Per armi le parole
Giuseppe Aragno - 05-01-2004

La lunga linea che un tempo separava Caponapoli dalle chine dei Miracoli, dei Cristallini e della Sanità, avviando al Sebeto e al mare il fango e l’acqua che piovevano a valle, infuriando da Capodimonte e dai Vergini nei giorni di tempesta, segnava la terra di nessuno tra fascisti e comunisti: ‘a lava ‘e Virgini, ricordavano ancora i vecchi della mia prima infanzia e mormoravano impauriti: ‘o pateterno s’è scurdato ‘e l’acqua!
Per me, che stavo a sinistra, la risicata sicurezza era stretta d’assedio in un’isola rossa, compresa tra via Duomo e via Pessina, Portalba e Piazza Cavour.
Un breve “camminatoio” arrischiato e strenuamente difeso conduceva a ridosso di Santa Chiara, dove la casa di Attilio e Lucia offriva rifugio a qualunque ora del giorno e della notte. Tutt’intorno il nero minaccioso dei mazzieri fascisti e le regole non scritte d’una convivenza diffidente ed astiosa.
La città ormai ci ignorava. Curiosa e stranamente compiaciuta, aveva vissuto con noi la giocosa follia del Sessantotto, ospitando nelle piazze disincantate e indolenti i suoi ragazzi variopinti e musicali: Napoli non si lascia facilmente impressionare. L’onda lunga e rossa dei cortei, con le ragazze mai viste in prima fila e i grandi striscioni di protesta, si era incontrata quasi naturalmente con la furia dei senzatetto, la disperazione dei disoccupati e le manifestazioni degli operai in lotta per il posto di lavoro. Ognuno per la sua strada però: un’anima comune non s’era trovata. Gli operai, appena intravisti fuori i cancelli delle fabbriche che una dietro l’altra chiudevano, erano stati per gli studenti la “classe operaia” e non avevano sapore d’officina; in quanto agli studenti, che pure cominciavano ad essere figli di tutte le classi, erano stati e rimanevano per gli operai i “figli di papà”: quelli di Pasolini a Primavalle. In quella sintonia tra l’intellettuale eretico e i lavoratori del Pci, scarsamente acculturati, si sarebbe potuta leggere la storia d’un isolamento. Ma il presente nasce dal passato e non può avere radici nel futuro: gli manca la consapevolezza d’essere la storia.
Diversamente da quello che poteva apparire, tuttavia, la protesta aveva trovato spazio tra la furia e la disperazione, aveva indovinato la sua lunghezza d’onda e non s’era impantanata nell’antico scetticismo della plebe, che inghiottiva tutto nella sua apatia beffarda.
Di giorno era un susseguirsi di manifestazioni e scontri: torme di senzatetto, operai espulsi dalle fabbriche che chiudevano tra scontri sanguinosi e promesse dei politicanti, studenti in lotta per il diritto allo studio. Il progetto d’una società di eguali era il cuore di un gran sogno, ma aveva contorni indefiniti e si faceva ideologia. Le “masse”, separate, tenevano le piazze con onore, senza firmare accordi, poi la notte il presidio toccava alle esplosioni d’un dissenso che aveva le tinte estreme e la radicale impotenza dell’individualismo anarchico.


