Migranti come comuni cittadini
Giuseppe Caccia - 10-10-2003



Diritto al voto

I COMUNI PROTAGONISTI




E’ sempre la stessa storia – annotava nei suoi Taccuini Max Frisch – servono braccia e invece arrivano persone”. Per un curioso paradosso tutto italiano, è l’uomo politico il cui cognome sigla, in buona compagnia, la più inumana legislazione sull’immigrazione di tutta Europa, a rilanciare nel dibattito nazionale il tema del diritto al voto per i cittadini stranieri residenti nel nostro Paese. Poco importa, a questo punto, la strumentalità - tutta interna alla ridefinizione dei rapporti di forza tra partiti e personalità, all’interno del Centrodestra - con cui Fini solleva la questione. Il paradosso sta tutto qui: la legge Bossi-Fini fonda tutto il suo impianto normativo sull’idea che donne e uomini migranti vadano esclusivamente considerati quali “lavoratori-ospiti”, presenze temporanee, subordinate alle contingenti necessità del mercato del lavoro. Niente più che Gastarbeiter, secondo la definizione in voga negli anni Cinquanta e Sessanta in Europa centrale: ma le cose, anche là come noto, sono andate a finire diversamente. Da questo punto di vista, la Bossi-Fini si sta rivelando culturalmente anacronistica e praticamente inefficace nella gestione dei flussi migratori. Una macchina normativa destinata a riprodurre irregolarità e clandestinità, a rendere i migranti soggetti sempre più ricattabili: si pensi, ad esempio, agli effetti determinati dal blocco di fatto delle quote d’ingresso. Se guardiamo, invece, alla fotografia delle tendenze sociali restituitaci dagli esiti della sanatoria e della regolarizzazione oppure, semplicemente, alla nostra esperienza quotidiana, non possiamo che registrare il carattere strutturale e di lungo periodo di gran parte dei fenomeni migratori. Le nostre città, i Comuni, rappresentano, di fronte a ciò, una vera e propria trincea, una “prima linea” nella gestione dell’impatto dell’immigrazione, che costringe ad attrezzare politiche locali mirate, ad organizzare il funzionamento dei servizi nei confronti di una realtà che ridisegna il volto stesso delle nostre comunità. Questa metamorfosi, in senso multietnico e multiculturale, della società locale ci consegna in sostanza un destino che va consapevolmente governato, proprio a partire dal protagonismo dei Comuni, dalla loro capacità di interloquire con le comunità straniere presenti, di confrontarsi con il mondo associativo e sindacale, di collaborare con il terzo settore, di fare rete con altri livelli istituzionali. Insieme, è possibile affrontare i bisogni emergenti di questa composizione di migranti e di costruire le condizioni per il loro riconoscimento come “nuovi cittadini”. E’ un salto innanzitutto di carattere culturale, che va compiuto: non più “lavoratori - ospiti”, ma neppure lo stanco ritornello dell’ “immigrato - risorsa”, risposta debolissima alle ricorrenti campagne razziste. La concreta realizzazione dei diritti sociali ed economici (ad un lavoro dignitoso, alla casa, all’assistenza sanitaria, all’istruzione) deve procedere di pari passo con il pieno riconoscimento dei diritti civili e politici. Solo la combinazione di questi due aspetti può sostanziale la reale inclusione dei migranti nella sfera della cittadinanza, che rappresenta, al tempo stesso il miglior antidoto possibile nei confronti della crescita di fenomeni di marginalità. Per queste ragioni, la Giunta comunale di Venezia ha deciso di assicurare la partecipazione dei suoi “nuovi cittadini” alla vita politico-amministrativa della nostra comunità, modificando il proprio Statuto in modo da riconoscere il diritto all’elettorato attivo e passivo per tutti i residenti, indipendentemente dalla loro nazionalità, fin dalle prossime consultazioni, previste per la primavera 2005. La legittimità di tale scelta si appoggia su tre essenziali riferimenti: la Convenzione di Strasburgo sulla partecipazione politica, le modifiche al Titolo Quinto della Costituzione italiana che riconoscono ai Comuni piena autonomia statutaria, le indicazioni contenute nella bozza di Costituzione dell’Unione Europea. Ed è in questa prospettiva, municipale ed europea al tempo stesso, che l’intreccio tra concretezza dei diritti sociali e pieno riconoscimento, col voto, dei diritti politici non costituisce solo una doverosa opzione solidale, ma il cuore di una battaglia civile, nella quale è in gioco la futura convivenza nelle nostre comunità.

