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Archivi di Stato e “saccheggio privato”
L’Unità - 31-10-2003

Urne etrusche, vasi romani, statue, quadri su tela, tavole, disegni, argenti, porcellane, mobili, documenti storici, lettere autografe di Machiavelli o Lorenzo de’ Medici: nell’articolo 27 del decretone blindato con la fiducia e approvato ieri al Senato, si chiamano «beni mobili» e sono il nuovo tesoro collettivo che Tremonti ha deciso di trasformare in soldi per le sue casse. Per ora, con un elemento di tracotanza in meno, rispetto alla dismissione dei «beni immobili», cioè palazzi, castelli, conventi, aree boschive: per i beni mobili, infatti, non si prevede la formula del «silenzio-assenso» prevista nel medesimo articolo 27 per gli immobili. È quella formula che segna il capitolo finale della vicenda cominciata con Patrimonio s.p.a., e per cui se le stremate Sovrintendenze non riusciranno a produrre in centoventi giorni una perizia che indichi il valore storico-artistico-culturale del bene che il Tesoro vuole papparsi, il bene potrà automaticamente essere messo in vendita. (Ma anche sui centoventi giorni, naturalmente, c’è il trucco: in realtà sono novanta, i primi trenta sono quelli in cui l’Agenzia del Demanio, creatura del Tesoro, produce la lista dei beni che intende alienare, con relativa scheda descrittiva).

Ora, il ministro Urbani va in giro dichiarando che ha salvato i gioielli di famiglia. Già, si venderanno quadri e statue solo se le Sovrintendenze, rispettando i propri tempi, diranno che si può. Ma questo basta a difendere dalle insidie questa nuova fetta del nostro patrimonio pubblico? Perché, che l’idea sia quella di vendere, è chiaro: sennò perché Tremonti i «beni mobili» li avrebbe voluti iscrivere nel decretone? E perché sarebbe stato cassato l’emendamento dell’opposizione che chiedeva semplicemente di cancellare quell’aggettivo, «mobili»?
Le avvisaglie, d’altronde, c’erano state già nei mesi scorsi: alcuni sovrintendenti, da quando s’è messa in moto la macchina di dismissione dei beni immobili, hanno provato a capire se in vendita vanno anche gli arredi che contengono. A Napoli, poniamo, il convento dei Girolamini contiene una delle più famose biblioteche del mondo, con manoscritti musicali di importanza eccezionale, e una quadreria con tele di Guido Reni; ci sono complessi monumentali (mettiamo a Roma Castel Sant’Angelo) che custodiscono tesori archeologici. Ma dal Ministero dei Beni Culturali in questi mesi non è arrivata nessuna risposta.