Fece epoca un incredibile acrobata in motocicletta, che la notte sfidava la questura dandole appuntamento, incontrandola e beffandola, inafferrabile primula rossa che si esibiva nelle sue incredibili gimcane, trascinandosi appresso l’impotenza delle guardie, il tifo aggressivo e devastante dei teppisti, che scaricavano su vetrine e questurini la rabbia repressa e l’odio insopprimibile per lo Stato e per la borghesia malsana e redditiera. Austino ‘o pazzo – Agostino il pazzo – lo chiamava la gente mentre usava i vicoli dei Quartieri Spagnoli come fossero quinte d’un teatro e si precipitava a tutta corsa verso via Toledo, piombando dall’alto tra le ovazioni del suo pubblico e la furia degli agenti che manganellavano qualunque cosa avessero a tiro. Agostino e basta, per me che l’avevo conosciuto bambino, nel vicolo di Forcella dov’eravamo nati: inquieto, la miseria e l’ignoranza alle spalle, un fratello sparito in un misterioso incendio che l’aveva risparmiato per caso e restituito più solo al suo destino.
Agostino e le sue acrobazie svanirono nel nulla; sulla città calarono a poco a poco ombre dense di agguati e si montarono le scene per un dramma. Nessuno ha mai saputo chi ci fosse davvero dietro le quinte oscure, ma vennero notti amare, che rubarono le piazze alla folla e lasciarono un filo di sangue sulla strada di un sogno.
Fu la strage di Stato a rubarci l’innocenza e non prestate fede a chi ha venduto l’anima: quando nascemmo, avevamo per armi le parole. Avemmo contro il fuoco dell’inferno, un nemico vile, lo capimmo col tempo e non fu certamente facile arrivarci. Un’idea però ve la potete fare: tutto il fascismo delle fogne repubblicane, sopravvissuto in uomini e pensiero entro le istituzioni, la feccia invecchiata nei bordelli del regime che gli anglo-americani liberatori avevano passato a nuovo sotto nastri e mostrine, toghe, feluche e palazzacci, il pattume mimetizzato nell’ombra dei corridoi che legano tra loro i poteri – quelli che Montesquieu vanamente concepì separati nell’inganno giuridico borghese - tutto recitò con perizia scellerata la cupa vendetta di Salò. No, non fu facile arrivarci, ma ci fu tra noi chi riconobbe gerarchi dietro il sipario che calò sulla tragedia.
Quando nascemmo, avevamo per armi le parole, e furono parole a fare la rivoluzione. Anche qui, non date credito a chi sorride beffardo: uno che si vende non ricorda più niente, ma quando ci fermammo il paese non era più lo stesso.
Io no. Io mi ricordo bene ciò che accadde: presi il mio treno in corsa e feci buona parte del viaggio scomodamente poggiato in predellino.
Era andata come capita spesso: il passato ti si para davanti col presente, si traveste, disegna le trame più impreviste e costruisce il futuro. Poi, d’accordo, è anche vero: quisque faber fortunae suae. Ma è un fabbro che trova bell’e pronta la fucina, usa attrezzi già usati e completa un lavoro.

Così fu per me, che alla nascita del movimento studentesco, avevo fatto in tempo a dare ai miei studi faticosi il valore legale del diploma, dopo che mia madre aveva posto il suo definitivo sigillo alla vita che m’aveva dato.
Del mondo che intorno a lei cambiava così radicalmente, aveva, mia madre, percezioni rallentate: tra la foto delle cose che davano i suoi occhi e la lettura elaborata che ne faceva il suo cervello, c’era di mezzo un invisibile filtro. Tutto era un enigma nella sua camera oscura, ma spesso ne venivano fuori lampi d’impressionante acutezza. Così, quando tutti, io stesso, gli amici, la famiglia, ritenevamo ormai chiuso il tempo dei miei studi, lo aveva riaperto nella sua maniera imprevedibile di mutare il corso degli eventi.
La licenza per esami, che riuscì a sottrarmi per due settimane ai lunghi mesi di guardia alla paludosa caserma, portava i segni delle sue lacrime, ma io ci vidi solo il corpo flessuoso d’una ragazza che mi aspettava a Napoli.
- Ci vai con la divisa? - suggerì: rifiutai.
- Prometti che ci provi? - domandò.Non promisi.
M’avrebbe maledetto, lo so, ancora lo sento, se non m’avesse amato a suo modo da morire, e non lo fece; m’avrebbe accarezzato, ma non glielo consentivo ormai da tempo.
Pregò, sono certo che lo fece e ancora pregava, quando il presidente della commissione mi rifiutò infastidito un attestato di presenza:
Ah, guardi, la prenda come vuole, ma gli scritti lei me li fa e consegna solo dopo le ore prescritte! Tutti, capisce? Me li fa tutti, e si ritira il giorno degli orali. Solo allora, se vuole, le firmo l’attestato.
Feci gli scritti per diventare maestro nelle due ore prescritte e giunsi a passare matematica ai giovani e nuovi scienziati della borghesia, creando un caso spinoso. La scuola è sempre stata un assurdo e invano, per cambiarla, ne avremmo fatto di lì a poco il quartier generale della rivoluzione: la soluzione algebrica, che il mio professore fascista al liceo avrebbe trovato “certamente originale, ma tortuosa, caro Aragno”, risultò una patata bollente per la commissione di esame. Gli studenti d’un istituto magistrale di quella matematica non avevano idea, come io del resto non conoscevo le lungaggini della matematica magistrale. La soluzione è corretta, ma il compito copiato, conclusero i borghesi scienziati antichi e in quanto a quelli nuovi e sospetti, il compito l’avevano copiato nello stile degli amanuensi: senza sapere che cosa scrivessero. C’erano gli orali per fare giustizia.


