C’è stata una stagione…
Vittorio Delmoro - 29-11-2003
(in partenza per Roma 29)

C’è stata una stagione in cui anch’io ho inseguito i miei miti; oddio, proprio miei non direi, erano i miti di tutti, in quella stagione, i soliti : successo e prestigio personale.

Certo, parlare di successo e prestigio per un semplice maestro elementare, appare un eufemismo degno di miglior causa, ma nel mio piccolo cercavo anch’io un’elevazione privata e sociale che mi permettesse di sopravanzare almeno con la testa (data la statura non certo nordica), la gran massa dei miei consimili e colleghi.


C’è stata una stagione in cui ho girato qua e là per la penisola dietro corsi da seguire e da tenere, nell’illusione che la mia professionalità ne trovasse un giovamento, arricchito dal plauso delle decine di astanti che con me condividevano sorte e miraggi.

Mi sono aggiornato un po’ su tutto lo scibile didattico del mio ordine di scuola e poi anche su quelli contigui, con una propensione antica per le tecnologie della comunicazione; i migliori anni della mia vita, dopo la stagione politica.

Così almeno mi pareva, allora, con un rafforzamento contemporaneo dell’ego e dell’alone aureo in contatto con le altre persone.

Mi pareva, dico, perché ora non mi pare più.

La controriforma morattiana, e prima ancora la riforma dei cicli berlingueriana e il concorsone hanno avuto un merito, fra i tanti demeriti; quello di farmi approfondire le radici della mia professione e l’essenza stessa del ruolo di educatore. Avevo inseguito l’approfondimento disciplinare, la ricerca di metodologie programmatorie, l’experties particolareggiato e, con essi, la presunzione che così sarei diventato più bravo o comunque che questo gli altri avrebbero ritenuto.


C’è stata una stagione in cui ho creduto nella necessità di quelle figure di sistema strappate (una vittoria, dicevano, dicevamo) da un memorabile contratto; non capivo chi altri potesse vestire i nuovi panni sistematici se non io (assieme ad altri, naturalmente); me li vedevo già cuciti addosso, quei panni : collaboratore, tutor di, responsabile per…

A dir la verità, quando furono istituite per davvero (anni dopo) rifiutai sdegnosamente di ricoprire il ruolo di F.O., ma era più che altro una ripicca verso i miei colleghi che non avevano capito la necessità di investire il ruolo con il riconoscimento di un reale mandato, tendendo invece a trasferire su spalle altrui un peso non desiderato.

In realtà cominciavo ad intuire la portata di quelle nefande scelte e me ne tenevo alla larga in attesa che la coscienza diventasse un fatto collettivo, cosa che mi pare sia attualmente in atto.


C’è stata una stagione in cui mi era sembrato che l’autonomia avesse un senso e anche una giustificazione : migliorare l’offerta formativa in ciascuna scuola. Siamo invece ridotti ad utilizzarla oggi come fragile barriera su cui si abbattono le bordate governative; una barriera che non resisterà ancora per molto, se non riusciremo a cacciare la Moratti con tutta la compagnia.

Ma già il cavallo autonomia rispunta dietro l’angolo, con tutto il suo armamentario, a cominciare dal suo fantino e conduttore, il dirigente.

A ripensarci oggi, in una stagione del tutto nuova ed imprevedibile, forse quelle nefaste scelte una logica ce l’avevano : autonomia significa stimolo ad attivarsi, a realizzare idee, a coinvolgere soggetti, a creare reti, a convogliare risorse, con il duplice scopo di attivare un servizio migliore e aumentare il prestigio del condottiero, il dirigente.

Una logica ideale, invero, più che nei fatti; chissà, forse si sperava nella forza di un’idea e soprattutto nello sforzo di volontà…

Alfonso, un caro amico dirigente, ebbe a dirmi una volta : svolgo il mio ruolo con l’intenzione di ostacolare il meno possibile il lavoro quotidiano dei docenti del mio istituto; se poi mi capita di essere d’aiuto, ne sono contento.

Il fatto è invece che i futuri dirigenti si sono rivelati le mezze calzette che erano già prima, poco o nulla scalfiti dai corsi-farsa delle 300 ore; quelli che erano bravi già da prima, hanno continuato ad esserlo anche dopo, seppure con maggiori difficoltà; tutti gli altri si sono adattati alla poltrona, cercando di guadagnare il più possibile col minimo sforzo. Certuni hanno addirittura capito che i docenti diventavano di fatto un nemico, se non un manipolo di dipendenti, e si sono comportati di conseguenza : trovare tra essi i più morbidi e i più vicini al proprio sentire e chiamarli a collaborare al proprio ruolo di cani da guardia controllori del gregge.

