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La guerra non è finita
Granello di sabbia - 16-01-2004


L'India è il simbolo del capitalismo escludente.
Oggi, sui binari del neoliberalismo, l'India potrebbe costituirsi un destino differente: più vicino alla grandiosità del Taj Mahal che allo scenario che si scorge dai finestrini del treno.
Ovunque distruzioni, persone corrose dalla miseria, spazzatura e odore di marcio. Animali che mangiano plastica e pezzi di carta in mezzo alle macchine anch'esse corrose, ma dal tempo. Un paese che sembra uscire dalla guerra.
Ma non è questo però che si legge e si sente dire.



Le notizie che vengono dall'India parlano di un'economia che cresce del 5% all'anno e di una società che sta facendo enormi passi nei suoi campi di punta, come l'informatica e la ricerca spaziale.
Si parla della maggior democrazia del mondo, con il suo miliardo di abitanti e le elezioni ogni cinque anni.
Ci si spinge al punto di dire che, a parità di potere d'acquisto, è la quarta economia mondiale.
Il primo ministro indiano Atal Bihari Vajpayee ha condotto il paese sulle strade del neoliberalismo. Permettendo che i capitali internazionali fossero investiti nella costruzione dei porti e delle strade e privatizzando parte delle imprese nazionali. Oggi l'India è considerata una delle economie più appetibili del mondo; le sue potenzialità sul mercato sono messe in rilievo.
La sua classe media viene esaltata, qualcosa come 300 milioni di persone, secondo le voci dell'informazione liberista; nel 2010 saranno 450 milioni.
Il debito estero è diminuito in relazione al PIL.
Dal 38,7% del 1992 è sceso al 22,3% nel 2000.
Una delle relazioni più basse fra i paesi del sud.

Ma in India c'è miseria in ogni angolo.

E' il paese dei mendicanti, della gente che ti ferma in ogni istante con la mano destra chiusa verso la bocca ad indicare la fame. E' il paese dei bambini che si trascinano sui treni, pulendo la sporcizia al di sotto dei sedili in cambio di una Rupia (equivalente e qualcosa come 7 centesimi). Il paese delle caste che organizzano dalla cima l'immobilità sociale.

Lo sviluppo è per pochi.


Dal 1951 l'India ha elaborato piani quinquennali cha stabiliscono le linee guida dei progetti. Adesso siamo al decimo che andrà fino al 2007. Il piano assume la direzione che interessa agli investitori internazionali.
Amplia il progetto di privatizzazione, apre settori economici strategici al capitale internazionale e si impegna al rispetto delle direttrici dell'Organizzazione Mondiale del Commercio e delle decisioni del Fondo Monetario Internazionale.
Questi accordi, che sono molto lunghi, sono elogiati ed allo stesso tempo indicati come fattori di successo dell'economia del paese. Ma lo sviluppo del paese non è stato equanime. Secondo gli ultimi dati l'agricoltura contribuisce al PIL indiano per il 29,1% quando genera il 67% dell' occupazione. Il contributo dell'agricoltura al PIL tuttavia non è cresciuto ma diminuito, il che indica una concentrazione di ricchezza.
L'India è un paese che sembra in guerra, ha bisogno d'essere ricostruito.
L'immagine degli indiani che lavorano in maniera forsennata richiama l'attenzione. Questo fenomeno può essere visto ovunque. La capacità di superamento delle difficoltà ugualmente impressiona. Questo porta a credere che l'India abbia la possibilità di costruirsi un destino differente, più vicino alla grandiosità del Taj Mahal che al tragico scenario che si vede nelle strade e dai finestrini del treno. Ma questo ancora è un'incognita.
Anche perché i binari di oggi sono neoliberisti.


Renato Rovai dall'India per il sito Planeta Porto Alegre

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