Nicola Spinosa, sovrintendente del Polo Museale di Napoli - una delle quattro sovrintendenze speciali, con Roma, Venezia e Firenze, nate con decreto del gennaio 2002 - analizza: «Non mi risulta che in nessun altro paese europeo si sia posto il problema di vendere beni mobili o immobili di valore culturale. Né la Spagna, né la liberalissima Olanda. Ci si rifà al modello americano, ma bisognerebbe dire che i musei degli Stati Uniti, sì, a volte vendono o scambiano i propri pezzi, ma loro non espongono la storia propria: espongono quadri italiani o fiamminghi, e questi, sì, talora sono disposti a venderli. Un Andy Warhol, che è un pezzo di civiltà loro, non lo venderanno mai».
Ma qual è il patrimonio che da ieri è entrato in area a rischio? «A rischio gravissimo sono, anzitutto, i musei archeologici» chiarisce Spinosa. «Perché nei loro depositi sono custoditi migliaia di reperti che non sono beni unici, sono frutto di quella che possiamo chiamare industria, per esempio le migliaia di cimeli funerari trovati in tombe e necropoli». Si tratta, cioè, chiarisce, di pezzi singolarmente umili, ma millenari, e che nel loro complesso, e nel contesto in cui sono stati ritrovati, sono la testimonianza della nostra civiltà. Pezzi, proprio per queste caratteristiche, custoditi nei depositi anziché essere esposti, ora a rischio di finire nelle sale di qualche museo americano o nel salotto di qualche miliardario collezionista. Perché, come per i beni immobili, anche di valore storico-artistico-culturale, trasformati in denaro potenziale con la legge istitutiva di Patrimonio s.p.a., si capisce che l’obiettivo non è vendere il David di Michelangelo (come non è vendere la Fontana di Trevi) ma è il resto: ciò che è più celato, più in retrovia. Quel patrimonio minore diffuso sul territorio e stratificato nei millenni che, spiega Spinosa, e qui evoca gli studi di Federico Zeri, costituisce l’identità italiana. L’obiezione dell’uomo della strada è questa: ma se questi tesori sono custoditi nei depositi e non visibili, a cosa servono? «Allora dovremmo bruciare tutti i documenti d’archivio» commenta caustico il sovrintendente. D’altronde, se molta roba è custodita nei depositi, o comunque, se sparsa sul territorio, è ancora non schedata, alle spalle ci sono problemi cronici: mancano spazi espositivi, la cosiddetta «scheda OA», di cui ci si serve, è così complicata che un addetto riesce a schedare un massimo di sei oggetti al mese, mentre le sovrintendenze sono allo stremo per mancanza di soldi e di personale (i concorsi per il personale ausiliario sono fermi da dieci anni). E dunque è un’eccezione il Polo museale partenopeo, che sotto la gestione Spinosa è arrivato a schedare ed esporre il 95% dei propri beni.
Ora, il sovrintendente napoletano ha usato una parola, «archivi», che evoca un altro fronte: gli archivi di Stato. Uno per ogni capoluogo di provincia, sono i «depositi» in cui è custodita la nostra memoria pubblica. Con vincoli, in teoria, anche maggiori di quelli che tutelano altri beni: documenti e archivi sono del demanio, gli archivi sono considerati «universitas rerum» e non possono essere smembrati e, per statuto, non dipendono neppure dalle sovrintendenze archivistiche regionali, che hanno competenza solo sugli archivi privati del territorio.

Quello di Firenze, per esempio, quali tesori contiene? chiediamo alla professoressa Rosaria Mannu Tolu, che lo dirige. «Conserviamo documenti dal 726 dopo Cristo, tutta la documentazione prodotta da magistrati e uffici che hanno esercitato il governo su Firenze e poi sulla Toscana nei secoli, più gli archivi delle grandi famiglie, più gli archivi delle arti» spiega. Sicché nel palazzo di via Giovine Italia (tra gli edifici pubblici candidati alla vendita da Tremonti...) ci sono lettere autografe di Machiavelli, Lorenzo il Magnifico, Michelangelo, Botticelli, Leonardo, i conti correnti del Buonarroti al Banco di Santa Maria Nuova, le carte del governo dei Medici e di quello lorenese.
Piacerebbero a qualche università statunitense? Piacerebbero a qualche collezionista? «Considero inaccettabile, irreale, l’ipotesi che s’intenda vendere questi beni. Non credo che possano attentare all’identità italiana» respinge l’idea la custode di questi beni. Ed evoca quella parola, «demanio», che fin qui, nell’Italia dell’ultimo secolo, aveva significato l’assoluta garanzia. Non fosse che nell’Italia di Tremonti è un’altra quella che ha preso corso: «sdemanializzazione». Via accelerata alla vendita.

Maria Serena Palieri

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 nice dondi    - 02-11-2003
quando il colosseo o l'arena di verona saranno ritenuti beni disponibili?
purtroppo il " signore " che mette in vendita il nostro patrimonio, è stato democraticamente eletto , anche grazie a quella sinistra che avrebbe dovuto risolvere il conflitto di interesse e tanto altro ancora .