Come sia andata agli altri non ho mai saputo. A me, che chiedevo l’attestato e un paio di giorni per la mia paziente ragazza, il presidente della commissione oppose un rifiuto nettissimo - esami o nulla, condizioni “non negoziabili” - e m’invitò a sedere mentre si lasciava cadere sulla sua sedia e sulla cattedra che aveva davanti, allungandosi verso di me e portandosi una mano alla fronte, come volesse dirmi : ma sei pazzo, insomma!
Era una sorta di molosso buono, con gli occhi acquosi e i capelli cortissimi, l’uomo che quel giorno diede una svolta improvvisa alla mia vita.
- Lei ha fatto lo scientifico, ma il diploma non ce l’ha. E’ così? mi chiese a bruciapelo, mentre mi sistemavo.
- No - replicai infastidito - ma non sono qui per gli esami… non ho studiato. Sono militare in licenza e… vorrei andar via.
Si allungò e si distese con l’aria insinuante, gli occhi acquosi si fecero dolcissimi e le parole sembrarono carezze:
- Ha fatto ottimi scritti. Non può andarsene. Non può fare una sciocchezza simile. Resti e faccia vedere al professore di matematica che è lei quello che ha passato il compito ai compagni. Solo lei può essere stato.
Ce n’era quanto bastava per vincere la mia resistenza e il diploma compensò le mie infinite amarezze di proletario fra i futuri scienziati della borghesia e la fede incrollabile di mia madre.
Un anno dopo, studente all’università, mentre nelle aule espugnate si attaccava la selezione di classe, tornai in quella scuola per una ragazza filiforme che mi aveva incantato e un corso di storia autogestito, in cui feci da riferimento per la Resistenza.
Cominciarono così i giorni in cui sognammo il riscatto. Di ciò che fummo restano tracce ovunque, ma non siamo gli stessi. Ora che passo a piedi giù per via Pessina, dove ogni sera sbucavamo come dal nulla, uscendo dall’antica sala alla galleria Principe di Napoli, mi fa male vedere ch’è sparita la grande tabella con la falce e il martello e i segni degli attacchi improvvisi dei fascisti sulle pareti scalcinate.
Di là partii la sera che conobbi la lama della paura e del coltello fascista. Di là, una sera che s’era fatto tardi per fare attacchinaggio - fuori zona di notte non piaceva a nessuno - e m’ero trattenuto per la riunione della Commissione Scuola, dove portavo esperienze e ferite mai rimarginate. S’era aperta la piaga dei rapporti tra studenti e operai, e bastava sentirlo Fassataro, segaligno e curato, mentre parlava delle difficoltà di comunicazione, perché la difficoltà assumesse un’anima ed un corpo: era egli stesso la difficoltà, con la sovrabbondanza delle parole prese in prestito da letture di politica e storia – la sua vita era lì, ma serviva se stessa – che disegnavano un circuito chiuso, e la tentazione mai superata di insegnare là dove c’era solo da imparare. Scienziato borghese – quanti ne ho conosciuti nel mio campo – non sapeva ascoltare. Imbastiva ragionamenti sottili, produceva analisi corrette, e però non ascoltava. Anche quella sera, che aveva messo al centro gli operai e gli studenti, non ascoltava. Parlava a se stesso, Fassataro, debordava e, movendosi lungo molteplici raggi, percorreva archi sempre più lunghi d’una circonferenza, copriva a grado a grado, tutto intero un cerchio e lasciava sepolti sotto il fiume di parole i dati reali del problema: eravamo due mondi che non si incontravano.
Io ne provai fastidio:
- Tu vuoi quadrare il cerchio, lo interruppi d’un tratto, nel fumo delle sigarette e nel silenzio improvviso.
Fui brusco, mi ricordo, e mi cavai fuori dall’animo un discorso “su erre e su pi greco” - così mi venne di dire - tirando a bruciapelo:
- Fuori dalla geometria di questo nostro linguaggio da un po’ di tempo io vedo solo una sorta di processo estetico: è giusto ciò ch’è detto bene, ed è detto bene ciò che conferma un assunto. E’ un processo illogico. Più ci penso, e più mi pare che il fine delle parole sono le parole. Noi poniamo questioni di progresso sociale. Siamo filosofi e illuministi. La politica, però, non c’entra. Prendete questa storia degli operai, per esempio. Lui disegna un cerchio: è l’area nella quale ci muoviamo. Gli operai ne sono fuori, ed è logico che sia così: noi diciamo fabbrica, capitale e lotta, loro hanno i turni e la fatica, il regolamento e la repressione. Come funziona fuori dal cerchio? Non lo sappiamo: fuori dalle nostre parole, in fondo c’è soltanto il vuoto. La circonferenza che ci racchiude è una barriera insormontabile: gli operai, dentro il nostro cerchio, sentono solo uno spazio saturato. Tra noi e loro c’è un muro: bisogna consentire una circolazione, occorre aprire una breccia.

