprie misure con quelle di altri lo possa fare senza dover ricorrere a equivalenze. E' stato abbandonato il "braccio" come unità di misura lineare, perchè il mio braccio è più lungo del tuo... E sono ancora visibili le unità di misura infisse nelle mura di comuni italiani medievali o della prima età moderna: solo con l'età napoleonica si è stabilito un "metro" standardizzato, non utilizzato, per altro, nei paesi anglosassoni.
Fuor di metafora: che cos'è un disabile? E' un alunno che ha diverse abilità, ma non quelle più comuni? Oppure ha le abilità comuni in ... misura diversa? Per definire la disabilità occorre un metro di riferimento. Ed è quello che l'INValSI va cercando.
Le misure che indica non sono assolute, ma totalmente relative: calcolano la media nazionale, la media dell'Italia del nord ovest, la media dei licei e la media dei professionali, la media degli alunni che provengono da famiglia ad alto e basso reddito... E rispetto alla media calcolano la posizione della media degli studenti di una scuola, quanti si collocano nel percentile più alto, quanti in quello più basso...
Non dicono: per essere sufficienti bisogna saper rispondere al 60% delle domande. Costruiscono le domande in modo che siano senza equivoci e che non siano troppo facili: scartano quelle che ottengono risposte esatte da una percentuale troppo alta di studenti e quelle che ricevono una risposta esatta da una percentuale troppo bassa. Poi vedono quanti di fatto rispondono bene in questa o in quella scuola.
L'obiezione che tu poni non riguarda la misurazione delle competenze in uscita, di cui si occupa l'INValSI, ma il processo di apprendimento. Se c'è un disabile in classe, il processo deve essere rivisto. Ma non mi sembra che tu voglia spostare le soglie di sufficienza o cambiare le unità di misura. O ritieni che si debba proporre anche questo? Se cambiamo le soglie di sufficienza, che cos'è la disabilità? Tutti diventano "normali" se il metro di misura è adeguato ai limiti raggiungibili.
Il problema, ti dicevo, è più generale: che senso ha sottoporre lo stesso test agli studenti dei licei e agli studenti dei professionali? A mio parere ha un senso limitato: all'inizio della costruzione del sistema di valutazione è inevitabile che si usi un metro unico per tutti. Poi però, a mio parere, il metro deve essere diversificato, altrimenti gli studenti dei professionali, che si collocano nelle fasce più basse, sono compressi in modo tale che le differenze all'interno del loro sottogruppo diventano difficili da identificare.
Penso che periodicamente, su un campione statistico, si debba individuare un metro di misura comunicabile e comune; ma ogni anno penso sia necessario proporre misurazioni più raffinate, che siano in grado di individuare le differenze all'interno delle fasce di livello dove si colloca la maggior parte degli studenti di una scuola. Con l'intento di stimolare il miglioramento, cioè la modifica delle prestazioni anche in chi comunque non raggiungerebbe livelli elevati.
Se un pdh non ha una programmazione differenziata, ma segue la programmazione comune, deve raggiungere gli standard che sono stati prefissati. Ma questi non possono essere commisurati alle sue capacità di apprendimento. Credo che sia da adeguare il suo percorso, non la meta che deve raggiungere; e tu precisi: il percorso di tutto il gruppo in cui è inserito, che deve muoversi verso la meta prefissata lungo il sentiero adatto al più debole. La cima del monte si può raggiungere per più vie, di solito: lo sa bene chi va in montagna. E chi è saggio segue la via più adatta al più debole, se non vuol lasciarlo a casa. Ma la cima del monte non scende al livello del più debole: resta dov'è.
Il difetto di tanti - e anche mio - è quello di non saper diversificare i cammini e i percorsi.
E tu ti senti a disagio, perchè i colleghi non condividono le tue preoccupazioni e forse neppure le capiscono. Ma la via d'uscita da questa situazione non può essere la rinuncia a porre il problema. Se la didattica per i disabili non deve essere costruita all'insegna del principio: lui fa quel che può; ma deve accompagnare il disabile in un percorso comune verso la meta comune, forse bisogna lavorare per costruire strumenti di diversificazione. Hai constatato come i docenti ripropongano agli studenti gli strumenti che loro hanno trovato efficaci per se stessi, i percorsi che loro conoscono meglio e fanno fatica a creare o adottare strumenti e percorsi diversi. Occorre un lavoro di ricerca, che deve essere agevolato e stimolato, senza insistere continuamente sulle resistenze e le inadeguatezze.
Ma non è facile: quando i miei alunni non gradiscono i percorsi che io propongo, cerco di modificarli, ma se non trovo alternative o non ho tempo di cercare, comunque devo valutare in base ai percorsi già collaudati. Loro restano delusi, io anche, ma non ne vengo fuori facilmente. Anzi: non ne vengo fuori proprio! Se la mia didattica non piace e gli studenti non sanno fare, io metto uno e due. A loro, non a me. Qualcun altro potrebbe legittimamente mettere uno e due a me. Ma agli studenti io non posso che dare quelle valutazioni