Giuseppe Caccia
Assessore Politiche Sociali
Comune di Venezia



interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 Corrado Poli    - 12-10-2003
IL VOTO AGLI IMMIGRATI: LA DIFFERENZA TRA DESTRA E SINISTRA SI DOVREBBE VEDERE IN RELAZIONE ALLA CITTADINANZA



La proposta di Fini di concedere il voto amministrativo agli immigrati è stata accolta con favore da alcune componenti della Sinistra. Allo stesso tempo ha suscitato dubbi in alcune sezioni della Destra. A mio parere entrambe le reazioni sono ingiustificate.

Le aperture di Fini verso gli immigrati non sono in contraddizione con una precisa nozione dello Stato. Alleanza Nazionale oggi è una forza politica e di governo moderata, che non ha rinnegato la parte dignitosa del suo passato. L’idea di Stato del partito di Fini si collega al Risorgimento, piuttosto che alla Resistenza e alla Costituzione Repubblicana, che tuttavia accetta. Concedere il voto agli immigrati, non significa snaturare quella nozione di Stato/Nazione basata sul principio di comunità storica e naturale, condivisa anche da altri partiti dell’Italia Repubblicana. L’Italia risorgimentale nasceva sull’idea di una forte connotazione etnica e culturale necessarie a definirci italiani. Di conseguenza, la stessa impostazione serve a definire gli stranieri. Costoro, per diventare cittadini dell’Italia, ne dovrebbero assimilare – se lo vogliono – le caratteristiche nazionali. Altrimenti, possono convivere con noi, ma resteranno stranieri. Nella normativa per l’acquisizione della cittadinanza italiana, prevale tuttora il principio della discendenza.

La proposta di concedere il voto amministrativo agli stranieri dimostra maturità e moderazione politica, senza tradimento dell’idealità politica della Destra. D’altra parte, oltre ad esserci normative europee in proposito, sono le esigenze amministrative del quotidiano che inducono a confrontarsi con problemi reali, le cui soluzioni hanno poco a vedere con il colore politico e sono in gran parte obbligate. Una cecità ideologica, aggiunta alla mancanza di una solida cultura politica, indurrebbe solo a errori operativi che un politico capace come Fini (e l’UDC) non vuole commettere.

Ma non si può nemmeno essere d’accordo con il plauso espresso superficialmente da alcune forze di sinistra. Nel concreto, la proposta di Fini è davvero accettabile, per quanto minimale. Va incoraggiata, non solo per motivi tattici di spaccatura della maggioranza, ma per recuperare alla società, persone che oggi non godono di alcuna voce istituzionale. Ma, dal punto di vista culturale e ideale, ci sarebbero gli spazi per contestarla e per proporre un’impostazione radicalmente diversa. Anziché rifarsi allo Stato etnico nazionale, basato sulla discendenza, la sinistra – o altre forze politiche – potrebbero perseguire con chiarezza l’idea di uno Stato e di una cittadinanza basati sull’adesione a un progetto di convivenza sociale. Piuttosto che plaudere buonisticamente al neobuonismo di Fini – che non fa altro che confrontarsi con i problemi oggettivi – la sinistra potrebbe proporre cittadini lavoratori che diventano italiani per il solo fatto di lavorare a un progetto comune con altri cittadini. Indipendentemente da un’idea nazionale etnica.

Nel concreto, le differenze tra destra e sinistra nei riguardi dell’immigrazione sono necessariamente marginali perché in massima parte imposte dalla storia recente. Ma nel discorso politico e culturale, le differenze ideali potrebbero essere ben più profonde e precise se si rispondesse prima di tutto alla domanda: cosa significa essere italiani? La Destra ha una risposta chiara. La Sinistra, se l’avesse altrettanto chiara, troverebbe buoni motivi per proporre un linguaggio diverso e non competere a chi ha più buon senso. Con il solo buon senso non si va lontano. Le proposte sulla cittadinanza avanzate dalla Sinistra sono ancora timide e prive di un adeguato spessore culturale alternativo a quello di Destra.

