Bocciatori e bocciati
Ettore Martinez - 05-03-2004

Il fattore principale di resistenza a qualsiasi riforma sono gli insegnanti. Questa, in buona sintesi, la tesi sostenuta da due autorevoli pedagogisti, i professori Maragliano e Bertagna, entrambi in momenti diversi grands commis dei Ministero dell'Istruzione (il primo quale coordinatore dei "saggi" nell'era Berlinguer, il secondo in quanto responsabile del gruppo ristretto che ha elaborato le Indicazioni Nazionali su incarico dell'attuale ministro dei Miur). La tesi non è nuova (a partire dagli anni Sessanta è stata una questione molto indagata). Ma nuovo è il tono con cui viene riproposta, e inattesa è anche la "solidarietà trasversale" tra personaggi che pensavamo fautori di idee diverse, e persino inconciliabili, di riforma e di scuola. Certamente sbagliando, se è vero che autorevoli esponenti delle due sponde stanno già lavorando all'ipotesi di una "super-riforma" che unifichi il disegno Berlinguer con quello Moratti.

Il "Gruppo dei buonsenso" che annovera tra le sue file personaggi dei centro-destra e del centro-sinistra come Vittorio Campione, ex segretario particolare dell'ex ministro Luigi Berlinguer, Franco Membrini, responsabile scuola di Comunione e liberazione, Luigi Bobba delle Acli (Associazione cattolica lavoratori italiani), la sociologa Luisa Ribolzi e altri studiosi. Portavoce delle loro idee è "il nuovo Riormista" e talvolta "Il Corriere della sera " (il primo intervento è uscito a firma congiunta di Maragliano e Bertagna il 16 dicembre 2002).

Se si trattasse solo di replicare alla sfilza di certe nomenklature, che vedono la stragrande maggioranza dei docenti italiani come un'indistinta palude che "tira a campare" solo perché si mostra recalcitrante a farsi "riformare" dall'illuminato di turno, non varrebbe neanche la pena di occuparsi della questione. Il fatto è che la tesi della "rivoluzione passiva" degli insegnanti contiene anche delle verità, di segno però compietamente opposto a quello della vulgata suddetta.

Cominciamo dal dato di fatto reale: la "bocciatura" da parte degli insegnanti di entrambe le ipotesi di riforma prospettate negli ultimi anni (quella Berlinguer-Maragliano e quella Moratti-Bertagna).

L'accusa in sé contiene una presunzione: non sono i "riformatori" a dover capire le ragioni dei rifiuto delle loro ricette, ma gli accusati a dover "dimostrare" di non essere "conservatori", con un singolare rovesciamento dell'onere della prova. Senza considerare il fatto che si tratta di ricette che invocano una "riconversione professionale" dei docenti a ogni cambio di governo, quando non a ogni inizio di anno scolastico. E, naturalmente, senza considerare neanche in ipotesi che nella "riconversione" richiesta possa avere un qualche peso l'opinione dei diretti interessati. E difatti tutti i progetti di riforma (quelli dell'era Berlinguer e quelli dell'era Moratti) sono stati elaborati e definiti in una pluralità di luoghi - il Ministero, la Confindustria, la Chiesa, "pensatoi" accademici e mediatici più o meno privilegiati ecc. -, tutti ritenuti variamente titolati ed "esperti" a parlare di scuola. Tutti, tranne gli insegnanti: come dire, sono tutti esperti di scuola, tranne chi nella scuola ci lavora ogni giorno. Non è un paradosso nell'era dei sondaggi, del marketing eretto a sistema, dei focus group, della comunicazione globale ecc.? E non è quantomeno comprensibile che chi è stato programmaticamente escluso da ogni possibilità di interlocuzione si senta quantomeno estraneo alle varie rivoluzioni prêt-à-porter che gli vengono via via imposte?


Diaologo tra sordi

Non si tratta solo di risentimento legittimo. La distanza fra riforme proposte e bisogni reali della scuola ha ragioni di merito reali e profonde. E difatti, se nessun "decisore" ha ritenuto mai quantomeno di "sondare" (intendo dire realmente) la scuola e le scuole sui problemi esistenti e gli indirizzi che doveva assumere il cambiamento, è paradossale ma non certamente casuale. Se infatti le scuole avessero potuto realmente esprimersi, molto presumibilmente sarebbe emerso su scala generale ciò che empiricamente si coglie nel dialogo quotidiano con insegnanti e tanti dirigenti. E cioè una valutazione negativa dei modello di scuola proposto, con la sua aziendalizzazione burocratica fatta di meritocrazia fasulla e arbitraria, di "decisionismo manageriale", di svuotamento curricolare attraverso l'impazzimento progettuale ecc. Da qui la necessità dei silenzio, come condizione necessaria per poter calare un abito preconfezionato da sarti interessati su un corpo che si mostra recalcitrante a indossarlo non perché ami l'abito che indossa, ma perché quello nuovo non è della sua misura, nonostante le fogge e i colori diversi con cui via via si presenta. Fuor di metafora, ciò che i docenti non trovano nelle architetture riformatrici altisonanti sono i due elementi reali della crisi della scuola, ossia i bisogni degli allievi e le difficoltà dei docenti. Elementi che riportano entrambi alla questione di fondo sistematicamente elusa: e cioè alla sempre più sostanziale ininfluenza della scuola-sistema nella formazione delle nuove generazioni, i cui effetti più diretti e visibili, in chi nella scuola lavora, sono una diffusa percezione della propria impotenza e un profondo disorientamento.

