L'Italia dei fratelli Cervi
Piero Fassino - 28-12-2003


Era la livida e fredda mattina del 28 dicembre del ’43, quando al poligono di tiro di Reggio Emilia un plotone di esecuzione della Repubblica di Salò assassinò i sette fratelli Cervi e il soldato Quarto Camurri arrestato con loro qualche settimana prima.
Sono passati sessanta anni, più di mezzo secolo, un tempo nel quale si sono succedute nuove generazioni e su cui incombe il rischio dell’oblio, come accade a ciò che si allontana nel tempo, divenendo via via rarefatto nella memoria.
Proprio per questo sentiamo, invece, la responsabilità - meglio il dovere civico - di non dimenticare.
Non dimenticare che le radici della Repubblica, della Costituzione, della democrazia italiana sono nella lotta di liberazione antifascista e antinazista, nella Resistenza, nella scelta di una generazione - quella dei Cervi appunto - di prendere in mano le armi per rispettare la dignità dell’Italia e restituirla alla libertà.
Non è davvero inutile ricordarlo oggi, in tempi di revisionismo storico a cui in modo sbrigativo troppi accedono - da ultimo anche il presidente del Senato - quasi che l’antifascismo sia non già la matrice che ha dato impronta alla nostra Repubblica, bensì un marchio imbarazzante di cui finalmente liberarsi.
Eppure se guardiamo ai sessanta anni che abbiamo alle spalle non possiamo non vedere quanto i valori dell’antifascismo - la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, la dignità della persona - siano tuttora necessari al mondo e all’Italia.
Chi nell’autunno del ’43 salì in montagna lo fece per mettere fine ad una guerra terribile e con la speranza che il mondo non conoscesse più guerre: sappiamo che non è avvenuto e aver derubricato i molti conflitti armati di questo mezzo secolo in «guerre locali» - forse per rassicurare noi stessi che una guerra mondiale non ci sarebbe stata più - non ha reso quelle guerre né meno tragiche, né meno devastanti.
Chi sessant’anni fa si levò in armi lo fece perché l’umanità non conoscesse più le aberrazioni delle razze pure e delle leggi razziali, dei lager e dell’olocausto. Ma abbiamo visto - nei Balcani che pure stanno nella «civile» Europa - come l’odio etnico, l’annientamento delle identità, l’umiliazione fisica e psichica del diverso, sono malepiante mai estirpate una volta per tutte.
Né è inutile dimenticare che quell’idea di unire l’Europa - che oggi vive un passaggio difficile e critico a cui non vogliamo rassegnarci - nacque proprio all’indomani della seconda guerra mondiale con l’obiettivo di impedire che gli egoismi delle nazioni continuassero ad insanguinare il continente intero.
E chi oltre mezzo secolo fa scelse di mettere a repentaglio la propria vita per riscattare l’onore del paese lo fece perché voleva un’Italia libera e democratica, capace di dare certezze e speranze di vita e di futuro ai suoi cittadini. E se in questi sessant’anni il nostro Paese ha conosciuto uno sviluppo e un progresso senza precedenti lo si deve anche al fatto che la vita della società italiana è stata permeata dai valori dell’antifascismo. Ed è bene ricordarlo oggi in tempi nei quali molti «e soprattutto i giovani - guardano al proprio futuro con minori certezze e la vita di tanti è insidiata da vecchie e nuove precarietà.
Non c’è in tutto ciò nessuna visione agiografica della Resistenza. Anzi, non dimenticare significa anche fare i conti con le pagine tragiche dell’immediato dopoguerra. Quando la vittoria agoniata accieca la ragione dei vincitori e i vinti sono più vinti e indifesi che mai. Non abbiamo chiuso gli occhi - e dobbiamo continuare a non chiuderli - per restituire giustizia a quanti furuno vittime di episodi di vendetta e di esecuzioni sommarie che solo la tremenda asprezza di quella stagione può spiegare, ma non giustificare. Così come non chiudiamo gli occhi di fronte al tram delle foibe e dell’esodo degli italiani dell’Istria e della Dalmazia, una tragedia troppo a lungo rimossa nella coscienza civica degli italiani.
Sì, perché non dimenticare significa battersi, sempre e ovunque, perché gli ideali per cui i Cervi morirono vivano e siano riconosciuti a ogni uomo e a ogni donna. Con la consapevolezza che quei valori non periscono, ma sono motore della storia. Perchè come ci ha insegnato papà Cervi: «Dopo un raccolto ne viene un altro».