- Però,
m’interruppe Lucia pensierosa, nemmeno tu vai molto lontano. C’è un muro, dici, quindi apriamo una breccia. E va bene. Ma come? Le parole…
La interruppi. Lungo la schiena mi correva un brivido, perché la risposta mi sembrò subito chiara e raggelante:
- Aprire una breccia in senso militare, sussurrai, mentre lasciavo la riunione. Provocare uno scontro di tale violenza, che la barriera cada e ci vengano dietro.
Pochi minuti dopo ero in strada, seguito da due liceali con il secchio di colla, un pennello e i manifesti arrotolati. Li precedevo, mani in tasca, stretto nel giaccone, e non avevo voglia di parlare. Quello che c’era da dire l’avevo già detto: niente scherzi che ce la fanno pagare. Se n’erano stati zitti e m’era bastato.
Da quando ci avevano assaliti a Via Bellini, stentavo a controllare la tensione faticosa dei ricordi e il respiro si faceva corto mentre tornavano improvvisi il rumore della corsa sul selciato, le ombre sbucate dal nulla nell’umido della sera, la furia delle catene, il vapore delle bocche ansimanti e l’urlo di Lucia caduta in ginocchio, col sangue che colava a rivoli dalla testa sull’eskimo strappato, la chitarra spezzata e lo stupore sul viso addolorato. Mi pareva di sentirla la corsa sul selciato che sprofondava nella notte gli aggressori; la corsa, che ora me li riportava, emersi nuovamente dal nulla, nell’ombra umida delle notte, col vapore sulla bocca, le spranghe e le catene: c’erano addosso, mentre istintivi e lenti, a piccoli passi guardinghi cercavano alle spalle la tutela del muro.
Con la coda dell’occhio la vidi e tremai: a pochi metri da me, sulla fiamma tricolore del Movimento Sociale, la falce e martello si piegava in avanti sulle prime parole di un manifesto incollato a metà: “Una bomba in Parlamento” c’era scritto. Pensai per un attimo a Valpreda e sorrisi, mentre la paura quasi mi schiacciava.
- Idioti! - esclamai. E mi chiesi sconcertato: Quanti ne hanno coperti? Poi scossi la testa, sconsolato: quanti bastavano a tirarceli addosso.
Giunsi spalle al muro e mi fermai. Eravamo in trappola: non una via di fuga. La salita della Sanità era un budello nero nella notte fredda ed il silenzio cupo e gli spintoni facevano male: i due ragazzini inesperti avevano le mani in alto, come soldati che si arrendono. Uno implorava: - non ci fate male.
Pallido come un cencio, io tremavo e mi odiavo per quel tremito irrefrenabile che non sapevo fermare. Avrei pianto di rabbia perché avevo paura, quando dal gruppo dei mazzieri si fece avanti un ragazzo bruno e quadrato, stretto nei jeans scoloriti e in un giaccone di velluto verde scuro. Lo vidi: frenò con un cenno i camerati. Era il caposquadraccia e sotto i capelli corti e la fronte sfuggente, gli occhi sottili sembravano cattivi.
- Chi comanda? Domandò rabbioso, poi mi poggiò sotto il mento il coltello che stringeva in pugno: è l’età la più antica gerarchia.
Il freddo della lama mi gelò ed a stento sentii le parole minacciose scivolarmi sul viso assieme all’alito condensato in vapore:
- Ora tu fai togliere uno a uno i manifesti che avete incollato sopra i nostri e poi ci fai vedere come strappate quelli che portate sottobraccio.
Alle mie spalle un’edicoletta votiva proiettava sul viso del capetto le ombre tremolanti d’un lumino di cera. Vacillai, ma il muro mi sostenne, quando, vincendo la repulsione viscerale che provo per il coltello, scostai lentamente con la mano la lama minacciosa e mi volsi ai miei compagni impauriti con una voce che non riconobbi:
- Andiamo, ha ragione: pareggiamo il conto. Togliamo i manifesti che coprono i loro e strappiamo uno dei nostri ogni volta che quello di sotto si è rovinato. I manifesti che ci restano- proseguii rivolto al capobranco - li portiamo con noi.
Mi sembrava che un altro avesse parlato per me. Un altro che non aveva la mia terribile paura.
Non obiettarono. Ci scortarono, mentre in tre scollavamo e strappavamo, poi, come se avessimo preso un accordo, giunti a piazza Cavour ci separammo. Non una parola. Né noi, né loro.
Quando sparirono nella notte, mi poggiai al muro e vomitai.






Pablo PIcasso:
"Natura morta"- 1912, "Composizione con teschio" - 1908, "Amicizia" - 1908, "Clarinetto e violino"- 1913, "Coppia" (ceramica) - 1963

Mosaico di Ercolano:
La morte di Archimede


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 Aurora    - 06-02-2006
Mi piaci per tutto quello che scrivi e che dici. Mi emoziona il racconto e mi induce al ricordo. Grazie. Aurora Garra