Inoltre l’autonomia coi fichi secchi governativi ha aumentato il divario dell’offerta formativa tra chi ha potuto gestire un flusso finanziario pubblico-privato in aumento (le zone più sensibili al mercato) e chi invece non ha racimolato il becco di un quattrino e si è trovato costretto a ridurre l’offerta (le zone a rischio, le periferie, i piccoli centri).


C’è stata una stagione in cui avevo effettivamente misurato la distanza tra uno come me (che si occupava di questo e di quello, al di fuori dell’aula, al di fuori della scuola, ma sempre in relazione alla scuola) e i molti miei colleghi che se ne stavano invece rinchiusi tra le loro mura discenti, preoccupati solamente di quello o quell’altro alunno, di quello o quell’altro programma.

Mi pareva che non vedessero come al di fuori il mondo stesse evolvendo e di come stesse cambiando tutto; mi pareva che non riuscissero a cogliere l’inadeguatezza del loro lavoro e la necessità di una trasformazione radicale.

Mi pareva.

Erano forse invece loro che avevano capito tutto e che stava lì, fra quelle mura, l’essenza del loro lavoro e del nostro essere educatori.


C’è stata una stagione in cui ho pure tentato di misurare, in ore, in soldi, il maggior compenso per questo elevamento al di sopra della folla dei colleghi; di fare i conti al bilancio dello stato, di prevedere se ci fossero le risorse necessarie : non c’erano, neppure allora, stando ai miei conti.

Il concorsone berlingueriano mi ha spinto ad individuare i meccanismi di selezione di questo ceto più avanzato, i destinatari di quei sei milioni in più all’anno (che miseria, in fondo); mi sono arrovellato il cervello per trovare dei criteri oggettivi, degli elementi valutativi non contestabili, delle forme complessive di analisi. Non ci sono riuscito.

Ho partecipato con interesse al dibattito precontrattuale ultimo per gli aspetti relativi alla carriera; mi sono annotato tutte le proposte trovate in rete, le ho analizzate e via via rigettate tutte quante; e sto ora attendendo le risultanze di quel famigerato tavolo MIUR-sindacati che, iniziato il confronto il 20 novembre, lo terminerà il 31 dicembre.

Nel frattempo, la controriforma da un lato e la nuova proposta di legge sullo stato giuridico dall’altro stanno chiudendo a tenaglia qualunque dibattito che avesse lo scopo di trovare seriamente un percorso di carriera; la carriera è già prevista, senza tanti distinguo : tutor e labor; neofiti gruppone ed esperti.

Due, tre gradini risultano essere più che sufficienti; si tolgono un po’ di soldi al primo gradino e si riversano sul terzo, lasciando inalterato quello di mezzo.

Quanto ai soggetti che prenderanno posto sui gradini, la distinzione è presto fatta : sul terzo i collaboratori del dirigente e un po’ di tutor (quelli più malleabili); sul secondo tutti gli altri tutor, scelti dal dirigente; sul primo tutti i labor e i neoassunti.


C’è stata una stagione in cui mi capitava di dimenticare il nome dei miei alunni, mentre conoscevo a menadito membri di Organismi, dirigenti di varie scuole, ispettori tecnici, responsabili di politiche scolastiche; nonché formatori, professori universitari, esperti di tecnologie e compagnia varia.

Ora questa stagione è finita, per fortuna.

È vero che ne sto attraversando un’altra in cui la mia rubrica elettronica è piena di indirizzi di persone che non ho mai visto in faccia, ma che sto conoscendo virtualmente con reciproca soddisfazione e crescita; ma non vedo l’ora, non vedo proprio l’ora di archiviare in una brutta parentesi Moratti, Berlusconi e compagnia e tornare ad occuparmi a tempo pieno di Josephine che arranca e di Roberto che brilla, di Davide che impazza e di Martina che sgobba, di Lorenzo che arringa e di Lucia che affonda…

Vorrei ricordare i pochi anni che mi restano per la pensione con la soddisfazione che deriva dall’aver cercato, per quanto possibile, di accompagnare una piccola comunità di apprendimento e di socializzazione sul percorso condiviso della crescita di ciascuno.

Perché sta qui l’essenza, no?

interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 ilaria ricciotti    - 29-11-2003
La primavera nei cuori dei popoli non morirà mai.