È questa la vera questione da affrontare, nei suoi "sintomi" - frustrazione e disorientamento dei docenti, ma anche delle famiglie - e nella sua "patologia" di fondo - la distanza tra la scuola e chi nasce e cresce oggi nella nostra società. Questione quanto mai complessa, che richiede di essere declinata su tutti i versanti (politico, istituzionale, culturale, pedagogico, professionale), ma, prima ancora, di essere affrontata con una consapevolezza culturale capace di assumeme la densità culturale e la complessità delle dimensioni implicate dal cambiamento necessario.

Esattamente il contrario, quindi, dei riduzionismo economicistico con cui invece è stato posto e governato il "problema-scuola".
Tale riduzione mira a realizzare una trasformazione della scuola - da agente che educa alla cittadinanza in agenzia che mira a formare consumatori e produttori per il mercato - che mina alla radice tutti gli elementi costituivi della scuola e dell'educazione per come sono venuti definendosi nel corso della modernità. È a questo che molti insegnanti, magari confusamente, si oppongono, dando vita, a loro volta, a un paradosso. Se l'attuale "resistenza" è insufficiente - perché "passiva" e quindi ancora prevalentemente "afona" -, essa esprime nondimeno una forza reale che le deriva da un ancoraggio forte al "tradizionale" mandato costituzionale della scuola, facendo emergere il carattere illusorio di ogni "riforma" che pretenda di governare dall'esterno i processi che avvengono all'interno della scuola.


La carta dell'autonomia

Considerata in questa chiave la resistenza a questi lungi dall'essere segno di "arretratezza", è richiesta - o almeno bisogno - di un cambiamento veramente efficace, che si radica su ragioni forti e concrete dei fare scuola ed esprime una saggezza che un troppo disinvolto prêt-à-porter pedagogico e una certa "creatività progettuale" e "cultura manageriale", che hanno inondato le scuole, non riescono a irretire. Ed è una saggezza che dà i suoi frutti.
Difatti, se si passa dai rutilanti contenitori alla scuola vera, si scopre, per esempio, che la "scuola arretrata" non se la cava poi tanto male almeno in certi ordini, se è vero che la tanto vituperata "scuola dei moduli" che "non funziona" (secondo un'altra vulgata altrettanto trasversale) in realtà è ai primi posti nel mondo per risultati conseguiti dagli alunni nelle performance di lettura (vedi "la Vita Scolastica" n. 3/2003, pp. 13-15, in cui sono commentati dati della ricerca internazionale della Iea). E questo nonostante gli elementi di effettiva disfunzione introdotti da anni (per via amministrativa e legisiativa), che interferiscono pesantemente e quotidianamente nella stessa logica di funzionamento di questo modello organizzativo-didattico (lingua straniera con lo "specialista", gestione della "contemporaneità " per coprire le supplenze). Nonostante questi elementi, la scuola elementare "tiene", anzi tiene "bene", e forse è per questo che è stata definita una riforma che ne stravolge gli elementi più forti (l'impianto programmatico, l'assetto organizzativo-didattico fondato sulla contitolarità pedagogica, la platea evolutiva di riferimento, la distribuzione interna dei quinquennio). Ed è chiaro che di fronte a tali "riforme" non basteranno né la "resistenza" né la "saggezza", né è proponibile un mero ritorno indietro, a una scuola democratica nei principi e negli intenti ma che, all'interno di un modello burocratico, non si poneva il compito di tradurre sul terreno dell'efficacia effettiva le proprie premesse e promesse. La sfida da accogliere e da vincere è invece proprio quella dell'efficacia reale, che presuppone l'assunzione vera e piena di un'autonomia autentica della scuola, da esercitare e utilizzare consapevolmente all'interno della società. Autonomia culturale, innanzitutto: in primo luogo "da" (dalla burocrazia, certamente, ma anche dal potere economico, come dalle famiglie stesse, in certi ambiti e rispetto a certe richieste competitive). Ma soprattutto autonomia "di": di rispondere alla domanda educativa di chi cresce, assumendo come proprio "programma" non ciò che la società chiede ai bambino ma ciò che questi può dare alla società.

Non si tratta quindi di vagheggiare la riproposizione di una "centralità" della scuola in luogo della defunta - e non rimpianta - autoreferenzialità dei passato, ma di fondarne l'autonomia sui bisogni dei destinatari per riproporne il mandato costituzionale e rilegittimarne la funzione sociale sulla efficacia effettiva nel rispondere a tale mandato. È la via dell'assunzione piena e consapevole di una esplicita rappresentanza - non certo esclusiva, ma culturalmente e professionalmente specifica - dell'infanzia, nella società in cui l'infanzia è dapprima socialmente "scomparsa" e poi è stata culturalmente negata.

Nazareno dell'Aquila, ispettore Direzione scolastica regionale, Campania

(in: "La Vita Scolastica", anno 58°, 1 marzo 2004 - Giunti Scuola)


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 Giuliano Galiardi    - 09-03-2004
Egregio Professore,
sono convinto che abbia ragione,
lei ha messo in evidenza il nocciolo della questione,
a fronte di una situazione del genere l'autonomia sembra una buona idea
purtroppo non mi sembra che questa opportunità abbia avuto successo
un pò per colpa della solita inerzia degli insegnanti
ma molto di più per mancanza di generosità e di fiducia del ministero.
Come si fa a intraprendere dei progetti con finanziamenti concessi con il contagocce
e con spazi di manovra ristretti ad un misero15% ?
Distinti saluti
Giuliano Galiardi