Dall'Unità
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 Roberto Zuccolini    - 01-01-2004
ROMA - «Ogni dibattito politico ha i suoi tempi. E l’attuale ...».

FONTE: Corriere della Sera 31 dicembre 2003

«Ogni dibattito politico ha i suoi tempi. E l’attuale è quello giusto: dopo le parole del vicepremier Gianfranco Fini ci volevano quelle di Piero Fassino. Non è un caso che ben due giornali di destra gli abbiano fatto i complimenti: la storia si racconta per intero». Giuseppe Vacca applaude la condanna delle foibe espressa dal segretario dei Ds sull’ Unità , anche se «non è la prima volta a esprimersi in quel modo». E anche l’appello a «non chiudere gli occhi», a «non giustificare» gli episodi di «vendetta ed esecuzioni sommarie» che avvennero dopo la Liberazione e che hanno ispirato l’elogio del Secolo d’Italia e di Libero . Ma il direttore della fondazione Istituto Gramsci tiene a sottolineare che il Pci la revisione storica l’ha già avviata ormai da tempo, «tanto che è arrivato a cambiare anche il suo nome». Come va interpretata l’uscita di Fassino sull’ Unità? «Dal punto di vista storico l’intervento si colloca all’interno della complessa questione del confine orientale del nostro Paese e dei profughi italiani nell’immediato Dopoguerra. Una questione sulla quale si è già scritto tanto. Ma vorrei ricordare che lo stesso Fassino è già intervenuto più volte sull’argomento. La prima, credo, nell’estate del ’90 per sostenere il partigiano Otello Montanari nella sua denuncia di alcune vendette consumate durante la Resistenza in Emilia. Poi, quando divenne sottosegretario agli Esteri del governo Prodi e dovette seguire da vicino la crisi dei Balcani pronunciò nuovamente parole di condanna». È vero, come sostengono in molti, e non solo a destra, che il tema delle foibe è stato a lungo rimosso dalla storiografia marxista? «Occorre riconoscere che per lungo tempo è stato complicato affrontare questo tema da sinistra perché era di appannaggio di una certa propaganda della destra. Ciò non vuol dire che non esistano studi seri sull’argomento portati avanti anche da storici di matrice marxista. Il problema è che i comunisti non hanno mai voluto agitare il problema proprio perché in presenza della strumentalizzazione di chi puntava a delegittimare l’antifascismo nel suo complesso. Ma c’è stata sempre una particolare attenzione a distinguere la Resistenza italiana da quella jugoslava dove l’elemento di classe si sposava ad un duro nazionalismo slavo. Si è trattato di due percorsi diversi anche se ad un certo punto hanno combattuto stessa battaglia contro il fascismo». L’intervento di Fassino non rappresenta comunque una novità di rilievo? «È importante perché assume una particolare valenza politica: è agli uomini politici che spetta costruire una coscienza civile capace di riconciliarsi con il passato. L’intervento del segretario dei Ds va in quella direzione: denunciare gli episodi di vendetta e altre ingiustizie mette ancora più in risalto il valore della Resistenza italiana. Perché nel nostro Paese, a differenza di altri, a prevalere fu il carattere di liberazione nazionale e non la guerra civile. E questo carattere a costituire il coagulo delle forze antifasciste». Non c’è stato un ritardo in questa denuncia? «Trovo opportuno che il dibattito si riapra ora subito dopo un’altra significativa revisione storica, quella operata dal leader di An Gianfranco Fini rispetto al fascismo. Si è trattato di un’operazione utilissima perché ha dimostrato che per progredire non è necessario resettare ad ogni costo la nostra storia e cambiarne i connotati. E non a caso a fare i complimenti a Fassino sono stati prima di tutto due giornali di destra: mi felicito perché è buon segno. Tutta salute dal punto di vista storico e politico». Il Pci e dopo i Ds non hanno quindi nulla da rimproverarsi? «Il Partito comunista italiano non può certo essere accusato di non avere operato cambiamenti significativi: basti pensare a quello del suo nome. Si è trattato di un passaggio impegnativo della nostra storia. E anche sulle foibe, come su tutta la Resistenza, ci sono stati altri interventi importanti negli ultimi anni. Si pensi al discorso di Luciano Violante sui "ragazzi di Salò" e quello di D’Alema che nel ’95 arrivò a riconoscere come nostri anche i valori dell’anticomunismo democratico. Ora è stata la volta di Fassino. Parlare, come si fa spesso, di ritardi non è giusto. Ma è giusto sottolineare che quel discorso oggi ha una valore particolare. Perché pronunciato in questo preciso momento storico».

Roberto Zuccolini