 UMBERTO TENUTA    - 30-11-2003
Anche io, da maestro per 9 anni, da direttore didattico per 12 anni, da ispettore tecnico per 27 anni, ho cercato di fare quello che Lei ha fatto, con gli stessi intenti: ora in pensione da due anni, non ho perduto la speranza, forse perchè non la voglio perdere e lavoro più di prima nell'aggiornamento, all'Università, a scivere libri, a curare prima in METODOLOGIA E DIDATTICA e oggi nella RIVISTA DIGITALE DELLA DIDATTICA .
Non perchè la speranza non può morire (Spes ultima dea!), ma perchè Giovanni, Michele, Filippo, Angela, Sara, Assunta... hanno diritto alla loro piena realizzazione e noi abbiamo il dovere di assicurarglielo per quanto è nelle nostre possibilità (anche noi abbiamo il diritto di realizzarci come uomini e come professionisti!).
Comunque, auguri!
Umberto Tenuta

 Rita Lamberti    - 30-11-2003
Si, certo, l'essenza sta proprio qui,
ma in questa assurda ricerca del proprio ruolo come professionisti di una scuola ipoteticamente adeguata alle necessità dell'oggi,
in questa corsa affannosa verso qualunque forma di aggiornamento o coinvolgimento che potesse in qualche modo qualificarci e rendere più concreto e visibile il nostro impegno una logica c'era:
sentivamo a pelle l'inadeguatezza di un sistema scolastico amorfo, obsoleto,drammaticamente lontano dalla realtà esterna alle quattro mura dell'istituto e ancora più lontano proprio dal mondo in inarrestabile trasformazione dei nostri alunni, avvertivamo impellente il bisogno di un protagonismo attivo, proprio perchè non riuscivamo a condividere l'immobilismo dei nostri colleghi dentro le mura,
e se questo alla fine ci ha tagliato fuori proprio dal contatto diretto con i nostri alunni,
se non abbiamo trovato risposta ai nostri mille "se" e mille "forse",
se ci siamo alla fine ritrovati ad essere solo pedine di un perverso meccanismo politico ed economico che nella ricerca di un modo concreto di avvicinare la scuola al mondo del lavoro ha, di fatto, allontanato noi dal mondo della scuola intesa come comunità di discenti che necessitano di una figura di educatore salda, aggiornata, ma più presente di quanto noi in questi anni siamo riusciti ad essere per loro,
abbiamo, comunque, vinto qualche battaglia sul piano dell'innovazione metodologica e formativa e, in qualche modo e nel nostro piccolo, contribuito al dibattito culturale sulla scuola italiana di questi anni e avvicinato la nostra realtà agli standard europei.
Certo, a pochi anni dalla pensione sentiamo impellente il bisogno di tornare in classe, certi che alla fine è proprio il contatto diretto con i nostri alunni che fa dell'educatore una figura che nessuna tecnologia può sostituire e che nel dialogo e nel confronto diretto con il loro mondo di tutti i giorni, c'è la possibilità di comprendere come il mondo cambia, più che nelle mille e più ore di aggiornamento,
ma almeno noi sentiamo il bisogno di tornare in classe, mentre i nostri colleghi che finora sono stati dentro le mura non vedono l'ora di scappare e stanno solo facendo calcoli su calcoli per cogliere il momento giusto.
In tutto ciò io vedo una positività: abbiamo lottato e siamo stanchi, delusi, frustrati, abbiamo avuto l'illusione di poter cambiare un sistema e non ci siamo riusciti, ma credo che se siamo qui a parlarne significa anche che il sistema non è riuscito a cambiare noi e la nostra forza, il nostro coraggio, il nostro impegno sono ripagati dal nostro essere sempre stati ed essere ancora oggi comunque vivi e propositivi e alla fine, credetemi, i nostri alunni, di cui forse non ricordiamo i nomi, questo lo sanno....

 futura mae    - 19-09-2006
Forse io non sono nessuno... sono solo una futura maestra che sta uscendo oggi da una facoltà che non è servita ad altro che a confondere le idee, dietro lo scudo di una libertà d'insegnamento, un po' abusata e un po' ingenua.
Affatto soddisfatta di quello che è stato ieri nei miei studi (e non parlo assolutamente di soddisfazione valutativa perché prevedo di uscire col max dei voti) rimango in tensione pensando ad un domani carico di difficoltà, incapacità, sottostima (a volte addirittura personale!), ma anche tanta meraviglia del conoscere, del veder crescere, del veder formare...