 Caelli Dario    - 12-10-2003
Chiedo aiuto.

Dove Fini ha chiesto agli extracomunitari di diventare "etnicamente" italiani?

Cosa c'entra lo Stato concepito come etnia?

Chiedo chiarimenti perché mi pare oscuro. Invece penso che la proposta di Fini sia matura ora, dopo la Bossi -Fini che, in qualche modo, ha posto una regola all'ingresso in Italia degli extracomunitari. Ovvero la politica dell'integrazione delle persone è alla base della proposta di dare il diritto di voto. E' una logica che va compresa non solo in chiave pauperistica. Ovvero il diritto di voto non lo diamo solo ai marocchini o ai senegalesi, ma anche agli americani e agli argentini, o ai russi e ai polacchi. E' un segno di civiltà quello di integrare nelle nostre comunità queste persone e di responsabilizzarle circa la costruzione di un progetto comune. E un primo passo utile e dargli la voce, con il voto, per scegliere chi e come deve amministrare la comunità e il territorio che essi abitano. Non è strumentale il sì della sinistra. Fassino, Rutelli e D'Alema sanno benissimo che questa proposta, negli intenti di Fini, è una conquista di civiltà per alcuni milioni di onesti immigrati che stanno vivendo con noi, al nostro fianco e ai quali dobbiamo molto, come loro a noi. E' un dovere condividere anche la responsabilità di costruire un'Italia solidale e forte con chi sta con noi da anni pur non essendo italiano. E' un passo fondamentale per far comprendere a queste persone che l'integrazione può essere definitiva, se lo vorranno, che l'Italia può diventare la loro nazione. Che tra loro e noi non ci saranno differenze.
E se la Lega, per ragioni comprensibili nella sua visione politica della questione, non ci sta, questo è un progetto trasversale che io non mi scandalizzerei fosse perseguito dal Parlamento trasversalmente. Senza per questo pregiudicare il governo. E' un tema di discussione nella destra e nella sinistra che può aiutare a fare chiarezza e a superare reciproche incomprensioni.

 Giuseppe Aragno    - 12-10-2003
Poli scrive cose davvero sensate, sulle quali è dificile non ritrovarsi, e sono disposto ad ammettere che le riserve che saprei esprimere sul DNA di Alleanza Nazionale avrebbero sapore ideologico, sicché le risparmio a chi legge. Paradossalmente, Alleanza Nazionale e l'ex PCI - sulla diaspora del PSI meglio tacere - hanno in comune un percorso di cambiamento imposto probabilmente dalle trasformazioni in atto nella politica e nella società. L'ex MSI Destra Nazionale ha saputo attarversare il guado, lasciandosi dietro tante cose, anche le salmerie. E' approdato a fatica - una fatica che continua - sulla sponda delle destre moderate, senza rinnegare il passato, condannando ciò che c'era da condannare. Questa gente, insomma, non ha cambiato campo: ha tentato di crescere e modernizzarsi sulle antiche radici, ma ha conservato anima e identità riconoscibili.
Il PCI, apprestandosi al guado, ha portato appresso le salmerie, le suppellettili e le cianfrusaglie, ha buttato via libri, anima e cultura ed è fatalmente approdato in un campo potenzialemnte avverso, certamente estraneo; ciò che ne resta soffre di una spaventosa crisi di identità.
E' vero, con il buon senso non si va lontano ed occorre una cultura di adeguato spessore alternativo a quello di destra. Il fatto è che questa cultura è stata svenduta ed il PCI affrontando il viaggio, non ha elaborato una politica, ha disegnato una rotta: tutta la barra a centro. E' per questo che su tanti temi le differenze tra destra e sinistra sono marginali. Entrambe si sono spostate a centro, con una differenza essenziale, tuttavia: la destra è ancora destra, la sinistra non più.
Un'anima non si acquista in nessun supermercato. Un'anima vera, s'intende.